lunedì 21 giugno 2010

Otto settembre 1943
(primo capitolo)

L’Italia firma l’armistizio ma precipita nel caos


Nel pomeriggio dell’otto settembre 1943 gli italiani che di nascosto si erano sintonizzati su Radio Algeri ascoltarono, tra non pochi disturbi, il seguente comunicato: “The Italian Government has surrendered its Armed Forces unconditionally” (Il governo italiano ha ordinato alle sue forze armate d’arrendersi senza condizioni). Dopo circa tre quarti d’ora, l‘EIAR (ente italiano per le audizioni radiofoniche) inizia a trasmettere ripetutamente la notizia dell’armistizio proclamato dal Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, succeduto al Cav. Benito Mussolini dopo il 25 luglio. “Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhover, comandante in capo delle forze angloamericane. La richiesta è stata accolta; conseguentemente ogni atto d’ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

Il proclama alla nazione, specificatamente nella sua parte finale non fu chiaro. Quali erano gli eventuali attacchi ai quali i soldati dovevano reagire? Perché non ordinare subito ai soldati italiani di respingere con le armi la prevedibile violenta reazione tedesca, così facendo tante orribili sventure non sarebbero accadute, tante umiliazioni sarebbero state evitate e migliaia e migliaia di uomini non sarebbero morti. Badoglio non valutò il fatto, che pure doveva conoscere, che nei quarantacinque giorni precedenti l’armistizio (firmato a Cassibile il 3 settembre), nel nostro territorio erano affluite quindici grandi unità tedesche, provenienti, in fretta e furia, dal Brennero, dalla Francia e dalla Jugoslavia, con il compito di imbottigliare tutte le divisioni italiane, comprese quelle dislocate in Corsica ed in Sardegna.

L’otto settembre 1943 fu vissuta una grande e breve illusione che coinvolse tutto il popolo italiano che, dopo la diffusione di questo proclama, scese nelle vie e nelle piazze urlando: “La guerra è finita! La guerra è finita!”. Anche i soldati tedeschi che si trovavano in un bar di Forte dei Marmi b per sorseggiare alcune bibite, colti di sorpresa da questa notizia, si unirono al coro. Saltando dalla gioia, abbracciarono e baciarono tutti i festanti, urlando anch’essi: “Guerra finita! Andare tutti a casa! Mamma , figli…”.
In quel bailamme non mancarono uomini che subito avvertirono che il conflitto non era affatto terminato, ma che il peggio doveva ancora venire. Essi compresero che alle divisioni tedesche non sarebbe stato impartito l’ordine di tornare indietro. Ci fu chi pensò che Hitler non avrebbe perdonato questo tradimento. Fare l’armistizio poteva andare bene, ma “schierarsi dall’altra parte è una vergogna”, questo fu il pensiero di tanti italiani. Infatti i tedeschi non fecero marcia indietro e tanto meno stettero a guardare. Essi mirarono a disarmare e fare prigionieri i nostri soldati ormai ridotti allo sbando, senza piani di difesa né ordini. Molti si diedero alla fuga dopo aver abbandonato le armi. Aiutati dalla gente che non esitò a dare loro del cibo, piccole somme di denaro ed abiti civili da indossare in sostituzione della divisa di cui si erano spogliati, proseguirono il cammino nella speranza di fare ritorno a casa. Nei giorni 9-11 settembre 1943 nella difesa di Roma, a Porta San Paolo, si distinsero i Granatieri che non esitarono a scontrarsi a fuoco con i soldati tedeschi; altri scontri cruenti avvennero a Cefalonia, dove migliaia di ufficiali e soldati italiani furono fucilatio per avere impugnato le armi contro di loro.Altri aspri combattimenti avvenenro a Lero e a Piombino ed in altre località.
A Cefalonia, l‘intera guarnigione italiana, che si era rifiutata di consegnare le armi ai tedeschi, ingaggiò contro di essi un’aspra battaglia che durò dal 14 al 22 settembre. Inascoltate furono le richieste di aiuto inviate dal generale Gandin al governo Badoglio, rifugiatosi a Brindisi subito dopo l’annuncio dell’armistizio. Quando i nostri soldati sopraffatti dalle soverchianti forze tedesche (che fecero arrivare 50 aerei Stukas specializzati in bombardamenti in picchiata) si arresero, iniziò contro di essi una barbara rappresaglia. Il bilancio di questa carneficina fu di 65 ufficiali e circa 1250 soldati morti in combattimento; 189 ufficiali e circa 5.000 soldati che si erano arresi, furono fucilati sul campo nelle 36 ore successive alla fine della battaglia; 136 ufficiali furono massacrati dal plotone di esecuzione in località “Casetta Rossa”; 3.000 uomini fatti prigionieri persero la vita in mare a seguito dell’affondamento delle navi sulle quali erano stati imbarcati, che andarono a schiantarsi contro le mine. Chi tentò di mantenersi a galla nuotando disperatamente fu ucciso dalle raffiche delle mitragliatrici tedesche. I primi ad essere fucilati furono il generale Gandin e gli ufficiali che avevano compiti di comando. In totale persero la vita 10.140 italiani, tra fanti, artiglieri, genieri, marinai, carabinieri e finanzieri. I loro cadaveri furono bruciati o gettati in mare. Fu a Cefalonia che iniziò la resistenza che si concluse a Milano il 25 aprile 1945.

L’otto settembre 1943 il re, il principe Umberto, i generali Badoglio, Roatta ed altri ufficiali superiori, abbandonarono Roma per raggiungere Ortona dove, saliti a bordo della corvetta Baionetta scortata dall’incrociatore Scipione l’Africano, raggiunsero Brindisi. La città pugliese era occupata dagli alleati, che nel frattempo erano sbarcati a Taranto e a Salerno. Si trattò di una fuga come tanti italiani sostennero, oppure di un abbandono dettato dalla necessità di salvare la corona, una tesi peraltro condivisa anche da autorevoli studiosi? Soltanto per dovere di cronaca, si deve dire che, a parere di milioni di italiani, tra i quali tutti i giovani di allora che avevano amato il re sui banchi di scuola per avere appreso dagli insegnanti che egli, durante la prima guerra mondiale, era spesso nelle trincee dei soldati, tanto da essere chiamato “il re soldato”, si trattò di una fuga, che destò un profondo dolore a tutto il popolo italiano. Il re aveva il dovere di rimanere alla testa del popolo, magari morire coi suoi soldati che mai dovevano essere abbandonati al loro destino.


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