mercoledì 29 settembre 2010

Mio padre in Africa orientale italiana, dopo la conquista dell'impero..

Mio padre subito dopo la guerra d'Africa (1935-36) voluta da Benito Mussolini e conclusasi con la conquista dell'Impero, fece parte della squadra dei dieci cavatori di Seravezza che andarono Etiopia per costruire le nuove vie del territorio appena conquistato. Fu per lavorare che i cavatori presero questa decisione, e anche per guadagnare qualcosa in più. La loro paga, in Africa, era di quaranta lire al giorno, gli trattenevano tre lire e ottanta centesimi per il vitto giornaliero: comprate le sigarette e speso qualche spicciolo per bere un bicchiere di vino o un boccale di birra, gli rimanevano in tasca trentacinque lire. Non era poco, ma non ce la faceva più mio padre a stare in Africa dove, oltre a soffrire un caldo soffocante, sentiva forte la mancanza della moglie e dei suoi due bambini. Quando mi raccontò del vino che beveva, gli chiesi, convinto che non fosse tanto buono in quanto non conservato in cantine fresche, ecco cosa mi rispose: "La ditta che aveva avuto l'appalto per la costruzione delle nuove strade dell'Etiopia, faceva venire dall'Italia il vino a damigiane prodotto dalla famosa casa vinicola Riccadonna. Questo vino lo tenevamo dentro i fiaschi, ricoperti da pezzi di stoffa, sui quali versavamo spesso acqua fresca. Era molto buono e con la gola riarsa che tutti noi lavoratori avevamo sembrava di rinascere quando si beveva".
"Gli operai del cantiere - proseguiva nel racconto - occupavano delle baracche e dormivano su lettini costituiti da paletti piantati per terra sui quali venivano stesi i sacchetti vuoti contenenti, all'origine, il cemento. Tutti correvamo il rischio di essere morsi dagli scorpioni e anche di essere attaccati dalle bande dei ribelli africani, accecati dall'odio verso gli italiani".

Prima di morire mi rivelò un fatto che gli fu raccontato da un operaio che aveva lavorato in precedenza in un altro cantiere. A me, devo dirlo, parse un racconto poco credibile. Ecco cosa mi disse: "Una notte i ribelli africani irruppero nelle baracche di un cantiere assalendo gli operai mentre dormivano. A quei poveretti che uccisero furono amputati i genitali. Ma la tragedia non finì così. La mattina dopo un gruppo di operai fecero dei controlli stradali durante i quali sorpresero alcuni africani che portavano dei fagottini, contenenti quanto avevano amputato agli italiani. Gli autori della violenza compiuta ai nostri connazionali, furono puniti in modo altrettanto crudele e barbaro: ad ognuno di loro fecero esplodere un candelotto di dinamite introdotto negli intestini per via rettale".
Dopo questo racconto dissi a mio padre: "Babbo, una cosa così non l'ho mai sentita dire. E' orribile. I giornali non ne hanno mai parlato. Ti è stata raccontata una "fola" (bugia, ndr). "Non mi raccontò una fola", mi rispose. "Perché mi avrebbe dovuto raccontare cose non vere? Sicuramente sarà intervenuta la censura".

Ritornò a casa durante la festa a Seravezza di San Lorenzo. Quel pomeriggio il pallone gonfiato del Battelli, subito dopo essersi alzato precipitò in fiamme sullle case delle Pile. Il mio babbo indossava una bella divisa sahariana. In testa portava un vero casco coloniale. Era bello, alto e robusto, coi capelli riccioli e con la pelle molta abbronzata. Aveva una forza incredibile. Rassomigliava a un bronzo di Riace.

lunedì 27 settembre 2010

Gli italiani che fecero grande l’America

Fuggirono dalla miseria, trovarono la fortuna. Ma non tutti


Il fenomeno della immigrazione in Italia di milioni di extracomunitari mi ha indotto a rileggere tante pagine della nostra storia, a partire dagli anni a cavallo dei secoli XVIII e XIX, quando masse di contadini e di operai italiani migrarono all’estero, ad ondate periodiche, con la speranza di poter trovare un lavoro per mantenere se stessi e le proprie famiglie. Raggiunsero gli Stati più ricchi e industrializzati, quali erano allora la Germania, la Francia e la Svizzera, oppure l’America. Molti meridionali emigrarono anche in Tunisia e in Algeria. Tunisi, all’inizio del Novecento, arrivò a contare centomila italiani, quasi tutti siciliani, calabresi e campani.
La punta più alta di immigrazione fu raggiunta del 1905, quando si contarono ben ottocentomila italiani emigrati all’estero. Molti dei nostri connazionali svolgevano lavori di grande abilità, altri invece non sapevano fare null’altro che i lavori di manovalanza. Tanti emigrati in California coltivavano agrumeti, mentre in Brasile e in Argentina si occupavano dei vigneti.
Chi non aveva un vero e proprio mestiere sbarcava il lunario facendo il manovale o altri lavori più umili e faticosi, spesso in luoghi malsani. Non pochi dei nostri connazionali emigrati si trovarono ad affrontare difficili condizioni di vita, lottando, ogni giorno, contro la fame, gli stenti, le malattie e la tremenda nostalgia della Patria lontana.
A tanti mancava sia l’istruzione che le necessarie risorse economiche per fronteggiare le difficoltà della vita quotidiana;nessuna protezione ricevevano dal nostro Governo che, quasi impotente, assisteva al fuoriuscire dei propri cittadini dall’Italia. Chi decideva di lasciare il proprio Paese non era mosso dallo spirito di avventura, bensì dal bisogno assoluto di trovare lavoro. Molti emigrati finirono per essere sfruttati dai proprietari terrieri e dagli impresari, che li utilizzavano come manovalanza a buon mercato da prendere e gettare via dopo l’uso. Le mansioni che un tempo, in America, erano state svolte dagli schiavi neri furono affidate ai nostri connazionali, costretti ad accettare anche condizioni di vita più disumane pur di procurarsi il minimo indispensabile per sopravvivere.
Nessuno potrà mai dire con esattezza il numero di coloro che morirono lontani dalla loro Patria di febbre gialla, vaiolo e di stenti; un fatto che, solo a ricordarlo, riempie il nostro cuore di un dolore immenso. Certamente furono numerosi anche gli italiani che, grazie al loro ingegno, fecero fortuna. Comunque tutti gli emigrati italiani contribuirono a fare dell’America la più grande potenza industriale ed economica del mondo. Taluni dei figli di questi emigrati divennero famosi anche in campo politico, come l’oriundo Fiorello Henry La Guardia che fu membro del Congresso statunitense dal 1916 al 1932 e sindaco di New York dal 1933 al 1945.

giovedì 23 settembre 2010

Leonetto Amadei, un grande uomo di Seravezza

Ringrazio ancora l'ex assessore alla cultura Ezio Marcucci, che fu un valido esponente della giunta comunale di Seravezza guidata dal sindaco Lorenzo Alessandrini, per avermi invitato a partecipare alla cerimonia, che si svolse il 13 dicembre 1998 nel palazzo Mediceo di Seravezza, dove venne solennemente ricordata la figura dello scomparso onorevole Leonetto Amadei, un grande uomo di Seravezza
Non ripeterò le bellissime parole da me udite nella circostanza, in quanto i discorsi pronunciati dal prof. Berto Corbellini Andreotti, dall’On. prof. Giuliano Vassalli, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale e, infine, dal Governatore della Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Seravezza, avvocato Antonio Bagni Amadei, dovrebbero essere stati pubblicati a cura dell’Amministrazione comunale del capoluogo seravezzino , come assicurò, nel corso di questa cerimonia il sindaco di Seravezza che, nell’occasione, annunciò la notizia di una “Fondazione” che sarebbe stata costituita per onorare la memoria di Leonetto Amadei.
Pronunciò un breve discorso anche la figlia del famoso personaggio scomparso; commoventi le parole pronunciate nel rievocare il genitore e quelle che ella ha detto di aver scambiato con suo padre, apparsole in un sogno avvenuto dopo la sua morte.

La figura di uomo, di giurista e di statista quale fu l’onorevole avvocato Leonetto Amadei eletto deputato sin dall'immediato dopoguerra, che fece parte quindi dell'Assemblea costituente che scrisse la Carta Costituzionale della nostra Repubblica, ed arrivò anche a essere Presidente della Corte Costituzionale, una delle più alte cariche della nostra Repubblica, è apparsa in tutta la sua grandezza.

Terminati i discorsi, la cerimonia proseguì con i Corazzieri. presso la sede della Misericordia di Seravezza, per lo scoprimento di una lapide in memoria dell’On. Leonetto Amadei, collocata per iniziativa della Venerabile Arciconfraternita, per ricordare nei secoli che verranno il nostro grande concittadino.
Mi accingo a parlare dell’On. Leonetto Amadei che in vita onorò altamente la nostra terra di Versilia, attingendo ai ricordi personali rimasti impressi nella mia memoria, in verità non molti a causa della mia lontananza dalla Versilia per oltre quattro decenni.
Lo vidi per la prima volta in occasione della presentazione di uno dei tanti libri scritti dal direttore di Versilia Oggi Giorgio Giannelli, che avvenne al Palazzo Mediceo negli anni 90, alla presenza del giornalista e scrittore Manlio Cancogni. Successivamente lo rividi nel salone della Misericordia di Seravezza, dove tenne una conferenza insieme a Mauro Barghetti che fu suo compagno di prigionia in un lager nazista in Germania.
Non ebbi mai l’onore di incontrarlo in età giovanile. Figlio della maestra Leoni che conobbi quando insegnava ai ragazzi quando anch’io frequentavo la scuola elementare, dell’onorevole Leonetto
Amadei posso solo parlare ricordando la fierezza che ho sempre provato nel sapere che, fin dall’immediato dopoguerra, faceva parte del nostro Parlamento e la gioia che manifestai anche ai miei colleghi quando seppi della sua nomina a Presidente della Corte Costituzionale.
Ricordo quando venne nominato Sottosegretario (agli Interni ed alla Giustizia) nei primi governi di centro sinistra.
Socialista puro, come credo sia stato anche Giuseppe Garibaldi, che vedeva in quell’ideale “il sole dell’avvenire”, l’On. Amadei dedicò tutta la sua azione politica alla difesa degli interessi dei lavoratori.
Mia suocera Bruna Guerrini in Pucci, scomparsa prematuramente nei primi Anni 80, quand’era in vita amava ripetere di essere stata allattata, dalla madre di Leonetto, motivo per cui si considerava sua “sorella di latte”. Crebbero insieme Leonetto e la Bruna e grande rimase fra loro l’amicizia, nata fin da quando mossero i primi passi a Seravezza. Nel settembre 1943 era nell'isola di Lero e comandava, col grado di tenente un gruppo contraereo. I soldati italiani per circa due mesi si opposero ai rabbiosi attacchi delle truppe germaniche. Quando nell'isola di Lero sbarcarano i tedeschi il fuoco dei cannoni del gruppo comandato dal seravezzino Amadei riuscì ad affondare 5 unità navali germaniche.Per il suo valoroso comportamento fu insignito di due medaglie al valor militare, una d'argentto e l'altra di bronzo. Traportato con altri prigionieri in Germania, fu rinchiuso in un lager nazista insieme ad altri 300 ufficiali, tra i quali oltre al seravezzino Mauro Barghetti, c'erano oersonaggi di alta levatura come Guido Carli, Alessandro Natta, Enzo Pace e il grande scrittore Giovannino Guareschi, autore di libri dai quali sono stati tratti film famosi, imperniati sulle storia fra “Beppone e don Camillo”.
In occasione di una importante conferenza che si svolse nel salone della Misericordia di Seravezza che fu tenuta da Leonetto Amadei e da Mauro Barghetti, mia moglie Angela, figlia di Bruna Guerrini, al termine della conferenza si avvicinò all'onorevole Amadei per dirle di essere la figlia della sua sorella di latte e che era molto felice di conoscerlo. Questo incontro fu davvero commovente, in considerazione del fatto che l'onorevole Amadei ricordava sempre la mamma di mia moglie.
Ora amo pensare che nel “Cielo” dove approdano le anime delle persone pie e giuste, Leonetto Amadei e Bruna Guerrini si siano ritrovati e abbiano parlato, sorridendo, dei tempi di quando, spensierati e felici, andavano a ballare al Gambrinus di Seravezza.

martedì 21 settembre 2010

Difendere le nostre radici cristiane

Frequentavo la scuola elementare di Seravezza, quando un giorno,negli Anni 30, il maestro parlò in classe delle Crociate. Qualche giorno dopo ci descrisse anche lo scontro navale che avvenne il 7 ottobre 1571 nelle acque antistanti Lepanto, conclusosi con la vittoria dell’armata navale cristiana. Benché siano trascorsi tanti anni da quel giorno lontano della mia fanciullezza, ricordo ancora la forte commozione che mi pervase mentre ascoltavo il mio insegnante, con gli occhi che si inumidivano dalle lacrime. Nel mio cuore di bimbo rimase impressa la figura di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, che insieme a Baldovino di Fiandra, Tancredi e Boemondo d’Altavilla, partecipò alla prima spedizione ( 1096- 1099) che si concluse con la conquista di Gerusalemme. Mi colpì il suo rifiuto ad essere nominato re della Terrasanta; accettò solo il titolo di difensore del Santo Sepolcro. Torquato Tasso, nella Gerusalemme liberata fa di Goffredo di Buglione il prototipo dell’eroe cristiano. Cresciuto con nel cuore il mito di Goffredo di Buglione, mi è sempre stato difficile capire tutte le religioni diverse da quella cristiana. Peraltro, ho sempre pensato che la nostra fede cristiana, che predica l’amore, la carità ed il perdono, sia l’unica che possa condurre tutti gli uomini della terra a vivere in un mondo migliore, più giusto, più umano e senza steccati, muri, frontiere e lotte di classe. Vorrei far capire a quegli Iman che svolgono le loro prediche in Italia, che Roma, la città eterna, capitale mondiale della cristianità, mai sarà islamizzata. La nostra cristianità sarà difesa con tutte le nostre forze. Noi abbiamo rispetto per tutte le altre religioni, anche se quella islamica ci appare incompatibile con quella cristiana. Così come abbiamo rispetto verso coloro che professano altre religioni, esigiamo che analogo riguardo sia doveroso averlo verso tutti i cristiani. Il rispetto vuole rispetto. Diversamente si arriva al caos. Gli immigrati musulmani in Italia hanno ampiamente dimostrato di non volersi adeguare alla leggi del Paese che li ospita. Leggendo un autorevole quotidiano ho appreso che Bausani e Fahad, autori del libro L’Islaismo, hanno affermato: “L’Islam, non ammettendo la conoscenza razionale di Dio e del mondo, fonda le sue conoscenze solo sulla fede come valore assoluto, cioè su un fideismo cieco in nome del Corano…”
Il Corano non può essere compreso da un cristiano perché in esso è prescritta la guerra anche se non vi piace (Cor.2.216). “Uccidete gli idolatri ovunque li troviate (Cor.9.5). “Profeta !Lotta contro gli infedeli e gli ipocriti e sii duro con loro (Cor. 66.9.). Infine, Il Corano è l’unica legge religiosa e civile, immutabile e intoccabile, il vero musulmano non conosce la tolleranza e non cede mai, “o fai ciò che lui vuole, oppure si arriva alla guerra”, ecco ciò che recentemente ha scritto su il Tempo Carlo Sgorlon.
Credo che sarebbe ora di finirla con questi sanguinosi scontri religiosi, durante i quali, oltre a tanti morti da ambo le parti, vengono distrutte anche le case di Dio; tutti gli uomini del mondo dovrebbero sentirsi veramente fratelli e lavorare uniti per arrivare insieme alla fine della nostra vita terrena, lassù nel Cielo, dove brilla la luce, dove c’è la pace, perché morire è vivere, eternamente un premio solo per gli uomini giusti.

venerdì 17 settembre 2010

Antonio Spinosa: ecco come giudicava l'8 Settembre '43

Il giorno 8 aprile 1997, il famoso scrittore Antonio Spinosa, scomparso tempo addietro, tenne nell’Aula magna della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa una conferenza sul tema: "Vittorio Emanuele III e i giorni dell’8 settembre 1943". Moderatore il professor Paolo Nello, docente di storia contemporanea nel suddetto ateneo.
La conferenza fu organizzata dall’Associazione studentesca “I L - Informazione Liberale“, che si ispirava ad ideali liberali e libertari senza legami ad alcun partito e/o movimento politico,della quale faceva parte anche il mio ultimogenito.
L’illustre giornalista storico, accogliendo l’invito, giunse da Roma dove viveva e lavorava, accompagnato dalla gentile consorte. Al pubblico che riempì la prestigiosa Aula, fu presentato dallo studente versiliese Alessandro Santini che, sulla Casa Savoia, scrisse alcuni interessanti articoli pubblicati su “ Informazione Liberale “, stampato all’interno dell’Università della Torre pendente.
Antonio Spinosa fu autore di una serie di libri in edizione Oscar Mondadori di grande successo che narravano le vicende, sotto molti aspetti affascinanti, di personaggi che sono passati alla storia, quali: Cesare, il grande giocatore; Tiberio,l’imperatore che non amava Roma, Augusto, il grande baro; Paolina Bonaparte, l’amante imperiale; Murat, da stalliere a Re di Napoli; Le Italiane, il lato segreto del Risorgimento; Starace, l’uomo che inventò lo stile fascista; I figli del duce, il destino di chiamarsi Mussolini; D’Annunzio, il poeta armato; Mussolini, il fascino di un dittatore; Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re; Hitler, figlio della Germania. Pio XII, l’ultimo Papa; Edda, una tragedia italiana; I 600 giorni di Salo e Ulisse.
Il 2 giugno 1946, Antonio Spinosa, quale amico personale dell’allora ministro degli interni Giuseppe Romita, fu testimone della nascita della nostra Repubblica.
Nel suo excursus storico relativo all’armistizio dell’8 settembre 1943, Antonio Spinosa ha sostenuto la tesi secondo la quale il Re , che aveva un fortissimo senso della Costituzione, fu costretto a lasciare Roma per trasferire altrove quelle che erano le insegne della monarchia, allo scopo di assicurare la continuità del suo potere legittimo in un territorio libero. Non si trattò di una fuga, ma di un comportamento atto ad evitare di essere arrestato dai tedeschi, un fatto questo ritenuto probabile dallo stesso Re e davvero non infondato, come poi dimostrò il piano di Hitler ( annotato sul diario di Goebbels) che prevedeva appunto la cattura di Vittorio Emanuele III, della sua famiglia e del governo Badoglio al completo.
L’armistizio, firmato segretamente il giorno 3 settembre 1943 a Cassibile, dal generale americano Bedell Smith e da quello italiano Castellano, doveva entrare in vigore dopo nove giorni dalla firma, cioè il I2 settembre.
Invece di quella data gli alleati decisero di annunciarlo, tramite “ Radio Algeri”, il giorno 8 settembre, addirittura circa due ore prima che fosse diffuso dalla radio italiana, sicuramente per fare un dispetto puro e semplice all’Italia (per il ritardo con cui questa aveva firmato l’armistizio in questione) e per punire, al tempo stesso, la monarchia per essere stata, per tanti anni, d’accordo col fascismo.
Fu questa la causa che l’8 settembre generò la grande confusione che portò allo sfascio del nostro Esercito, dovuto soprattutto all’inettitudine dei vertici militari, incapaci financo di eseguire gli ordini che il governo di Badoglio aveva impartito. Le Forze Armate italiane si difesero come poterono dall’esercito tedesco, molto meglio armato. Una infinita schiera di soldati italiani venne massacrata nei combattimenti o addirittura fucilata dopo essere stata costretta ad arrendersi. Nelle isole greche di Cefalonia e Corfù furono scritte col sangue pagine di epico valore.Da queste isole del Dodecanneso ebbe inizio la resistenza contro i nazisti. In seguito all’armistizio seicentomila fra ufficiali e soldati italiani furono deportati nei campi di concentramento in Germania, nei quali più di trentamila perirono di stenti.
La sanguinosa reazione dei tedeschi verificatasi subito dopo l’annuncio dell’armistizio, impedì l’attuazione del piano predisposto per il trasferimento, con i mezzi della Regia Marina, del Re e del governo Badoglio in Sardegna.
Anche eminenti professori ed autorevoli personaggi, intervenuti al dibattito, si trovarono d’accordo con Antonio Spinosa nel non giudicare una fuga la partenza del Re e del governo Badoglio da Roma.
Sull’argomento, memore delle vicende storiche di quei giorni lontani, vissute da ragazzo degli Anni 30 nelle strade della Versilia e di Seravezza in particolare, ho voluto narrare agli studenti universitari le emozioni scaturite da quei fatti, peraltro ben raccontati nei suoi libri da Giorgio Giannelli. Mi colpì allora il comportamento del Re che io avevo imparato ad amare sui banchi di scuola come il Re soldato, per essere stato sempre nelle trincee accanto ai suoi soldati, durante la I Guerra Mondiale.
E proprio sempre vicino ai suoi soldati avrei voluto vedere il Re anche all’indomani dell’8 settembre 1943; invece egli partì da Roma per salvare la Corona, una tesi sostenuta in quei giorni pure da un uomo, un ex combattente della I Guerra Mondiale, chiamato  Pietro Salteri, detto “il Gallo”, mio vicino di casa.
Ricordo con quanto calore quell’uomo difendeva il Re dall’accusa mossagli di avere abbandonato il suo popolo. Ci metteva la stessa forza con la quale da decenni lavorava il marmo, con la subbia ed il “ mazzolo “ stretti nelle sue callose mani, a partire dalle ore 5 di ogni mattino (come mi disse il figlio del Salteri che un giorno incontrai al cimitero di Seravzza)  per farci capire perché il Re aveva abbandonato Roma, una spiegazione che, ancora oggi. purtroppo non riesco a comprendere.
Dopo la conferenza, mentre ci apprestavamo a raggiungere il vicino e storico Caffè dell’Ussero per un rinfresco offerto da quei magnifici studenti dell’associazione IL, alcuni dei quali versiliesi, una distinta signora mi chiese: “Che ne pensa del mancato ritorno in patria dei resti del Re Vittorio Emanuele III, del figlio Umberto II e della Regina Elena. “ La mia risposta fu immediata, senza un attimo di riflessione risposi: “ Non sono comportamenti degni di una nazione civile “.

La vita degli abitanti di Aurix - sesta puntata

Aurix il pianeta degli extraterresti fa parte dell'universo ancora ignoto. L'aspetto fisico degli abitanti di Aurix è uguale a quello degli uomini del globo terrestre. L'unica differenza che più impressiona è la loro lunga vita che, in media, arriva fino a duecento anni. Già accennati in precedenza i motivi che hanno consentito agli aurixini di arrivare a questo traguardo
La vita su Auriz è fantastica. Non ci sono difficoltà di sorta per gli extraterrestri che vivono in questo mondo, tutto ancora da scoprire. Anche il loro habitat è uguale a quello dei terrestri. Gli uomini nascono dall'unione fra un uomo e una donna. I giovani più capaci studiano fino a 30 anni, coloro che non amano e non se se la sentono più di studiare, imparano i tanti mestieri praticati dagli artigiani più anziani nelle loro botteghe, i quali sono dei veri maestri nelle attività da essi praticate.
Ognuno è libero di scegliere le scuole che desidera frequentare. Gli studi sono considerati propedeutici sia per il proseguimento degli stessi sino ai più alti livelli che per il buon inserimento dei giovani nel mondo del lavoro da tutti considerato fonte di vita. L'ozio non esiste su Aurix.
La politica che un tempo anche su Aurix veniva esercitata, è un pallido ricordo dei tempi passati., allorquando uomini violenti arrivavano anche ad uccidere per imporre le loro idee
al fine di conquistare il potere. L'assemblea degli uomini liberi a capo della quale c'è il grande scienziato Otaner, è composta dagli uomini che si sono particolarmente distinti nelle attività da ciascuno di essi esercitate. Sono stati redatti gli elenchi di questi uomini geniali; il loro ingresso nell'assemblea viene effettuato mediante estrazione a sorte. Lassù ora regna sovrano l'amore. Non esiste più l'odio fra questi uomini , tutti impegnati al mantenimento del bene comune che ha raggiunto su Aurix picchi altissimi. Il lavoro non manca su Aurix. La produzione dei beni è elevata.
c 'è quasi una gara a chi produce di più. Non esiste la disoccupazione. L'orario di lavoro è di cinque ore al giorno. Le retribuzioni che vengono corrisposte sono sufficienti per assicurare a tutti gli aurixini una vita dignitosa e senza preoccupazioni di sorta. Vi sono molti opifici. Lo studio della medicina gode di particolari attenzioni. Molto sviluppata è l'attività riguardante la costruzione di navicelle spaziali e di razzi vettori, utilizzati dagli abitanti per i loro spostamenti. Su Aurix è profondamente sentita la fede nel Dio creatore dell'intero universo che tutti gli aurixini sono certi di vedere quando la loro vita si spegnerà.

lunedì 6 settembre 2010

Estate 1944: distrutta la tranvia dell'alta Versilia

In attuazione del piano di difesa della linea Gotica, studiato dal feld maresciallo Kesselring, comandante delle truppe tedesche in Italia, tutti gli immobili che c’erano a ridosso dei monti di Seravezza, Corvaia e di Ripa, furono fatti saltare in aria da operai della Todt che utilizzarono proiettili di artiglieria, fatti esplodere mediante l’utilizzo di fili elettrici attaccati ad un detonatore. Anche le piante di alto fusto furono tagliate. Questa totale distruzione di edifici e di grosse piante consentì alla truppe tedesche di tenere sotto controllo l’intera zona sottostante dall’alto delle loro trincee, in particolare al momento degli attacchi sferrati dalle truppe alleate.
Saltarono così in aria i fabbricati, sotto il monte Canala e del monte di Ripa e di una parte di Seravezza e di Riomagno, che c'erano aldilà del fiume da dove iniziava la gora dell'acqua e che faceva funzionare la segheria del Salvatori e il molino del Bonci. Furono distrutti i rioni del Ponticello di Seravezza, della Fucina e i paesi di Corvaia e di Ripa. Fu completamente distrutto il deposito delle locomotive a vapore dell’Azienda Tranviaria Alta Versilia che era ubicato alla Centrale, sul retro dell’officina, anch'essa totalmente distrutta, dell’ing. Attilio Cerpelli, famosa per la costruzione di speciali pompe per navi e per le industrie. Furono distrutti tutti i ponti di Seravezza e quello della Centrale. Fu distrutto anche il ponte caricatoio di Forte dei Marmi. Una locomotiva a vapore finì nell’alveo del fiume Serra, nei pressi della segheria del Salvatori, in seguito all’esplosione di una potente carica di dinamite, dopo che per più giorni alcuni soldati tedeschi l’avevano utilizzata come se fosse un giocattolo per scorrazzare in su e giù nel tratto Desiata - fino al ponte del Rossi non più praticabile in quanto oggetto di un attentato dinamitardo operato dai partigiani di Seravezza. Nell’estate del 1944 finì il ciclo storico dell’impiego della locomotiva a vapore in Versilia che era iniziato il 14 gennaio 1916 sui tratti Seravezza – Querceta e Ponte Foggi - Pietrasanta, dalla TEV (Tranvie Elettriche Versiliesi) con tre piccole locomotive a vapore di produzione inglese, in attesa della elettrificazione delle linee di fatto mai avvenuta. La TEV aprì nel 1926 la linea di Arni al trasporto dei blocchi di marmo e delle merci. All’inizio del 1927 iniziò su questa linea a trasportare anche i passeggeri.L’impiego del tram potenziò e migliorò i trasporti in Versilia eseguiti nei secoli passati con diligenze e barrocci trainati dai cavalli, e dei grossi carri trainati da coppie di buoi per quanto riguardava il trasporto dei blocchi di marmo. I lavori che avrebbero richiesto tempi lunghi e ingenti somme di denaro per riparare i mezzi gravemente danneggiati e la sostituzione di quelli messi completamente fuori uso, ritengo che abbiano determinato la scomparsa definitiva della tranvia versiliese, in sostituzione della quale furono impiegati mezzi di trasporto su gomma, in grado di muoversi in spazi più ampi rispetto al più ridotto raggio d’azione dei tram.
Dato il via libera agli autocarri, la loro utilità si rivelò ancor più preziosa e conveniente di quella del trenino dei sassi, specie quando con la costruzione, a partire dagli anni 50, di ardimentose vie scavate sulle ripide rocce del Monte Altissimo e attraverso i ravaneti del monte Costa, gli autocarri potettero arrivare vicino alle cave di marmo, sulla Costa giunsero fin sul piazzale dell’ultima cava. Le nuove vie segnarono la fine di quelle leggendarie “vie a lizza” alcune costruite su progetti di Michelangelo che dal 1518 al 1520 fu sui nostri monti a scavare marmi dai monti donati dalla comunità di Seravezza a Firenze. Lungo tali vie , in disuso da molti anni, sono cresciuti alberi, molta vegetazione e siepi impenetrabili di rovi, motivo per cui tanti tratti non sono più visibili, in quanto il bosco estendendosi si è ripreso la sua striscia di terra che l’uomo a suo tempo gli aveva strappato. Ora su quelle vie vagano le ombre dei lizzatori che da piccolo, quando andavo a cogliere le more nei pressi della Desiata, in fondo ai ravaneti del Trambiserra, vidi curvi e inginocchiati, davanti ai lati e dietro i pezzi legati a cavi dì acciaio che lentamente scendevano a fondovalle, passandosi fra le mani parati insaponati e martini pesi più di cento chili. Si li ricordo col corpo secco e asciutto e tinto dal sole. Erano atleti nel verso senso della parola. Il loro traguardo era
portare il pane a casa e non lucenti coppe o medaglie. Lungo le vie non si vedono più nemmeno le tracce dei tram che ricordo di avere sempre osservato con grande interesse nei minimi particolari, quando la locomotiva con la sua lunga fila di vagoni carica di blocchi di marmo, veniva fermata, tutta sbuffante al Ponticello, davanti al molino del Bonci, per essere rifornita di acqua. Oltre alla locomotiva erano anche i due macchinisti ad attirare la mia attenzione di bimbo, due uomini con una muscolatura eccezionale resa ancora più evidente dall’abbronzatura della loro pelle esposta al sole , al calore del fuoco ed ai vapori della caldaia. Accosto la loro immagine, che ancora mi pare di rivedere, a quella dei due bronzi di Riace, ovviamente senza scudi e lance, ma con in mano i ben più importanti strumenti di lavoro, i soli che l’uomo dovrebbe impugnare nel corso della sua vita terrena per accrescere il proprio benessere e vivere in pace con tutti i suoi simili del mondo. La mia ammirazione per questi uomini e per la locomotiva doveva essere così evidente tanto da indurre un giorno il macchinista Bramanti, a farmi salire sulla cabina di guida. Mi afferrò la mano e con uno strattone mi tirò su. Un calore fortissimo si sprigionava dalla caldaia, al cui interno notai una palla di fuoco che io alimentai con alcune palate di carbon fossile. Congegni, manovelle e tutti i meccanismi interni erano surriscaldati. Da un rubinetto usciva acqua caldissima. Scesi a terra tutto compiaciuto e felice per l’esperienza vissuta, anche se di breve durata, mentre il convoglio si allontanava da Seravezza.

venerdì 3 settembre 2010

Seravezza ai miei tempi: uomini di fatica, uomini d'onore


Non ho mai dimenticato gli uomini che abitavano nell’antico rione del Ponticello di Seravezza, che i tedeschi fecero saltare in aria durante la tragica estate del 1944.

Prima della sua distruzione il Ponticello era popolato da cavatori, lizzatori, operai delle segherie, scalpellini, raffilatori e non mancavano neppure alcuni meccanici; c’era anche chi esercitava le professioni di falegname, barbiere, muratore e di mugnaio.

Sì, li ricordo tutti questi uomini profondamente attaccati al lavoro ed alle famiglie dalle quali traevano le energie necessarie per affrontare le dure fatiche di ogni giorno; la dignità l’avevano scolpita sui loro volti.

Nonostante siano trascorsi tantissimi anni dal mio mondo di bambino, sento ancora nitido nelle orecchie il rumore che facevano i cavatori, quando, con il cielo pieno di stelle, passavano sotto le finestre della mia casa, dove erano soliti chiamare i compagni di lavoro che li attendevano pronti, col cibo nel fagotto, a uscire fuori di casa per proseguire insieme il cammino per arrivare all’alba sulla cava. Ogni tanto venivo svegliato dallo stridore degli scarponi chiodati e dalle voci degli uomini che chiamavano i compagni in attesa: "Gori, Tabarrani , Bandelloni, Speroni…!

Più d’una volta partivano con l’ombrello di cerato aperto sotto la pioggia, nella speranza che il brutto tempo cambiasse in modo da poter lavorare almeno per qualche ora.

Dovevano faticare molto prima di raggiungere la cava, attraversando ponti ballerini e percorrendo difficili sentieri e ravaneti, tanto da farmi pensare che questi uomini, forti e tinti dal sole, avessero, come si dice oggi, una marcia in più. Nella sua eccezionale poesia, intitolata “I cavatori”, della quale trascrivo, qui di seguito, soltanto alcuni versi, Lorenzo Tarabella, che per tanti anni lavorò sulle cave, ha saputo descrivere in modo mirabile la vita dura e sofferta di questi uomini, che vedevano: “Rubini, nella notte gelida, le stelle./ Cielo spaziato./ Un senso l’infinito./Immobili le case. Sonno. Silenzio….” E ancora: “Il vento fischia alto nella tecchia,/combatte tra i castagni nelle forre,/gelido il suo passaggio nella cava,/tra immoti blocchi…./Si spezzano le mani ai cavatori,/ il sangue sprizza vivo,/tinge le scaglie bianche;/pungenti spilli il freddo/trafigge i pori…”, mentre ai miei occhi questi cavatori sembravano dei ciclopi, sì dei giganti della montagna, la cui vigoria fisica era incarnata dal monumento ai Caduti, posto nella piazza centrale di Seravezza, dedicato all’uomo nudo della nostra terra, nell’attimo in cui scaglia una grossa pietra.

Non ho mai visto un uomo che vivesse senza fare nulla; nessuno del Ponticello era dedito all’ozio, il padre dei vizi, come fin da piccolo avevo sentito dire. L’unico che non lavorava perché troppo avanti con gli anni, era Michele, il marito della Gina, organizzatrice periodica del gioco della tombola che veniva svolto sotto la sua grande pergola, con la partecipazione di tante donne del rione. Un giorno Michele ebbe una accesa discussione con un uomo (abitante da poco tempo al Ponticello) che si era arruolato nelle formazioni della Repubblica Sociale Italiana, costituita dopo la liberazione del Duce da Campo Imperatore, avvenuta il 13 settembre 1943. Michele sosteneva che non si potessero sconfiggere gli Stati Uniti d’America, una potenza ricchissima nella quale era emigrato anche un suo figliolo. Ad un tratto, a sostegno della sua tesi, tirò fuori dalla tasca della giacca e mise sotto gli occhi del suo interlocutore, un paio di cartoline di rame, della serie “una cartuccia per ogni cartolina” che gli aveva spedito il figliolo nel periodo in cui tanti italiani d’America le mandavano ai loro familiari in Italia perché fossero fuse allo scopo di ricavarne il metallo utile per produrre munizioni. Aveva ragioni da vendere il buon Michele, che non dimenticava le pentole di rame che gli avevano preso, allorquando il regime fascista qualche tempo prima, aveva promosso tale raccolta, e che, poco dopo, ebbe la casa distrutta dai tedeschi. Nell’immediato dopoguerra, Michele andò ad abitare a Riomagno. Un giorno lo vidi mentre, in una via di Seravezza, stanco e seduto su uno scalino, stendeva, per sopravvivere, la mano ai passanti.

In quei tempi di forte disoccupazione,molte famiglie campavano con le poche lire che ricavavano dalla vendita di barrocci carichi di sassi che riuscivano a raccogliere lungo l’alveo del fiume, dove se ne trovavano moltissimi, specie dopo le piene che, dal fondo dei ravaneti, li facevano rotolare a valle.

Quando andavo a prendere l’acqua con la “paiolina” alla fontana pubblica, vicina alla segheria del Salvatori, spesso mi fermavo sulla soglia della porta di un fondo dove rimanevo ad osservare il signor Natalino Verona, mentre scolpiva gli angioletti e le madonnine. Il Verona aveva un laboratorio pieno di opere, davanti alle quali rimanevo incantato, tanto apparivano belle. Più di una volta mi fermavo anche nel fondo dove lavorava Pietro Salteri. Egli, con il mazzolo e la subbia stretti nelle sue mani di acciaio, dalla mattina alla sera sbozzava vasetti e colonnine di marmo in continuazione; ad ogni colpo le scaglie schizzavano da tutte le parti ed il mucchio si faceva sempre più grosso. Ogni tanto dalla subbia si sprigionavano delle scintille per effetto dei possenti e ripetuti colpi inferti col mazzolo che frantumavano anche il metallo.. Combattente della prima guerra mondiale, nel corso della quale probabilmente aveva visto sulle trincee anche Vittorio Emanuele III, il “Re soldato”, dopo l’8 settembre 1943, mi diceva che il sovrano era stato costretto, per salvare la corona, a lasciare Roma, quindi, a suo parere, non si trattava di una fuga, come tante persone andavano dicendo. Pietro Salteri, prima di morire, ebbe la soddisfazione di fregiarsi della onorificenza di “Cavaliere di Vittorio Veneto”. Il pomeriggio del 2 novembre u.s., ho rivisto al cimitero di Seravezza, il figlio del Salteri, Ivano, il quale, tra l’altro, mi ha ricordato che suo padre iniziava a lavorare alle cinque di tutte le mattine.

Ricordo ancora oggi il momento in cui incontrai lungo la strada, nei pressi del forno del Bonci, Fortino Bandelloni, mentre faceva ritorno a casa dalla cava sulla Costa, con la giubba sulle spalle; era un pomeriggio. Conoscevo molto bene sua moglie la cara e buona signora Emma, che ogni tanto mi chiamava per farle delle piccole compere, a fronte delle quali venivo sempre compensato con una fetta di pane e con alcuni spiccioli. Correvo scalzo nella via polverosa, ma quando gli fui vicino mi fermai di colpo per salutarlo. Mi rispose col viso illuminato dalla dolcezza dei suoi occhi sorridenti d’uomo buono e laborioso. Tante volte amavo parlare con Pietrino, il figlio di Fortino, il quale mi aveva insegnato anche a lucidare le piastrelle di marmo che lui aveva murato sul fornello a carbone della sua abitazione, in fondo al Riccetto, quando vi era andato ad abitare da novello sposo; fra noi si era instaurato un rapporto di stima e d’amicizia. Provavo anche molto piacere quando parlavo, lungo le strade di Seravezza, con suo cognato Armando Antonucci, mentre faceva ritorno, dopo il lavoro, nella sua abitazione del Ponticello.

Ora questi uomini forti e miti che conobbi da ragazzo sono tutti morti. Oltre a quelli di cui ho parlato in precedenza, desidero ricordare anche coloro che vedevo tutti i giorni, perché abitavano vicini alla mia casa: Donato Benti, Giorgio Giannotti, Giuseppe Gori, Giuseppe Tabarrani, Binelli Raffaello, Pietro Maggi, Giuseppe Bussoli, Francesco Speroni, Giorgio Salvatori. Fra questi poi c’erano anche Garibaldo Bandelloni (mio zio) e infine mio padre, Orlando, il quale è deceduto nel 1997 a 91 anni.

Credo di essere stato fortunato a crescere in mezzo a questi uomini, che hanno saputo educarmi, innanzitutto, all’amore per il lavoro, senza il quale la vita di ogni creatura umana si manifestea misera sotto ogni aspetto.