sabato 26 giugno 2010

Saltano in aria le case di Seravezza
Il paese mutilato e irriconoscibile. Vidi la mia casa dividersi in due come fosse stata segata di netto da un filo della cava.

Ero nelle piane sotto le prime case di Giustagnana, tra i castagni in compagnia di altri ragazzi, quel giorno in cui appresi che i tedeschi a Seravezza stavano per far saltare in aria la segheria del “Salvatori”, vicina al ponte del Rossi, al cui piano superiore da diversi mesi era stato attivato un laboratorio dell’arsenale di La Spezia per la produzione di salvagenti. Fummo avvertiti da alcune donne che salivano a Giustagnana attraverso il sentiero proveniente da Riomagno, con dei grossi fagotti che portavano sulla testa. A sentire quelle notizie, per un attimo mi mancò il respiro, perché la distruzione riguardava quella parte di Seravezza dove c’era la casa della mia famiglia che avevamo abbandonato all’inizio dello sfollamento. Ripresomi dall’emozione andai subito ad informare i miei familiari che si trovavano nella casupola tra Giustagnana e Fabiano, e subito dopo mi lanciai scalzo, a spron battuto, giù lungo il sentiero che conduceva a Riomagno. Corsi disperato verso la mia casa. Nei tratti senza curve più di una corsa mi pareva di volare come un falco in picchiata, sentivo i miei calcagni sfiorare il fondo dei pantaloncini. Quanto dolore sentii in quei minuti. Maledetta la guerra! A Riomagno dove giunsi tutto trafelato e ansimante , notai donne, uomini e ragazzi intenti a mettere in salvo le masserizie delle loro case prossime ad essere distrutte, purtroppo non vidi tanti miei vicini di casa. Comunque era un continuo e frenetico andare in su e già dal Ponticello. Si avvertiva nell’aria la drammaticità del momento, la disperazione si leggeva sul volto di tutti. Quando transitai dietro la segheria del Salvatori vidi che numerosi fili che uscivano dalla stessa erano stati già distesi lungo il selciato stradale. Fu allora che chiesi ad un ragazzo che incontrai. “Dove sono i tedeschi?”. Mi rispose che stavano collocando gli esplosivi all’interno della segheria. Vidi che si trattava di proiettili di artiglieria, assai lunghi, particolare che attirò la mia attenzione quando ne vidi un mucchio che era stato scaricato al margine della strada di fronte al vicino molino del Bonci. Appena giunsi nella mia casa sentii dei colpi serrati provenire da una abitazione vicina. Un uomo , aperto un varco tra pali di legno, addossati sul retro della casa di un suo parente, con potenti colpi di mazza stava demolendo un muro laddove c’era l’ingresso ad un fondo murato, nel quale, prima di abbandonare il paese a causa dello sfollamento, era stata nascosta biancheria ed altra roba di maggiore valore. La prima cosa che feci quando entrai nella casa della mia nonna, presi la pistola, che lei teneva in un ripostiglio, era una Colt che aveva portato dall’America il mio nonno materno dove era andato a lavorare due e tre volte alla fine del 1800 e all’inizio del 1900.L’arma era ben conservata, c’erano anche quattro cinque pallottole. “ Se la vedono i tedeschi che ci fa faranno?. Ecco cosa pensai. In preda alla paura, senza pensarci tanto, la buttai nel pozzo nero. Poi mi diedi da fare a trascinare nelle piane del mio orto, insieme a mia madre e a mio fratello che nel frattempo mi avevano raggiunto, qualche mobile della nostra casa. Non trascorse molto tempo dal mio arrivo al Ponticello quando udii il suono di una tromba e subito dopo la voce di una donna che avvertiva una sua amica che bisognava allontanarsi dalla zona in quanto era imminente il brillamento degli esplosivi. Dall’orto mi portai nella strada, dove incontrai un sergente della Wehrmacht, un omaccione biondo con gli occhi chiari sui trent’anni che dirigeva la squadra degli operai della Todt impiegata nella distruzione delle case di Seravezza. Era il solo soldato tedesco presente quel giorno nel paese. Portava una pistola alla cintura. Camminai al suo fianco fino davanti alla Casa dei combattenti, dove gli operai delle Todt stavano in ginocchio intenti ad allacciare i fili elettrici a un detonatore. Seduto su uno scalino li guardavo rassegnato e triste. Ad un tratto un uomo premette o tirò una manovella.. Istintivamente mi tappai gli orecchi con le mani e abbassai la testa. E subito udii l’esplosione, un boato enorme, spaventoso, mi sembrò, per un attimo che qualcuno mi avesse strappato il cuore. Eravamo all’inizio . Giù la segheria, giù la vicina casa del Carducci, rotti i vetri e molti cornicioni, sia del molino del Bonci che delle altre case accanto, tra le quali c’era anche quella abitata dalla famiglia di Renato Salvatori che, negli anni 50, divenne un famoso attore del cinemà. Alta fu la colonna di fumo che si alzò dalle macerie fumanti, mentre un acre odore della polvere da sparo si diffuse nell’aria. . Nel passare davanti alla mia cara vecchia casa vidi che lo spostamento d’aria l’aveva divisa in due parti. Sembrava che fosse stata segata con un filo elicoidale della cava, la parte superiore sporgeva all’infuori più di una decina di centimetri da quella inferiore. Nel vederla così ridotta pensai che non sarebbe stata più abitabile, anche se i tedeschi, dopo qualche giorno non l’avessero completamente rasa al suolo. Addio casa dei miei cari nonni materni dove ero nato e cresciuto e nella quale mi ero spesso sentito al riparo e felice con tutti i miei cari, specie nei freddi inverni quando ci stringevamo tutti intorno al camino ad ascoltare le fole che a noi ragazzi quando eravamo più piccoli i nostri genitori raccontavano in modo da farci spesso sognare. Addio fanciullezza! Mi trovavo davanti alla mia irriconoscibile casa quando mi passarono accanto il Carducci e sua moglie Aurora che poco prima avevano assistito alla distruzione della loro casa,ubicata sul retro della segheria a pochi metri dalla stessa. Erano affranti. Piangevano disperati, i loro volti erano rossi e stravolti dal dolore. Abbracciati l’uno all’altra, entrambi ripetevano in continuazione: “ Non c’è più la nostra casina, non c’è più:::” si allontanarono in direzione del centro di Seravezza, mentre calavano le prime ombre della sera.
Nato figlio della Lupa, poi divenuto Balilla, dopo aver cantato per anni “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza” e anche la canzone “Fischia il sasso il nome squilla dell’intrepido balilla, il ragazzo di Portoria…” che nell’800 tirò i sassi contro i cannoni austriaci, io pavido ragazzo che per essere nominato balilla moschettiere giurai anche fedeltà alla causa della rivoluzione fascista, non ebbi il coraggio di impugnare nell’agosto del 1944 la vecchia Colt del mio nonno, per sparare a difesa della libertà.
Nel ricordare quel giorno lontano mi pare ancora che mi bruciano i piedi, quando camminai scalzo sulle macerie fumanti.

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