venerdì 21 maggio 2010

Quei rocciatori che a Seravezza a tutto pensavano fuorché alla guerra

“A Seravezza c'è una ragazza, è la ragazza dei rocciatori...” Era questa la canzoncina che cantavano i plotoni di una compagnia di rocciatori del Regio Esercito Italiano che agli inizi degli anni 40 furono di stanza a Seravezza, quando al termine delle esercitazioni, effettuate sulle rocce dei nostri monti, facevano ritorno matidi di sudore, negli edifici dove erano alloggiati.
Essi dormivano in parte nella palestra della ex scuola media per anni esistente nella piazza del Pontenovo ed in altre stanze in fondo al Chiasso, contigue agli appartamenti dove abitavano le famiglie Bottari e Dell'Amico. Dormivano sulla paglia e sulle felci, Ricordo di averne portate anch'io un bel fascio di questa piantine che tagliai sul monte Canala ad un soldato veneto che frequentava assiduamente la chiesa e che lo vidi partecipare commosso anche alla processione di San Discolio, il santo soldato romano, i cui resti sono tuttora conservati sotto un altare del duomo di Seravezza dei Santissimi Lorenzo e Barbara, che in quel tempo fu invocato dai parrocchiani perchè intercedesse affinché finisse la guerra e si ritornasse a vivere in pace. I rocciatori avevano la cucina da campo proprio in fondo al Chiasso, nello spiazzo antistante la case della famiglia Ulivi. Per la cottura del rancio usavano grossi pentoloni, come combustibile impiegavano la legna: Mai davanti alle loro cucine, ho visto gente chiedere gli avanzi del rancio.. e si che oramai con i generi alimentari razionati la fame incominciava a farsi sentire in giro, specie nella famiglie più povere. I seravezzini sentivano forte la propria dignità personale. I rocciatori erano ben visti da tutti, le mamme di Seravezza vedevano questi soldati come se fossero i loro figli che si trovavano a combattere sui vari fonti, nei quali, molti di essi, purtroppo, vi persero la vita.

A fine conflitto il comune di Seravezza contò la morte di 147 soldati. Di cui 19 deceduti nei lager nazisti, come rilevato dal prezioso libro di Giorgio Giannelli “Sant'Anna l'infamia continua”. Durante la loro permanenza a Seravezza alcuni rocciatori accero il cuore delle ragazze all'amore, come dedussi dal vederle felici e sorridenti in piazza in compagnia dei loro fidanzati ed anche di alcune delle loro mamme giunte, per conoscerle, a Seravezza da località diverse dalla Toscana. Questi forti rocciatori li ho visti arrampicassi sulle rocce del monte Costa , proprio sopra il cinemà dei Costanti mentre andavano in su e giù per il monte usando le corde che stringevano nelle mani con molta maestria. Spesso dei sassi si staccavano dal monte finendo a pochi metri dalla casa del custode del locale; fortunatamente non si è mai verificato un incidente.

Vicina alla chiesa della Santissima Annunziata, fatta saltare dai tedeschi nel 1944, insieme a tutte le case della Fucina e del Ponticello, c'era un esercizio per la mescita di vino, da consumare al banco o seduti intorno ai tavolini. Sopra la porta di accesso avevano messo, attaccato ad un chiodo, un rametto di un pino. L'esercizio era gestito da un uomo di Arni che per questo motivo veniva chiamato l'Arnino. Dopo l'arrivo dei rocciatori quel locale l'ho sempre visto gremito di avventori. Quando aerei americani sgangiarono nel giugmo 1944 alcune bombe su Seravezza, una delle quali centrò in pieno l'edificio dove al piano terra c'era l'esercizio dell'Arnino, la bomba che fortunatamente non esplose, nel punto di impatto col terreno sotto il basamento scavò una grossa buca, quasi rimanendo sommersa dal terriccio che aveva sollevato.

Li ricordo i volti abbronzati di questi rocciatori che sprizzavano felicità allorquando, finite le esercitazioni, al passo di marcia facevano ritorno a Seravezza, iniziando sempre a cantare la simpatica strofetta “ A Seravezza c'è una ragazza, è la ragazza dei rocciatori”. Alla radio erano in voga le canzonette, dal ritmo sincopato, cantate da Alberto Rabagliati, il grande “Raba”, tra le quali, “Ba – ba, baciami piccina sulla bo – bo, bocca piccolina...” Il contagioso brio di queste note conquistò il cuore non solo degli italiani, ma anche quello di molti americani. La guerra appariva lontana dalla Versilia. Ma qualche anno dopo la violenza brutale del conflitto scolvolse e insanguinò anche la nostra terra.

martedì 18 maggio 2010

giorni disperati durante lo sfollamento

1944 –


Quando la mi famiglia ne l’istate del 44 sfollò da Seravezza e andò a rrifugiassi ind’un metato di proprietà d’un fratello di mi pá, sito ’n mezzo a ccastagni tra il Pelliccino e il Colle, a cqualche centinaia di metri sotto ’l crinale del monte di Ripa, l’unica cosa che lassù avea in abbondanza dèra l’acqua che sgorgaa con forza da la sorgente sottostante, esistente a ppòghi metri dal nosso rifugio, che tuttora alimenta la fontana di Rimagno.
Tutti i ggiorni andao a bbébe quel’ acqua bibola freschissima e spumeggiante, più bóna d’un becchiére di spumante. Ricordo che mi diacciavino i ddenti quanto mi dissetao, provando anco un temporaneo ristoro alla calura di que’ giorni, mentre ’l forte getto d’acqua mi bagnaa il viso.Se l’acqua nun ci mancaa, di contro ’l cibo dèra insufficiente ai nossi bisogni giornalieri. Nun voglio stancà chi mi legge se ancora ’na volta scrivo che allora tutta la mi famiglia si nutriva con patatini bolliti, qualche farinata di grano cotta ne l’acqua, con fogacette qualcuna anco di sola crusca e poghi sorsi di latte di pecora che mi má avea da i ssu cognati proprietari d’un piccolo gregge. Meno male che le condizioni di salute di tutti nò dérino ottime. Durante i lunghi mesi de lo sfollamento nimo accusò alcun disturbo; si pativa solo la fame!
Allorché i tedeschi ci fénno allontanà in quattro e quattrotto da quéla località duve aveino costruito, molte fortificazioni, dinanzi a le quali l’avanzata de le truppe anglo – mericane fu fermata per sette mesi, la mi famiglia fenì a Giustagnana, duve trascorsi i più miserevoli e brutti giorni de la mi vita di ragà, resi più duri da la fame da morì che nun mi passava mai.
A Giustagnana si andaa a prende l’acqua ind’una fontanella che c’era lungo la mulattiera a qualche decina di metri sóbbre la chiése. Un filo d’acqua scorreva lungo un rigagnolo (duve si moveino anco dei vermi) che s’era formato lungo il poggio del monte e ci volea del tempo prima di riempì il secchio. A causa dei molti sfollati, spesso si duvea fa anco ’na fila per aspettà il nosso turno. Nun ho mai sentuto nessuno lamentassi per que’ vermi che aveino infestato la fontanella; tutti la bebeino perché già déra qualcò; ci volea che ci mancasse anco l’acqua per aggravà la situazione di per sé già disperata.
Déro pròbbio in fila a la fontanella quando si sparse la voce che dèrino arivi nel paese i soldati di colore mericani dela divisione Buffalo. Di corsa raggiunsi il piazzale de la chiése, sotto il quale, tra gli alti ciuffi di paleo d’una piana, ’na pattuglia di soldati di colore stacéa a scavà de le buche. Dérimo tanti sfollati a guardà la scena, quando, improvvisamente, vicino a nó esplose il primo colpo di mortaio sparato dai tedeschi, forse appostati ne la zona sóbbre Fabiano, oppure dalla cima del monte di Ripa che aveimo davanti duve si erino trincerati. Nó curiosi, tremanti da la pagura, ind’un baleno s’entrò ne la chiése, mentre altri colpi, in rapida successione, si abbattettero nel lògo duve pogo prima c’eravamo tutti radunati; uno esplose anco ai piedi d’un soldato mericano che passava ne la mulattiera al centro del paese e fu il primo statunitense ad esse ucciso a Giustagnana. L'esplosione dei colpi fu terrificante, mi sembrava che mi stiantassero il core. Ancò mi má, deceduta nel 1985, rimase gravemente ferita da le schegge dei colpi di mortaio che per anni le rimasero ind’una gamba, procurandole continui gonfiori e dolori.Le prime medicazioni le furono fatte dai soldati della croce rossa mericana Nel dopoguera la Commissione medica militare di La Spezia le attribuì la pensione di 8^ categoria, ma quéla Centrale di Roma, dóppo anni e anni di attesa, le comunicò che l’infermità era dovuta a l’artrosi di cui déra affetta e non a le ferite subite, per cui non ebbe alcun indennizzo o pensione. Per anni ho visto gonfiarsi la su gamba, quando camminava. Con le dita de la mana, più d'una volta, attastai anco le schegge che le erano rimaste sotto la pelle, tanto da fammi pensà che mi mà sia stata vittima anco d' una burocrazia ingiusta.

lunedì 17 maggio 2010

Renato Salvatori: un versiliese “Povero, ma bello”

Era già grandicello Giuseppe Salvatori, in arte “Renato”, quando la sua famiglia cambiò casa e dal Marzocchino venne ad abitare al Ponticello di Seravezza
Partecipò subito ai giochi di ogni giorno inserendosi molto bene nel nostro mondo di ragazzi, abituati ad una vita semplice.
Fu, e posso dirlo con orgoglio, uno dei tanti componenti della squadra dei “Ponticellesi”, ben conosciuta dalle altre squadre che erano quelle dei “Piazzaioli” (abitanti nelle case del centro) e dei “Riomagnesi”, abitanti nel piccolo borgo di Riomagmo sito a poca distanza da Seravezza
Il nostro spirito di squadra che dir si voglia, giusto o sbagliato che fosse, sentito anche dalle altre squadre di ragazzi, credo che derivasse da quei sentimenti che fin dall’antichità unirono i fanciulli ristretti nei loro contigui agglomerati, visti come i più belli ed importanti degli altri, anche se così non erano.
Noi “Ponticellesi”, tanto per far capire quale fosse il nostro comportamento quando, per gioco, costruivamo lungo le pendici del monte Canala le trincee, issavamo sempre, sul pennone piantato fra i sassi, la nostra bandiera tricolore. La visione di quello stupendo film che fu per noi bimbi degli Anni 30 “I ragazzi della via Pal”, contribuì a rafforzare il nostro “spirito di Corpo”.
Davvero eravamo una bella squadra della quale fece parte, e mi fa piacere ricordarlo, anche Aldo Tessa, un piazzaiolo, cugino di Alberto Benti, quest’ultimo una colonna della nostra compagine.
Il padre di Renato Salvatori lavorava presso la società Henraux, dove svolgeva la mansioni di capo del piazzale o di un laboratorio, così mi pare di ricordare.
Il fratello più grande di Renato fu un forte terzino della squadra di calcio di Seravezza, nella quale lo vidi disputare delle ottime partite.
La famiglia Salvatori non era ricca, ma stava bene anche in rapporto all’attività svolta dal capofamiglia. La miseria di cui parlò un noto settimanale, in occasione della morte dell’attore versiliese, avvenuta ad appena 54 anni, non la vidi mai in quella casa, una delle più belle del rione, dove, fino alla sfollamento ordinato dai Tedesci nel 1944, stetti più di una volta.
In particolare, di Renato Salvatori ragazzo, mi è rimasto impresso il ricordo di quel giorno in cui, insieme a tanti altri coetanei “Ponticellesi”, ci recammo sul monte Canala per giocare ai “Moschettieri”. Con in pugno “succhiotti” di castagno senza la corteccia, duellavamo gioiosamente. La sfortuna volle che con la punta della mia “spada” lo colpissi al volto, proprio sotto un occhio, procurandogli, in tal modo, un piccolissimo graffio. La stessa cosa poteva capitare anche a me, trattandosi di un gioco sconsiderato che i ragazzi non dovrebbero mai praticare per ciò che di grave si può involontariamente causare se il volto non è protetto da apposite maschere.
Nella mattinata del giorno successivo al “duello”, la madre di Renato, signora Giulia, che aveva visto la mia mamma alla fontana pubblica, mi mandò a dire di passare dalla sua casa prima di andare a scuola, perché desiderava parlarmi, senza però precisare i motivi del suo invito. Appena mi vide, senza dirmi nulla, mi accompagnò nella camera del figlio, il quale, disteso nel suo lettino, aveva su entrambi gli occhi grossissime croste che gli impedivano di aprire le palpebre.
“Guarda cosa hai fatto a Beppino!”. Così mi disse, mentre io rimasi ammutolito. Infatti, non seppi cosa risponderle. Non capivo come uno graffietto avesse potuto generare conseguenze apparentemente così gravi. Spaventato, per più giorni preferii percorrere certi tratti di un sentiero tracciato in fondo al monte sopra la mia casa, tutto pieno di pruni, per andare e venire dalla scuola, perché provavo un senso di vergogna a farmi vedere nelle strade per ciò che di grave avevo causato a Beppino.
Non fui più informato sull’evolversi della malattia, come io ritenni che fosse, malauguratamente manifestatasi contemporaneamente al graffio che io gli avevo procurato sul volto.
Col trascorrere del tempo, inaspettatamente, arrivò in Versilia la guerra.

L’ultima volta che incontrai e parlai con Renato Salvatori fu a Valdicastello, dopo l’arrivo dei soldati americani.
Quel giorno provenivo da Giustagnana, dove mia madre era rimasta ferita ad una gamba da schegge di colpi di mortaio sparati dai tedeschi. Ero diretto a Capezzano Pianore, per sapere dai miei nonni che colà si erano rifugiati nel 1944, al tempo dello sfollamento ordinato dai Tedeschi, se c’era anche per la nostra famiglia la possibilità di trovare un alloggio dove poterci sistemare alla meno peggio.
Attraversato il centro di Valdicastello, dove erano stati piazzati batterie di cannoni dei soldati di colore americani della 599 compagnia della divisione Buffalo, che in quel momento non sparavano, percorsi un tratto in salita di un sentiero che conduceva in cima ad una collina piena di olivi. Ad un tratto vidi un ragazzo che, appollaiatosi su una pianta, con un bricco legato ad un ramo, raccoglieva, con tutta calma, i frutti dell’albero.
“Sei tu Beppino?”. “Sono io...”. Dopo esserci scambiate altre brevi parole, in quanto data la nostra disperata situazione avevamo ben poco da dirci, ci salutammo, “ Ciao Beppino”. “Ciao”, mi rispose, mentre io, con lui rimasto sulla pianta, ripresi la mia faticosa marcia.
Negli Anni 50, quando era già famoso col nome d'arte Renato, per le sue interpretazioni cinematografiche, tra le quali ricordo il film “Poveri ma belli”, una domenica mattina di cui non ricordo il mese, una autovettura nera si fermò a Seravezza, all’imbocco di via Roma, mentre io mi trovavo davanti all’edicola, un po’ più avanti, in compagnia di alcuni amici.
A bordo dell’automezzo c’erano più persone; il fratello dell’attore stava sul sedile anteriore. Ad un uomo (Camillo Neri) che nel frattempo si era avvicinato alla macchina, fu consegnata una scatola di cioccolatini o di caramelle, subito dopo aver scambiato alcun parole con gli occupanti del mezzo, nessuno dei quali scese a terra.
Sia io che i miei amici non ci muovemmo. Qualcuno disse che sull’automobile c’era anche Renato Salvatori, che io, a quella distanza non ebbi modo di vedere.
Dopo pochi istanti, invertito il senso di marcia, l’autovettura si allontanò da Seravezza.
Feci male, lo riconosco ancora oggi a distanza di anni, a rimanere distaccato, perché se a bordo della macchina ci fosse stato veramente Beppino Salvatori lo avrei dovuto salutare per forza e fargli tanta festa.
In verità, anche negli anni successivi ebbi il desiderio di trascorrere con lui e con gli altri ragazzi del Ponticello una serata intorno ad una tavola imbandita a festa, per rivivere insieme gli anni della nostra fanciullezza, molto sofferta a causa della guerra che insanguinò anche la nostra Versilia.
Purtroppo, sia lui che io non abbiamo fatto nulla per rincontrarci. È da questa considerazione che nasce il mio dispiacere, che avverto in misura crescente ora che non è più fra noi.
Di lui, però, rimane nel mio cuore l’immagine del suo volto giovane e bello; insomma di un viso che rappresentò nel cinemà, anche a livello mondiale, la giovinezza, la forza e, diciamolo pure, la bellezza di tanti giovani della Versilia. È per questo che noi ragazzi, cresciuti con lui,dobbiamo ringraziarlo, perché riuscì a farci sognare.
Ora da questa terra, dove l’uomo trascina affannosamente il proprio corpo, invio lassù a Beppino Salvatori, dove senza finzioni sceniche s’incontrano nude le anime immortali, liberatesi dalla materia di cui si compone la nostra figura terrena e laddove il suo spirito aleggia anzitempo, credo anche per la delusione che Beppino deve aver patito per essere stato improvvisamente abbandonato dal “Mondo del cinemà”, mentre poteva ancora dare, nei ruoli d’uomo più maturo, altre stupende interpretazioni, il mio caro saluto: “Ciao Beppino”, alla stessa maniera di come lo salutai l’ultima volta a Valdicastello nel 1944.
Suor Giuseppina: una luce nuova sull’asilo Dêlatre durante gli anni 30.

Da tempo avevo in mente di descrivere le emozioni e le sensazioni che più accesero la mia memoria al ricordo durante il periodo in cui, nei primi Anni 30, frequentai l’asilo infantile “Dêlatre” di Seravezza.
Quando vidi pubblicato sul numero 193 di “ Versilia Oggi”,uscito tanti anni fa, l’articolo “ Incubi all’asilo Dêlatre” di Marino Verona, pensai di dover rinunciare al mio proposito, ma dopo averlo letto mi resi conto che, senza essere ripetitivo, c’era ancora spazio per parlare del luogo dove piccolissimo mossi i primi passi, fino a frequentarvi la prima elementare, poiché l’ambiente era cambiato rispetto a quello illustrato in modo davvero mirabile dal Verona.
Erano i tempi in cui non si cantava più la “Marsigliese”, ma “Giovinezza, giovinezza…”.
Conservo nella memoria alcuni sprazzi del primo giorno in cui traballante sulle piccole gambe, con il panierino in mano ed il grembiulino nuovo, accompagnato da mia madre, mi trovai proiettato in un’atmosfera nuova che subito mi sembrò festosa, anche se alcuni bimbi piangevano e non volevano staccarsi dalle mani delle loro mamme.
Certo che trovarsi ad un tratto a vivere con tanti coetani, in un mondo in cui tutto è programmato, ed a contatto con persone adulte viste per la prima volta, ritengo che sia stato quantomeno motivo di sconvolgimento per tanti bambini, considerata, soprattutto, la loro tenera età.
Pur se molto preoccupato, non ricordo di avere pianto quando per la prima volta varcai la soglia del “Dêlatre”.
La giornata era bella e le strade di Seravezza, allora non asfaltate, erano tutte cosparse di ghiaino.
Prima di arrivarci mia madre si fermò presso il negozio della “Cooperativa di consumo di Pietrasanta”, poco distante dalla casa dei “Combattenti”, per acquistare un fiasco di vino, con il “sigillo d’oro”, che poi donò alle suore.
Durante gli anni che vi trascorsi la nostra sorvegliante era ancora l’anziana Francesca. La donna incuteva sempre timore, tutta indaffarata a farci stare il più possibile silenziosi e buoni. Il lungo trascorrere del tempo doveva averla però addolcita perché spesso sapeva sorridere. Non ricordo di averla mai sentita pronunciare la frase: ”Se vengo lassù ti spacco il nome del padre”, che era solita rivolgere nel passato ai bimbi e che certamente doveva impaurirli molto, come riferito dal Verona.
La signora Francesca mi fece molta festa una domenica pomeriggio, quando la incontrai in piazza mentre ero insieme a mio padre, il quale poi, in segno di riconoscenza, la invitò a bere un bicchierino presso il bar del “Battelli”.
In cucina vi lavorava la Dina, donna mite e sempre sorridente.
Fra le suore di San Vincenzo che si occupavano dell’asilo, spiccava per la sua dolcezza e bontà suor Giuseppina dal volto bellissimo, senz’altro specchio della sua anima.
Nel momento in cui appariva nelle aule tutto s’illuminava. Il copricapo alato faceva risaltare ancora di più la sua delicata bellezza e la grazia del portamento. Ella seppe trasmettere a noi bambini i segni della sua amabilità e del proprio amore.
D’origine romagnola, visse a Seravezza dal 1927 fino alla morte avvenuta nel 1976. Amò profondamente il nostro paese in un modo tale da arrivare a dire: “Preferisco essere sepolta viva piuttosto che lasciare Seravezza”, come mi riferirono suor Luisa e la buona Dina, entrambe scomparse, che vissero insieme gli ultimi anni della loro vita. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Seravezza accanto a quelle di tanti seravezzini che le vollero bene, nessuno escluso. Una suora indimenticabile!
Non ho ricordi dell’anziana Superiora che vidi raramente forse per le sue non buone condizioni di salute, né della giovane suor Luisa, la quale si occupava soltanto delle fanciulle desiderose di imparare a ricamare.
Si doveva osservare l’ora del riposo “forzato” senza che nessuno ne avvertisse il bisogno, per questo tanta era la gioia che si provava quando si ritornava all’aperto, anche se non potevamo correre liberamente nel giardino, in quanto piccolo e tutto ricoperto di marmoline che si sentivano sotto le suole dei sandalini e delle scarpette fino a farci male.
Veder crescere le canne d’india lungo il muro di cinta, destò costantemente in me il desiderio di possederne una per la pesca.
Fu proprio all’asilo che un giorno appresi d’essere “Figlio della lupa”.
Ciò avvenne quando, dovendo noi bimbi presenziare ad una cerimonia pubblica, per la prima volta con il “Fez” in testa, ci fecero indossare la camicetta nera, i calzoncini grigi, il fazzoletto al collo, con appuntato un grosso medaglione del Duce, la cui faccia incuteva timore, e con tutte quelle cinturine bianche alla vita ed intorno al torace.
Sotto l’aspetto coreografico doveva essere un piccolo spettacolo.
Prima che si uscisse nella strada, le belle ragazze di Seravezza dell’Anni 30, che stavano al piano di sopra intente al loro lavoro, scesero nel cortile per festeggiarci. Gioiose e con sorrisi luminosi, appena ci videro, ci accolsero con lunghi applausi e grida: “Viva i figli della lupa…”. Nel sentire ancora d’essere “Figlio della lupa”, come già mi avevano accennato durante la vestizione, rimasi molto perplesso, tanto da avvertire subito il desiderio di chiedere spiegazioni ad un bimbo più grande che mi stava vicino. Seppi da lui che ci chiamavano così perché, secondo la leggenda, i figli della lupa, così chiamati, erano stati allattati dalla stessa “lupa” che aveva nutrito il fratelli Romolo e Remo, quando vide la cesta con questi due bambini, che era finita lungo le rive delle acque del fiume Tevere, sul quale furono abbandonati.
“Romolo e Remo”, ripetei timidamente. “Sì, Romolo, il fondatore di Roma”, aggiunse tutto soddisfatto nel rendersi conto che sapeva tante cose più di me. In verità non riuscivo ad afferrare bene il significato di quelle parole; anche il riferimento all'uomo che aveva fondato Roma rendeva la mia mente ancor più confusa, perché di certo sapevo di avere una mamma e l’improvvisa apparizione di una “lupa” immaginaria non trovava nella mia testolina alcuna logica collocazione.
Quando il mio amico Aldo, che abitava anche lui al Ponticello, in fondo al “riccetto”, abbandonò l’asilo per seguire i genitori nel lontano Perù, dove il padre aveva trovato lavoro, ebbi il primo dispiacere della mia vita. L'ultimo giorno che frequentò l'asilo prima di partire, gli regalai una medaglietta della Madonna perché lo proteggesse durante il lungo viaggio.
E’ vero che dopo qualche tempo appresi che era arrivato felicemente nel nuovo continente, ma prima che lui partisse sovente pensai a quella lunga traversata degli oceani, che mi appariva un’impresa affascinante, come quella di Cristoforo Colombo, del quale avevo già sentito parlare, ma al tempo stesso anche pericolosa per le possibili tempeste, in mezzo alle quali, tra onde altissime, la nave poteva inabissarsi.

sabato 1 maggio 2010

31 Agosto 1943: pioggia di fuoco su Pisa

Impazienti, con la fame che sentivano, i quattro ragazzi seduti intorno alla tavola della cucina, apparecchiata con rituale amore, aspettavano che la loro mamma mettesse nei piatti la minestra che anche in quel giorno di guerra era riuscita a preparare, nonostante le quotidiane difficoltà dovute al razionamento dei generi alimentari, in vigore da lungo tempo. Eravamo quasi alla vigilia dell’otto settembre 1943, il giorno dell’armistizio e della breve illusione per quanto riguardava la fine del secondo conflitto mondiale, che invece continuò e fu combattuto per oltre un anno e mezzo su gran parte del nostro territorio nazionale, causando innumerevoli morti e feriti, nonché immensi cumuli di macerie. Scottavano, sotto il sole caldo e l’aria stagnante di fine agosto, i tetti delle case della città della Torre pendente. Sull’Arno, ancora d’argento e con alcuni tratti della riva attrezzati con cabine e ombrelloni dai colori variopinti, gruppi di bagnanti trovavano refrigerio alla calura tuffandosi nelle acque limpide e piene di pesci, fatto questo che rese più sopportabile la fame a coloro a coloro che esercitarono la pesca, per tutto il periodo della guerra. Nell’importante nodo ferroviario continuava il movimento dei convogli carichi di munizioni e delle tradotte dei soldati, dall’espressione dei volti cupa e dagli animi ormai rassegnati alla sconfitta, che appariva sempre più evidente dopo lo sbarco in Sicilia degli Americani.

I quattro ragazzi in giro in città avevano sentito dire che Pisa era stata dichiarata “città aperta”, senza sapere di preciso cosa ciò significasse. Avevano tratto la convinzione che, così definita, la città non sarebbe stata bombardata dagli aerei nemici e che gli opposti eserciti in lotta non vi avrebbero mai combattuto all’interno. Quando il suono agghiacciante delle sirene che segnalavano l’arrivo formazioni aeree note come “fortezze volanti” si diffuse nell’aria, a differenza della mamma subito in preda all’angoscia, i ragazzi si dimostravano abbastanza tranquilli, tanto da chiederle ancora: “E’ cotta la minestra ? Quanto ci vuole ancora?”.
Intanto il rombo dei motori degli aerei si sentiva sempre più forte, fino al momento in cui si udirono anche i primi sibili delle bombe sganciate sull’abitato, seguiti dall’esplosione terrificante delle stesse, al momento del loro violento impatto a terra. Dio mio! Dio mio !”, gridava la mamma disperata, abbracciata ai suoi figli, che immediatamente si erano aggrappati a lei per proteggerla coi loro corpi, scossi dallo spostamento d’aria provocato dalle continue deflagrazioni. “Mamma, mamma, stai calma, stiamo accanto a te!”. Così i ragazzi tentavano di rincuorarla, anche se erano arrivati a pensare, ad eccezione di uno, che aveva assunto un atteggiamento di sfida, che sarebbero morti tutti insieme.

Settanta aerei nemici, ad ondate successive, fecero cadere micidiali bombe ad alto potenziale, nella zona della ferrovia, di Porta a Mare e nelle aere limitrofe, provocando la morte di seimila persone, secondo la coscienza degli uomini, anche se i dati ufficiali indicano il millenovecento circa le vittime di quel tremendo bombardamento. Contare il numero dei morti fu un’impresa difficile. Molti cadaveri erano irriconoscibili; di tante persone rimasero soltanto poche ossa e brandelli di carne: “Quanti saranno gli esseri umani che sono deceduti in modo così atroce? Messi nei sacchi, come stiamo facendo, chi potrà mai accertarlo?”. Questi furono gli interrogativi che pose ad alcuni militi dell’ANPA (Associazione Nazionale Prevenzione Antincendi) il versiliese Marino Lorenzoni, militare del genio, il quale partecipò alla pietosa estrazione dei corpi dalle macerie e fu impiegato anche nei lavori per la riattivazione della rete ferroviaria. “I sacchi vengono pesati. Trenta – trentacinque Kg. è il peso considerato equivalente al corpo di una persona, così tragicamente perita”. Ecco l’agghiacciante risposta che ottenne. Lo scenario in cui si muovevano gli uomini impegnati nell’opera di soccorso, era terrificante: rovine fumanti e migliaia di resti di cadaveri ovunque. Marino Lorenzoni, nei pressi della stazione ferroviaria, vide una pianta di fico, (salendo sulla quale, qualche giorno prima era riuscito a sfamarsi), sradicata e fatta volare sulla terrazza di un edificio dall’esplosione di una bomba.

Sull’altare della chiesetta annessa al convento di clausura dell’ordine Domenicano, ubicato all’inizio di Corso Italia, sul retro della piazza Vittorio Emanuele II, da alcuni giorni era stato solennemente esposto, per l’adorazione, l’Ostensorio. La secolare serenità del convento, pur già rattristata dalla tragica guerra, fu sconvolta dall’improvvisa ed inaspettata azione aerea nemica. “Presto al rifugio! Via! Via!”, gridava la Madre Superiora alle suore. Non tutte però l’ascoltarono. Una si ricordò del “Corpo di Cristo” rimasto sull’altare “Devo salvarlo, devo…” mormorava dentro di sé. E così nell’attimo in cui le sue sorelle raggiungevano il rifugio, ella entrò correndo nella chiesa. Dopo un’accennata genuflessione, afferrò l’Ostensorio, che strinse al petto, mentre il suo corpo fu raggiunto da fasci di luce celeste, penetrati nel sacro edificio attraverso le vetrate. La suora provò una gioia immensa; non udiva più le esplosioni. Un sorriso luminoso si stampò sul suo viso. Fu proprio mentre viveva quei momenti di estasi, che un ordigno esploso nelle immediate vicinanze, fece crollare la chiesetta. Caduta in ginocchio, piegata su se stessa, per meglio proteggere il “Corpo di Cristo”, fu sommersa dalla macerie. In quella posizione, senza vita fu trovata dalle squadre di soccorso. Stretto, serrato nelle sue pure mani come in una morsa, l’Ostensorio era rimasto intatto.

Il gesto d’amore della suora che donò la sua vita per salvare il “Corpo di Cristo” deve indurre tutti gli uomini a serie riflessioni, perché si manifesta come un atto di condanna della guerra, che mai dovrebbe esserci fra i popoli delle varie nazioni; essi, per evolversi e migliorare le loro condizioni di vita, hanno assoluto bisogno di vivere in pace. In questa visione dell’esistenza delle creature umane, ne consegue che il trascorrere degli anni non ha offuscato il sacrificio della suora, giacché il suo atto di amore infinito appare di una grandezza divina, che solo la devozione e la fede nei valori cristiani che esaltano l’uomo, possono farci comprendere. Sì dobbiamo riflettere, specie in questi anni in cui ci sono nel mondo tanti focolai di guerra accesi e pericolosi, tra i quali il più significativo appare quello che da sempre viene combattuto nella terra dove nacque Gesù. Sì, tutti dobbiamo adoperaci perché cessino gli omicidi, le brutalità, le violenze di ogni genere. E’ ora di finirla con lo spaccio della droga che uccide e fa soffrire numerose creature. L’uomo ha solo bisogno di amore e pace.