lunedì 8 febbraio 2010

Le donne del Ponticello

Così come non ho mai dimenticato gli uomini del Ponticello di Seravezza, che conobbi da quando mossi i primi passi nelle vie del rione, nella mia memoria di bimbo degli anni ’30 e dei primi anni ’40 rimasero impresse anche le immagini delle loro fedeli compagne che, insieme ai mariti, condividevano le gioie della famiglia e l’asprezza di una vita spesso anche sofferta. Il mio ricordo è legato a donne stupende che furono quotidianamente impegnate sia nei lavori di casa che per allevare i figli. La femminilità che emergeva dalla dolcezza dei loro sorrisi, infondeva ai propri uomini le energie di cui essi avevano bisogno per guadagnare, sulla cava ed in altri faticosi posti di lavoro, il pane quotidiano.

C'erano anche alcune donne incredibilmente forti che, a poche ore di distanza dalla nascita dell’ultimo bambino, andavano già a lavare i panni nelle acque fredde del fiume durante la stagione invernale. Nei cuori delle donne del Ponticello batteva forte la fede nel Cristo Redentore. Un elevato fervore le animava durante la celebrazione delle feste della cristianità, specie quando la processione del Corpus Domini attraversava le vie del paese. In quelle occasioni erigevano in cima al Riccetto, dove il tratto finale del canale ricoperto scarica le sue acque nell’alveo del fiume Serra, un grande altare pieno di fiori e grossi vasi di piante sempre verdi, che veniva adornato con le preziose coperte ricamate che le donne mettevano a disposizione per renderlo più bello; anche mia madre stendeva la migliore coperta che possedeva. Le strade venivano ricoperte da ramoscelli di mirto e di timo, raccolti sul monte da alcuni uomini volenterosi, e da artistici tappeti fatti coi petali di rosa, dai colori molteplici. La fede trasformava quelle vie non asfaltate in arterie verdi e profumate. Negli anni della mia infanzia la partecipazione del popolo di Seravezza alle funzioni religiose era totale; ricordo che le chiese si riempivano di fedeli, sia per ascoltare la S. Messa che per partecipare al Vespro ed a tutte le altre funzioni religiose, specie negli anni della guerra dove si sentiva maggiormente il bisogno di pregare il Signore perché il conflitto finisse e tutti gli uomini chiamati alle armi ritornassero sani e salvi dai loro cari.

A guerra inoltrata furono portati in processione, per le vie del paese, i resti di San Discolio, il soldato romano invocato dai fedeli perché facesse il miracolo di far finire la guerra. La processione ritardò a muoversi perché si attendeva l’arrivo del giovane Vinicio Salvatori (divenuto successivamente governatore della Venerabile Misericordia di Seravezza) che prestava servizio militare. Il Salvatori, con indosso la sua divisa di ufficiale, arrivò quando la processione si era mossa e stava transitando sotto la casa dei Combattenti. Egli subito si mise in mezzo al gruppetto di noi chierichetti per farci camminare con ordine, sotto l’occhio compiaciuto del parroco Angelo Riccomini.

Per motivi di spazio mi limiterò a menzionare (oltre alla mia nonna Marianna, a mia madre Jolanda detta Raffaella, alla zia Armida ed alla cugina Alda) le donne che avevano le loro case più vicine alla mia e che comunque vedevo più spesso, a cominciare dalla dolce e bella signora Antonia Benti, madre di due figli Alberto e Marcella; Giuseppa Gori con tre figli: Maria, Lina e Lorenzo, la cui primogenita fu la mia madrina di battesimo; Germana Tabarrani e la sua giovane figlia “Angiò” che mi cucì il vestito quando celebrai la prima comunione; Emma Giannotti con i figli Valeria e Gigi, la cui casa era attaccata alla mia; la buona Emma Bandelloni moglie di Fortino (di cui ho gia parlato nell’articolo dedicato alla memoria degli uomini del Ponticello) con le sue tre belle ragazze: Foschina, Lubiana e Ilva e due maschi Pietrino e Armandino; la brava maestra Bonci, insegnante di “lavoro”delle classi femminili elementari e mamma di due sue ragazze Jone e Nives; Ines Lorenzi, il cui secondogenito, appena chiamato alle armi morì subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943; la forte e bella signora Jole Maggi, madre di numerosa prole; Annetta Binelli, più conosciuta come l’Annetta di Amatio, e la sua anziana mamma, nella cui abitazione mia madre, che era loro parente e amica, andava spesso a trovarle. L’Annetta ogni volta che mia mamma mi portava con sé, mi offriva sempre una fetta di pane imburrato e zuccherato; la signora Emma Verona e la figlia Clementina. La Emmetta, come noi chiamavamo per la sua piccola statura, diede anche a me alcune ripetizioni di matematica. Fu proprio sua figlia Clementina a truccarmi il viso da piccolo Pierrot in occasione di uno dei tanti carnevali che in quell’epoca si svolgevano per le vie di Seravezza; l’anziana signora Erina e sua figlia “Marì”, due donne dolcissime che avevano sempre nei miei confronti atteggiamenti affettuosi e buone parole che mai ho dimenticato.

La famiglia Tabarrani aveva anche un’altra figliola sposata con un uomo di Ripa ed un figliolo, Fernando, giocatore molto bravo della squadra di calcio del Seravezza. Fernando, da poco divenuto padre, fece parte del contingente degli alpini che fu inviato a combattere in Russia, da dove purtroppo non fece più ritorno, cosa che accadde anche a mio zio paterno Guido, pure lui alpino. Dare alla luce un figlio, allevarlo e vederlo poi partire per la guerra senza fare più ritorno a casa, macerò dal dolore il cuore delle mamme ponticellesi Germana e Ines Lorenzi e di tutte le madri d’Italia che persero in guerra i loro cari figli. Mi fa piacere ricordare la laboriosità della signora Beppa Gori, che nei giorni del mercato, metteva nelle piazze versiliesi un banchetto per la vendita di zoccoli, attività cui pose termine quando mise su un negozietto di tali articoli in via dell’Annunziata. Anche la signora Germana Tabarrani si dava molto da fare. Specializzata insieme ad una sua parente nel fare i materassi di lana e di vegetale alla gente, riusciva così, con quanto raggranellava, ad arrotondare il salario del marito Beppe. Da piccolo tantissime volte mi sono fermato, col naso schiacciato sul vetro, ad ammirare i diversi oggettini e giocattoli che le figlie della signora Emma Bandelloni tenevano esposti nella fantastica vetrina che avevano messo in fondo alle scale della loro abitazione. E fu proprio nella cucina della Jole Maggi che, in tempo di guerra, mi recai una volta per ricavare, utilizzando il macinino del caffè, alcuni cucchiai di farina dalle poche spighe di grano raccolte, insieme a suo figlio Piero, nei campi della piana dopo la mietitura. Qualche volta, mentre noi ragazzi ponticellesi giravamo nelle vie del rione battute da raffiche di vento, si univa a noi la giovane Lubiana Bandelloni che, munita di forbici e di pezzi di carta, ci ritagliava minuscole ruote che, messe poi sul selciato stradale, giravano in continuazione spinte appunto dal vento.

Noi bimbi volevamo bene a questa ragazza per l’affettuosità che ci dimostrava e per le cose belle che faceva con le sue mani “magiche”. Grazie alla sua creatività, ella seppe regalarci momenti di felicità. Mi fa piacere infine ricordare che fu il fratello dell’Annetta di Amatio, Raffaello Binelli, a mettere in salvo alcune preziose tele che ora è possibile ammirare nella ricostruita chiesa della Misericordia, ma che allora adornavano la chiesa della Santissima Annunziata ricca di marmi lavorati, fatta saltare in aria dai Tedeschi nell’estate del 1944.

giovedì 4 febbraio 2010

E' crudele morire sul posto di lavoro, che è fonte di vita!

Dopo due anni trascorsi dal “rogo di Torino” avvenuto il 6 dicembre del 2007, un altro grave incidente mortale è avvenuto nello stabilimento di Terni della ThyssenKrupp, dove è deceduto un operaio di 31 anni colpito dalle esalazioni di sostanze tossiche mentre stava travasando all'aperto , in una tanica, acido cloridrico. Tanti sono i lavoratori morti sul lavoro anche nel recente passato. Ricordo i sei deceduti a Mineo in Sicilia, ed il giorno dopo i due morti a Milano e uno a Palermo.
Ma com'è possibile che si continui a morire sul posto di lavoro che da sempre rappresenta una fonte di vita? Il dato Inail del primo semestre del 2009 indica in 490 i morti che ci sono stati in Italia, mentre fino allo stesso periodo dell'anno precedente avevano perso la vita 558 uomini, quindi è stato registrato un calo in meno di 50 decessi Il dato comunque rimane sempre impressionante. Le disgrazie purtroppo si sono sempre verificate e l'imponderabile può sempre accadere, ma
l' uomo deve impegnarsi al massimo perché i propri simili possano sempre lavorare con tranquillità e sicurezza: In verità soltanto in Italia vengono considerate morti bianche anche i decessi avvenuti “in itinere”, cioè quando a seguito di gravi incidenti muoiono lungo la strada i prestatori d'opera mentre la percorrevano per raggiungere le fabbriche e i loro cantieri o altri luoghi di lavoro. Esorto i dirigenti a non stancarsi mai di ripetere ai loro sottoposti le leggi esistenti e tutti gli accorgimenti per evitare gravi disgrazie: La prudenza non è mai troppa. Nessun uomo deve scendere in una cisterna per pulirla senza portare la maschera antigas che deve essere utilizzata anche da chi scende nei pozzi per eseguire lavori di pulizia o nelle stive delle navi, per scaricare da esse grano ed altri frumenti. I due operai morti a Milano erano extracomunitari che stavano smontando i ponteggi da una palazzina. Pare che lavorassero in nero. Vivevano alla giornata lavorando dove capitava. E' una vergogna far lavorare uomini, extracomunitari inclusi, senza dare loro nessuna tutela assicurativa e previdenziale. Chi non osserva le leggi esistenti in materia voglio sperare che venga severamente punito.
In Italia negli ultimi cinque anni ci sono verificati oltre cinque milioni di infortuni sul lavoro, con oltre 7 mila morti e circa 200mila rimasti con una invalidità permanente. In occasione della recente Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro, organizzata dall'Anmil, il Presidente della Repubblica Napolitano ha fatto udire la sua voce. Egli, tra l'altro, ha detto che le morti sul lavoro sono inaccettabili e che questi infortuni potrebbero essere evitati con una sempre più efficace azione di prevenzione e con la rigorosa applicazione delle norme e delle misure tecniche già ora disponibili.Egli è convito che la battaglia contro gli infortuni e le malattie professionali può essere vinta con una sempre più solida cultura della sicurezza, con sistematiche campagne di informazione e di sensibilizzazione, con la diffusione di buone pratiche e la valorizzazione di esempi migliori.
In relazione alla morte dell'operaio a Terni, il vescovo ha detto: “Non possiamo rassegnarci a vedere le fabbriche trasformarsi in luoghi di morte”
Quando frequentavo le scuole di Seravezza udendo le le potenti esplosioni delle mine fatte brillare durante le varate sulle cave del monte Costa, della Cappella e del Trambiserra rimanevo scosso dalla paura. Pensavo anche ai rischi che correvano i nostri cavatori mentre erano intenti al loro durissimo e pericoloso lavoro. Ebbi la prova che i miei timori fossero fondati quando sulla cava della Costa avvenne purtroppo una disgrazia subito dopo una varata. Sotto un blocco di marmo strappato alla montagna rimasero schiacciati alcuni cavatori, tra i quali anche il padre di un mio coetaneo, che si chiamava Donati, che abitava al Loghetto, località poco distante da Riomagno. Anni addietro ho letto un libretto che fece stampare il parroco di Arni, nel quale aveva riportato la lunga fila dei cavatori dell'Alta Versilia morti sul lavoro. Una sofferenza atroce la provai quando nel 1958 fui informato che il mio caro e indimenticato amico Lido Calistri, cresciuto insieme a me , rimase ucciso perché colpito in pieno dal cavo di acciaio che si era spezzato durante le fasi per collocare sotto i telai di una segheria di Seravezza dove lui lavorava un blocco di marmo, messo su un apposito carrello per essere segato.
La speranza è che coloro che sono preposti alla vigilanza dei lavori, direttori; capi reparto etc., facciano osservare scrupolosamente tutte le disposizioni atte a salvaguardare la vita dei lavoratori perché non ci siano più morti sul lavoro.