mercoledì 30 giugno 2010

Dopo l'arrivo degli americani la gente fugge dalla linea del fronte

Quando arrivarono i soldati americani a Giustagnana nel settembre del 1944 , fu subito evidente a tutti che non era più possibile rimanere sui monti intorno a Seravezza perché, oltre all’impossibilità di procacciarsi il cibo di cui ognuno aveva bisogno, incombeva sulla gente del posto e di coloro che erano lassù sfollati il rischio continuo di rimanere vittima dei colpi di mortaio e/o degli obici sparati da tedeschi. Diffuso fu allora anche il timore di rimanere coinvolti negli scontri fra due opposti eserciti in lotta, in quanto nei dintorni di Giustagnana, prima dell’arrivo delle truppe statunitensi, notai la presenza di soldati tedeschi armati fino ai denti. La prima volta che li osservai fu quando un folto plotone compatto passò davanti al molino, dove quella mattinata mi trovavo, che c’era sul canale prima di arrivare alla Cappella ch’era stato stato bruciato qualche tempo prima, dai miliziani della Repubblica di Salò, fondata da Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Liberatore, avvenuta pochi giorni dopo l’8 settembre 1943. Procedeva compatto questo plotone lungo la mulattiera in direzione di Giustagnana. Gli uomini tenevano le armi spianate, uno di essi portava sulle spalle una rice-trasmittente. Per un attimo pensai ad un possibile scontro che poteva verificarsi appunto tra i partigiani che da un po’ di tempo stazionavano a Giustagnana, fra essi c’era il professor Dal Porto, un quercetano che era stato mio insegnante di matematica presso l’Avviamento di Seravezza. Sempre lo vidi il prof. Dal Porto con un libro in mano che leggeva sdraiato all’ombra dei castagni sotto le prime case del paese. Fortunatamente non ci fu alcun scontro. Una sera giunse a Giustagnana un soldato tedesco con il fucile a tracolla e lo zaino sulle spalle. Si fermò nel paese per chiedere indicazioni per arrivare sulla cima del monte Cavallo per raggiungere un reparto di suoi commilitoni. Alcuni uomini di Giustagnana, molto preoccupati per questo improvviso arrivo, chiesero l’intervento di una professoressa di Viareggio lassù sfollata, che conosceva bene la lingua tedesca. Era già buio quando insieme all’interprete, anch’io mi unii alla comitiva. Quindi apparivano fondati i timori per le possibili battaglie che potevano verificarsi proprio nella zona di Giustagnana. Fu così che iniziò l’esodo. Centinaia e centinaia di persone, in prevalenza sfollati, abbandonarono la zona oramai teatro di operazioni belliche, moltissime famiglie si rifugiarono nei territori del comune di Camaiore, lontani abbastanza dalla linea del fronte, alcune si fermarono a Pietrasanta che rimase sempre un località molto pericolosa per le continue cannonate che arrivavano dalla batterie tedesche di Punta Ala , in prossimità di La Spezia. Lì i tedeschi disponevano di cannoni di lunga gittata nascosti nelle gallerie scavate nella roccia. Questi cannoni erano piazzati su carri ferroviari che soltanto quando sparavano i colpi venivano spostati all’aperto, per poi nasconderli nuovamente appena cessato il fuoco. Per raggiungere i nuovi rifugi, gli sfollati attraversarono il crinale di Monte Ornato, dopo aver percorso la mulattiera che saliva a Gallena e poi il sentiero sovrastante per poi scendere giù a Valdicastello e quindi proseguire la marcia per arrivare nelle località prescelte. Fuggiva disperata la gente verso le zone liberate portando con sé poche cose racchiuse nei fagotti. I genitori tenevano nelle loro braccia i bambini più piccoli, altri portavano sulle spalle i familiari più vecchi che non riuscivano più a camminare da soli. Anche mio padre con mia madre ferita e con la mia nonna che camminava con estrema fatica decise che dovevamo fuggire da Giustagnana. Dopo avermi mandato a sentire i suoi genitori che erano sfollati a Capezzano Pianore se anche noi potevano trasferirci in quella località., un mattina si caricò sulle spalle la mia mamma e lasciammo Giustagnana. Lassù rimase la mia nonna. Una sfollata di Corvaia , alla quale lasciammo tutto quello che c’era rimasto da mangiare, comprese le due scatolette di carne che avevo avuto dagli americani, per avergli portato un paio di cassette di munizioni, ci assicurò che l’avrebbe guardata lei. Sui monti di Seravezza ci fu un fuggi-fuggi generale. Una donna in fuga, poco dopo Giustagnana, fu colpita da schegge di mortaio, dove cadde rimasero alcune manciate di ballotti intrisi di sangue. Mentre si transitava nella zona di Capriglia notai lunghe file di soldati americani che si stavano riposando ai lati della strada. Intorno ad essi si aggiravano molte persone e ragazzi di ogni età. Alcuni barbieri, tra i quali uno era di Seravezza, si davano da fare a radere la barba ai militari. “Paisà cioccolà” erano le parole che i bambini più piccoli istruiti dalle loro mamme rivolgevano ai soldati americani che quasi mai sapevano dire di no. Nelle località dove si rifugiò la massa di sfollati non esisteva alcun centro di assistenza. Furono occupate casupole piene di attrezzi, nonché locali destinati ad uso diverso, l’unica cosa che contava allora era che l’immobile avesse un tetto. A Capezzano Pianore la mia famiglia, trovò rifugio in una casupola dove venivano custoditi gli attrezzi per lavorare un frutteto.Attaccato a questo ripostiglio c’era un pollaio, motivo per cui spesso sentimmo di avere addosso i celliccioni, (1)In quella località erano dislocati alcuni reparti della 599 Compagnia della divisione Bufalo. Lungo la via Italica erano accatastate ingenti quantitativi di cassette di munizioni, alla cui vigilanza provvedevano i soldati italiani , chiamati i badogliani. Le cassette che venivano aperte e lasciate sul posto quando il munizionamento veniva caricato sui camion per essere trasportato sia presso le postazioni di artiglieria di Valdicastello e/o destinato alla prima linea del fronte, furono una risorsa inesauribile di legna che servì agli sfollati non solo per cuocere il cibo ma anche per riscaldarsi durante l’inverno 1944/1945. Per procurasi il cibo da dividere con i familiari, decine e decine di donne, ragazzi e ragazze, per sette mesi, con il bello e cattivo tempo, fecero la fila davanti a un cancello di una casa dove funzionava una cucina per i soldati americani, in attesa di ricevere gli avanzi dei pasti che ognuno di loro consumava, in quanto quelli che rimanevano nelle marmitte lo prendevano i due giovani italiani addetti al lavaggio del pentolame che poi, finito il lavoro, portavano ai loro familiari. La casa dov e era stata messa in funzione questa cucina era di proprietà di due coniugi che avevano perso i loro due figli, un giovane ed una ragazza che furono trucidati dai tedeschi durante la spaventosa strage che fu da essi compiuta a S.Anna il 12.agosto 1944. Finito di mangiare, i soldati raggiungevano il cancello e lasciavano cadere nei bricchi che gli porgevano gli sfollati ciò che era avanzato nello loro gavette. Si trattava di caffelatte, di mais bollito, di carne in scatola, di uova cotte con la carme di maiale, pezzetti di pane bianco e soffice e quant’altro. Gli avanzi escluso il pane, così raccolti e mischiati divenivano una poltiglia che soltanto chi aveva fame poteva trangugiare. La mia famiglia in quel periodo fu una volta tanto fortunata, nel senso che mio padre, grazie alla sua notevole forza fisica, trovò lavoro presso il deposito dei viveri, dove tutti i giorni veniva distribuita la razione dei generi alimentari spettante ai reparti dislocati al fronte o nelle retrovie. Per il lavoro prestato, riceveva giornalmente piccole quantità di cibo in scatola e di pane che ci evitò comunque di fare spesso la fila davanti alla cucina dei soldati. In tanti mesi di sfollamento a Capezzano Pianore , soltanto una volta furono distribuiti agli sfollati alcuni indumenti usati, provenienti,così ci dissero, da una raccolta effettuata negli Usa.
Capezzano Pianore fu frequentata da persone che sapevano disegnare, scolpire e dipingere. Molti furono i ritratti che furono fatti ai soldati statunitensi, taluni dei quali fecero applicare all’impugnatura della pistola, in sostituzione della bachilite, due piccole sagomate piastrelle di marmo statuario, con sopra dipinti o scolpiti i volti di coloro che avevano l’arma in dotazione. Un giorno mentre mi trovavo nei pressi della cucina americana con altri ragazzi, vidi due belle giovinette che tiravano un carretto vuoto, fermarsi a parlare con alcuni soldati di colore davanti ad una grande tenda piantata accanto all’immobile dove funzionava la cucina. Vestivano dimessamente e i loro corpi erano magri e asciutti. Il carretto vuoto era lì a dimostrare in quale difficile situazione dovevano trovarsi le due giovani donne. Dopo lo scambio di brevi parole, subito entrarono nella grossa tenda seguite dagli stessi soldati mentre altri sopraggiunsero poco dopo. Noi ragazzi che incuriositi c’eravamo avvicinati alla tenda per vedere cosa stava accadendo, fummo energicamente invitati ad allontanarci da un soldato che si mise a gridare da una finestra di una casa vicina, anch’essa occupata dagli americani.
E così, mentre al fronte gli uomini continuavano ad uccidersi fra loro durante gli spietati combattimenti, nelle immediate retrovie, conseguentemente alla disperata situazione di ogni giorno, finirono i sogni di fanciulle, le quali per non morire di fame e continuare a vivere, subirono spontaneamente violenze indicibili, incancellabili dalla memoria.

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