venerdì 31 dicembre 2010

Biografia del Maestro Bruno Guerrini

Figlio di Antonio Guerrini e di Augusta Falconi;
nacque a Seravezza il 7 giugno 1917;
frequentò a Seravezza le Scuole Elementari e l’Istituto Tecnico Versiliese (4 anni);
continuò gli studi presso l’Istituto Magistrale di Pisa, superando, al termine dell’anno scolastico 1935-1936, gli esami di Stato, conseguendo così il diploma di maestro;
successivamente effettuò l’insegnamento, in modo saltuario e per pochi giorni, presso la Scuola Elementare di Seravezza e anche presso quella distaccata alla Cappella nel locale ove ora è ubicata la sede del Gruppo degli Alpini in congedo di Seravezza,.
frequentò, coi colleghi Silvio Federigi e Mauro Barghetti, un corso privato di preparazione ad un concorso per ottenere “il posto di ruolo”, tenuto dal professor Giulio Paiotti;
vinto il concorso fu destinato ad insegnare nell’isola di Rodi, allora colonia italiana con tutte le isole del Dodecanneso;
frequentò ad Arezzo, negli anni 1938-1939, il corso di allievi ufficiali di fanteria. Nominato sottotenente, fu assegnato ad un reparto della divisione Bologna;
nel mese di novembre 1941 si trovava in Libia con la X Compagnia Divisionale anticarro della Divisione Bologna, che fu travolta da un attacco in forze scagliato da truppe neozelandesi in direzione di Tobruk;
fu ucciso il 26 novembre 1941 a Bages Belamedh, durante una sanguinosa battaglia, nel corso della quale perirono 45 ufficiali ed un migliaio di soldati italiani;
Mauro Barghetti, suo collega e amico fraterno, nel suo articolo “No, Bruno, noi non ti dimentichiamo”, pubblicato sul n.324 di Versilia Oggi del mese di settembre 1993, ha riportato anche il seguente racconto che fece un soldato semplice dello stazzemese che, acquattato nel cratere di una bomba esplosa nei pressi del caposaldo occupato dagli uomini del sottotenente Bruno Guerrini, vide morire l’ufficiale seravezzino: “Il sottotenente Guerrini comandava un “caposaldo” dotato di due cannoncini anticarro da 47/32, poco più di due giocattoli, se rapportati alle corazze dei carri armati anglosassoni; nei manuali tattici di allora “caposaldo” voleva dire “ ordine di resistere fino alla morte”. Il suo caposaldo fu investito dalla furia d’un grosso carro armato; lui ordinò il fuoco ai suoi soldati ormai fuori combattimento. Allora si mise al pezzo di persona, caricò, puntò, sparò, colpendo in pieno il carro al quale naturalmente fece soltanto un po’ di solletico-." Stava per sparare l'ultimo colpo quando l'esplosione di una cannonata nemica frantumò anche le ossa di Bruno.”
Nel suo articolo il Barghetti, in relazione all’azione compiuta da Bruno Guerrini, ha inoltre scritto: “Nessun superstite ci fu che ne potesse proporre una doverosa medaglia d’oro alla memoria”;le ricerche per rintracciare il soldato dello stazzemese, ai conclusero con esito negativo (probabilmente sarà deceduto nel corso di questi ultimi decenni).

Monsignor Guido Corallini, attuale parroco di Santa Caterina a Pisa, che fu compagno di studi di Guerrini Bruno presso le Scuole Magistrali, ha fatto presente che le stesse, da anni, hanno sede in un nuovo fabbricato e che il vecchio edificio è passato in uso ad un Istituto Superiore dell’Università. Dei nomi, tra i quali anche quello del maestro Bruno Guerrini, a cui le aule erano state, a suo tempo, intitolate, non è rimasto più nulla. Al Preside pro - tempore dell’Istituto Magistrale Statale “G. Carducci” di Pisa, ubicato in via S. Zeno, Angela Pucci, chiese, per iscritto, un attestato dal quale risultasse che, a suo tempo, le vecchie Scuole Magistrali pisane intitolarono un’aula anche alla memoria del suo zio materno Bruno Guerrini, ma anche in questo caso nulla fu trovato.
Purtroppo anche le ricerche della lapide che fu murata nell'aula dedicata alla memoria di Bruno Guerrini e che finì sul mucchio di altre vecchie lapidi che furono divelte ed ammucchiate vicino alla scuola, effettuate da chi scrive si conclusero con esito negativo, infatti nulla trovò.

domenica 26 dicembre 2010

Ecco come i partigiani portarono via il ciclostile del comune di Seravezza

Nel mese di dicembre del 1943 i partigiani della Versilia sottrassero il ciclostile che aveva in dotazione il comune di Seravezza. Appresi questa notizia sui banchi dell'Avviamento Professionale al Lavoro. In quei giorni lontani sentii dire che erano stati i partigiani a compiere questa azione per poter stampare volantini per incitare la popolazione versiliese alla lotta partigiana a difesa della libertà, sia contro i tedeschi che reagirono, con una inaudita e sanguinaria violenza, contro i soldati italiani allo sbando dopo l'8 settembre del 1943 causando un forte spargimento di sangue e deportazioni in massa nei lager in Germania e un Polonia, sia contro i fascisti che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Liberatore. Il Ministero delle Forze Armate della Repubblica Sociale era stato affidato, in quel momento storico molto difficile per gli italiani, al maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.

Non molto tempo fa nel fare visita a Alfieri Tessa, l'uomo che alla fine degli Anni 30 mi fece sognare, come ho raccontato nel mio primo articolo che ho scritto su di lui, oltre al libro “Il fucile legato con la corda”, mi donò diversi suoi fogli, nei quali aveva raccontato gli episodi più drammatici, accaduti durante la lotta partigiana in Versilia. Tra questi fogli ho trovato anche quello in cui ha dettagliatamente descritto l'azione intrapresa per sottrarre il ciclostile al comune seravezzino, che fu compiuta all'inizio del mese di dicembre del 1943.

Ad Alfieri Tessa, partigiano seravezzino, costantemente addetto al servizio informazioni, fu affidato l'incarico di accertare chi disponeva di un ciclostile, ritenuto utile dai partigiani per la motivazione innanzi accennata. Fu lui che accertò che proprio il comune di Seravezza aveva in dotazione questa macchina, quindi pensò di effettuare un sopralluogo all'interno del palazzo Mediceo, allora sede comunale, per vedere l'ufficio in cui era stato collocata e quindi studiare un piano per sottrarla all'Anninistrazione comunale seravezzina.

Ne parlò al componente della banda partigiana Oscar Dal Porto, insieme al quale aveva svolto il servizio militare a Pisa. I due convennero che era necessario accedere all'interno del comune per vedere dove veniva tenuto questo desiderato ciclostile. Quando si presentarono a Bonci Primo, dipendente comunale che con la sua famiglia occupava un appartamento al piano terra del palazzo Mediceo, dissero che desideravano soltanto sapere se erano arrivati certi documenti. Il Bonci li fece entrare proprio nel locale dove videro subito quello che cercavano. Dopo aver guardato su alcune scrivanie e scaffali il Bonci informò i due uomini che i documenti da essi cercati non erano ancora arrivati. Comunque questa scusa aveva funzionato aldilà di ogni aspettativa. Non c'era più alcuna necessità per trattenersi nel palazzo comunale. Alfieri Tessa e il Dal Porto ringraziarono il Bonci e lasciarono il Comune riuscendo, di nascosto, a sottrarre la chiave della serratura della porta di accesso all'ufficio in cui erano entrati.

L'esito di questi accertamenti fu comunicato a Gino Lombardi che subito stabilì che l'azione dei partigiani per portare via dal omune il ciclostile doveva iniziare alle ore 18 del 6 dicembre 1943 con la partecipazione del comandante Lombardi. Alfieri Tessa, che conosceva gente e l'ambiente di Seravezza doveva rimanere di vigilanza all'esterno.del palazzo, nel tratto di strada che dal centro cittadino passava e tuttora passa davanti al palazzo Mediceo. Luigi Mulargia che era stato attendente di Gino Lombardi durante il servizio militare prestato a Pisa S.Giusto, doveva osservare il tratto inverso della via che dal ponte della Scolina,passa sempre al lato del palazzo Mediceo nel quale dovevano entrare soltanto Gino Lombardi, Oscar Dal Porto e Piero Consani. Alle ore 17,30 del 6 dicembre, tutti i suddetti partigiani si ritrovarono presso il bar della Scolina pronti all'azione studiata e preparata con cura. Appena entrarono nel municipio, rinchiusero il Bonci nell'appartamento da lui abitato. Oscar Dal Porto accompagnò Gino Lombardi nell'ufficio dove veniva tenuto il ciclostile, mentre il Consani rimase di guardia al portone d'ingresso del palazzo comunale, tenuto socchiuso.
Lombardi e Dal Porto strapparono subito i fili telefonici e presero il ciclostile che immediatamente fu portato fuori dal portone che fu aperto dal Consani appena questi udì il rumore dei passi di Gino Lombardi e di Oscar Dal Porto mentre scendevano le scale. In un baleno il ciclostile fu caricato su un carretto coperto con un telo, poi tutti e cinque ritornarono presso la vicina segheria dismessa che c'era nelle vicinanze del Palazzo, al lato della via che conduce sui paesi dell'Alta Versilia, dove furono restituite a Gino Lombardi le armi che aveva dato ai suoi uomini prima dell'inizio dell'azione Dopo lo scambio di saluti con un patto che avrebbe legato i cinque partigiani nella buona e nella cattiva sorte, assumendo sempre comportamenti onesti e pieni di rispetto reciproco, ognuno fece ritorno, sotto una leggera pioggerella, alle loro abitazioni. Gino Lombardi col carretto gommato, sul quale oltre al ciclostile aveva messo anche le armi, attaccato dietro la sua bicicletta, accompagnato soltanto dal buio della notte,pedalò in direzione di Ruosina dove abitava.
Devo dire che non avrei mai pensato che a questa temeraria impresa, visti i tempi difficili in cui nel 1943 si viveva in Italia, avesse partecipato anche Oscar Dal Porto che, in quell'epoca, fu mio professore di matematica all' Avviamento di Seravezza.

Concludo rivolgendo un pensiero commosso a Gino Lombardi,fondatore della formazione partigiana chiamata “I Cacciatori delle Apuane”, fucilato a Sarzana il 21.4.1944; a Piero Consani, amico di Gino Lombardi e vice comandante della succitata banda armata, fucilato a Sarzana, dove fu lungamente torturato, il 4 maggio 1944; a Mulargia Luigi che fu ucciso, sempre nel mese di aprile 1944, sul monte Gabberi, durante uno scontro a fuoco coi militi della G.N.R. e della X Flottiglia MAS, i quali, al corpo di questo giovane eroe, effettuarono orribili mutilazioni.Estendo il mio deferente pensiero a tutti i partigiani italiani che combatterono e furono uccisi o rimasero feriti, o deportati nei lager nazisti in Germania, durante la lotta intrapresa in ogni luogo per riconquistare la libertà.

Un grazie di cuore lo rivolgo a Alfieri Tessa, per il suo cristallino e valoroso comportamento tenuto nelle file partigiane.

Alfieri Tessa: il mio capitano

Invitato da Alfieri Tessa ad andare a trovarlo in occasione dell'incontro avvenuto durante i funerali del mio caro amico Primo Giorgi che furono celebrati il 27.4.2009 nella chiesa di Querceta, ho approfittato di una recente visita al cimitero di Seravezza, dove sono sepolti i miei genitori, per recarmi nella sua casa ubicata alla Colombaia, in mezzo ad un bel giardino pieno di fiori e di piante verdeggianti
Sin dagli ultimi Anni 30 quando ero un bimbo ho sempre ammirato Alfieri un po’ più grande di me, per averlo visto più volte intento a far volare dei modelli di aereo da lui costruiti che spiccavano il volo grazie al movimento dell’elica mossa dall’elastico attorcigliato di vecchie camere d’aria di biciclette, quando faceva le prove sulla piazza antistante il cimitero di Seravezza. Spettacolare fu il volo che il suo piccolo aereo fece alzandosi in aria dalla Mezzaluna. Purtroppo a causa delle limitate capacità sviluppate dalla carica della camera d’aria il volo fini presto, l’aereo precipitò fra i grossi pini esistenti sopra la casa della famiglia Landi, che allora esisteva vicina alla chiesa della Santissima Annunziata, fatta saltare in aria da operai della Todt, al comando di un sergente della Wehrmacht, insieme a tutte le case, aldilà del fiume, della Fucina e del Ponticello fino a quelle di Riomagno, durante la tragica estate del 1944.
Da quel volo del suo aereo lanciato dalla Mezzaluna non incontrai più Alfieri Tessa. Fu grande il piacere di rivederlo durante una conferenza sui “partigiani” che fu tenuta, negli anni 90 da uomini della resistenza, nel salone della Misericordia, nel tempo in cui era governata appassionatamente dall’indimenticato dottor Luigi Santini. A questa conferenza parteciparono sia il comandante dei partigiani di Massa Carrara del 1944/45 Pietro Del Giudice che altri noti elementi della resistenza apuana. Fu in quella occasione che gli ricordai di averlo sempre ammirato perché coi suoi piccoli aerei che faceva volare negli anni giovanili della sua vita mi fece davvero sognare. Nel 2008 quando Seravezza festeggiò alla grande il maestro Narciso Lega, mi sedetti nella sala del Cinema Teatro dei Costanti, appena ristrutturato, proprio su una poltroncina accanto alla sua. Si parlò delle cose belle e interessanti che faceva da “giovine”, ricco di talento. Anche suo padre Carlo fu un uomo geniale. Nel tirare sulla strada le “marmoline” che aveva raccolto nell’alveo del fiume Serra, ideò un congegno per far aprire il carrello carico che lui stesso tirava su con un filo di acciaio arrotolato ad un piccolo argano. Appena il carrello sbatteva, dopo aver oltrepassato il muretto, contro un ferro, il suo fondo di scatto di apriva, lasciando così cadere al margine della strada le marmoline che poi vendeva a un barrocciaio di Seravezza.
Ho provato una grande gioia nell'esaudire il suo desiderio. La sua casa è piena di quadri molto pregevoli da lui dipinti, uno dei quali è dell’antico rione del Ponticello,dove c'era anche la casa dei miei nonni materni, dove io nacqui, spazzato via dalla guerra e riapparso nel quadro come lo vidi sempre sin da quand’ero bambino. Oltre a bei quadri ha molti libri. Su uno scaffale, troneggia un calco in gesso di un aquila che posa gli artigli a terra dopo un volo forte e ardito nel cielo. Alfieri Tessa, uomo dall’aspetto fisico ancora gagliardo e ben portante l’età che ha, e con una voce incredibilmente rimasta giovane, mi ha letto il suo racconto dettagliato su come si svolse l’azione dei partigiani quando si impadronirono del ciclostile del comune di Seravezza, notizia che in quell'epoca appresi sui banchi di scuola. Ai preparativi di questa azione, voluta e organizzata dal comandante della formazione partigiana Cacciatori delle Apuane, s.tenente Gino Lombardi (medaglia d'oro al valore militare alla memoria) fu preponderante il ruolo che ebbe lo stesso Alfieri che poi partecipò anche personalmente all’impresa insieme allo stesso Gino Lombardi ed ai partigiani Mulargia Luigi, Pietro Consani e Oscar Dal Porto, quest’ultimo mio professore di matematica presso l’Avviamento di Seravezza. Poi mi ha parlato del calco in gesso dell’aquila esposta nel suo studio dove ne ha anche uno della sua testa raffigurante l’età giovanile. Tutto quanto mi ha ricordato, nel suo insieme, lo studio che aveva il compianto Danilo Silicani, dove teneva tante preziose opere frutto della sua arte, compresa anche una sua testa scolpita in marmo bianco, nonché libri e disegni a testimonianza della sua vasta ed elevata cultura, così come mi è apparsa essere anche quella di Alfieri Tessa.
Fu il Tessa a modellare il calco dell’aquila tenendo conto delle precise indicazioni fornitegli dalla signora Lombardi, un’opera che poi, fusa in bronzo, venne collocata sulla sommità del sacello, dove riposano i resti dei due figli Dino e Gino Lombardi. Alfieri realizzò il progetto di questa opera monumentale cimiteriale costruita interamente a spese della famiglia Lombardi. Particolare attenzione Alfieri Tessa la dedicò a modellare l’aquila voluta dalla madre dei fratelli Lombardi per onorare anche l’Arma aeronautica nella quale i suoi diletti figli avevano prestato servizio come ufficiali. Alfieri seppe cogliere l’attimo in cui il l’aquila posa i suoi artigli sul monumento funebre, mentre il suo occhi si posano sulle tombe sottostanti. La signora Lombardi rimase molto soddisfatta di questa opera frutto dell'ingegno di Alfieri Tessa.
Durante una notte mani sacrileghe e ignote divelsero e portarono via dal sacello questa bellissima opera di Alfieri; non so quando avvenne questo grave fatto. Se la giustizia degli uomini non riuscì a identificare e punire i colpevoli di questo incivile, vergognoso e ripugnante reato, sicuramente gli autori non sfuggiranno alla legge divina, quando la loro anima giungerà davanti a Dio. Grande fu il dispiacere che ebbe Alfieri Tessa per questo incredibile furto dell’aquila che aveva modellato con molta passione. L’opera, raffigurante il rapace, ricollocata al posto di quella rubata, è certamente diversa da quella che creò Alfieri Tessa. Credo che dalla tomba sia rimasta sconvolta anche la madre di Gino Lombardi.
A proposito delle sue pubblicazioni “In Versilia : agosto 1944 un mese maledetto" e “Il fucile legato con la corda”, quest’ultimo libro edito nel 2003, mi ha detto che tutto ciò che ha scritto è frutto dei suoi ricordi scritti col cuore e quindi in buona fede, senza aver mai pensato di alterare i fatti delle vicende vissute.
Quando mi accingo, al termine del nostro colloquio a salutare sua moglie per fare ritorno a casa, ella mi chiede, se avevo conosciuto negli anni della mia infanzia al Ponticello di Seravezza il Carducci e sua moglie Aurora che era una sua zia. Dopo un attimo di perplessità, in cui mi è venuto in mente un certo Carducci che camminava a fatica, sorreggendosi ad un bastone, e che andava sempre in giro con un calessino trainato da un cavallo, sul quale spesso anch’io salii stringendo nelle mie mani le briglie, mi sono ricordato dei coniugi legati da stretti vincoli di parentela con la moglie di Alfieri. Così,improvvisamente sono riapparsi davanti ai miei occhi le immagini di questa anziana coppia che vidi l’ultima volta nell’estate del 1944 quando camminavano abbracciati lungo le strade del Ponticello in direzione del centro di Seravezza, subito dopo l’esplosione dei proiettili di artiglieria che oltre alla segheria mandò in frantumi anche la loro casa. Furono alcuni operai della Todt ad azionare il detonatore al quale avevano attaccato i fili elettrici collegati ad ogni proiettile collocato alla base dei muri perimetrali della segheria.Dove sorgeva la loro casa rimase soltanto un cumulo di macerie. Ricordo il Carducci e la signora Aurora che distrutti e stravolti dal dolore, rossi in volto e con le lacrime agli occhi, ripetevano entrambi in continuazione queste parole: “ Non c’è più la nostra casina, non c’è più la nostra casina…”.

venerdì 3 dicembre 2010

La vita di Padre Eugenio Barsanti, raccontata dal maestro versiliese Giuseppe Folini, un libro per le scuole

Grazie a don Florio Giannini lessi per la prima volta all'inizio del 2004, il libro edito a cura della Casa Editrice “Il Dialogo” sulla vita di Padre Eugenio Barsanti in occasione del 150° anniversario della invenzione del motore a scoppio ideato dal filosofo, matematico e fisico pietrasantino, e dall'ingegnere fiorentino Felice Matteucci.
Si tratta della ristampa anastatica del libro scritto dal maestro versiliese Giuseppe Folini, che fu dato alle stampe da Salani in Firenze nella collezione “l'Ulivo” nel 1954, oramai introvabile nelle librerie.
Gioia e commozione, ecco cosa sentii nel mio cuore mentre leggevo le pagine di questo libro che mi donò don Florio, davvero un autentico capolavoro.
Più volte mi sgorgarono dagli occhi le lacrime, in primis nel rendermi conto dell'infinito e grande amore che sin da bambino Niccolino (nome con cui fu battezzato Padre Eugenio) nutriva per i suoi genitori.
Brillante negli studi compiuti con il massimo dei voti presso la scuoladegli Scolopi di Pietrasanta, Niccolino non voleva più continuare a studiare, sì desiderava lavorare per poter aiutare la sua famiglia.
Fu suo padre ad insistere perché continuasse gli studi, in modo che le mani del figlio non si riempissero di calli come le sue.
Il libro narra gli esperimenti e gli studi compiuti da solo e poi insieme all'ingegnere Felice Matteucci che contribuì alla realizzazione del motore che prese il nome Barsanti Matteucci.
Emergono le losche vicende del francese Stefano Leonir e dei tedeschi Otto e Langen che copiarono il brevetto Barsanti Matteucci, a dimostrazione della mancanza di scrupoli di questi uomini malvagi.
Quando l'officina Dawan di Seraing, cittadina distante otto km. Da Liegi, stava per produrre il motore in serie sotto la personale direzione di Padre Eugenio Barsanti, questi si ammalò improvvisamente di tifo che in pochi giorni lo strappò alla vita, tra il pianto di tutti i minatori iitaliani in Belgio.
Il 18 aprile 1864, a soli quarantatrè anni, per padre Eugenio Barsanti si aprì la porta del “Padre Celeste”.
Il 10 giugno 1864, Padre Geremia Barsottini, nella chiesa di Sant'Agostino degli Scolopi di Pietrasanta, davanti al feretro dell'illustre scomparso ed alla presenza di una folla enorme, pronunciò un 'eccezionale orazione funebre in cui pose in risalto la vita di Padre Eugenio Barsanti interamente dedicata a Dio, agli affetti dei suoi cari, all'insegnamento ai giovani dello scibile umano ed alla scienza per il progresso dell'Umanità.
Il libro parla anche del furto patito da Antonio Meucci (amico di Garibaldi esule in America) l'inventore del telefono, il quale morì povero, mentre Grahan Bell, che aveva copiato e sfruttato il brevetto del nostro connazionale , diventò ricco..
Dall'avvento del motore a scoppio migliorarono sensibilmente le condizioni di vita dell'uomo, un sogno che Padre Eugenio Barsanti aveva sempre nutrito nel suo cuore.
La lettura di questo libro fa poprio bene al cuore, specie nella nostra era in cui ragazzi violenti si sono macchiati del sangue dei genitori da loro barbaramente uccisi.
Dopo la lettura di quanto aveva scritto il maestro Folini, espressi il desiderio che per le sue pagine sestremamente educative, il suo libro entrasse in tutte le scuole.
Tramite “il Dialogo” segnalai questa mia proposta al ministro pro- tempore della Pubblica Istruzione, signora Letizia Moratti, nella speranza che trovasse un favorevole accoglimento che penso invece che non ci sia stato.

giovedì 2 dicembre 2010

La passione di Cristo – un film di Mel Gibson, altamente drammatico e pieno di scene di inaudita ferocia contro il Cristo Redentore.

Mel Gibson, con il suo film La Passione di Cristo, ha fatto vedere immagini crude e di una estrema violenza relative agli ultimi momenti della vita di Gesù, mentre viene deriso e colpito da pugni e calci, lapidato e frustrato a sangue e, infine, inchiodato sulla croce in mezzo a due ladroni, per volere di chi non credeva che lui fosse il Messia, il figlio di Dio sceso in Terra per la salvezza degli uomini dal peccato originale.
Si deve all'inserimento nella pellicola di alcuni “flah back”, relativi alla vita di Gesù, che ci è nota attraverso i Vangeli ed ai rapporti coi suoi apostoli, l'apparizione del Salvatore in tutta la sua immensa dolcezza.
Egli che aveva compiuto miracoli, ridando la vita ai morti e la luce agli occhi di chi era cieco, guarito paralitici, moltiplicato i pani e trasformato l'acqua in vino, fu considerato a conferma della cecità umana, un uomo falso e bestemmiatore, sia dagli uomini che dirigevano li affari pubblici e curavano l'amministrazione della giustizia, sia da una marea di gente incosciente e maòvagia.
Fu Caifa, il sommo sacerdote che presiedeva il Sinedrio, il supremo corpo politico e religioso ebraico che osò giudicare e proporre la morte di Gesù, chiedendo a Ponzio Pilato, il prefetto romano della Giudea, di infliggergli il supplizio della crocifissione, pena che di solito veniva comminata a persone condannate per i gravi delitti compiuti.
E il governatore Ponzio Pilato, che pur non ravvisava nel comportamento di Gesù alcuna violazione della legge, cedette alle pressioni del Sinedrio, forse perché temeva una sommossa di questa provincia che a stento sopportava la presenza romana, egli si rivelù un pavido che non seppe essere all'altezza della carica affidatagli.
Tentò, comunque, di salvargli la vita, infliggendo a Gesù la pena dolorosissima della fustigazione, alla cui esecuzione furono com andati alcuni soldati romani che, nel colpire il corpo di Gesù con verghe e flagelli di mostrarono un' inaudita ferocia.
Non fu sufficiente per il Sinedrio e per la folla impazzita questa punizione, per lasciarlo libero.
Crocifiggetelo! Crocifiggetelo!...” urlava Caifa.
Pilato non volle assumersi alcuna responsabilità diretta della morte di Gesù.
Davanti a tutti si lavò le mani.
Così prevalse la cattiveria degli uomini che usarono una violenza estrema ed uccisero senza pietà, il figlio di Dio che predicava soltanto l'amore, la carità ed il perdono.
Mi domando come Giuda abbia potuto tradire il Maestro per trenta monete di argento?
Si pentì è vero e per il rimorso che provò si impiccò ad un albero, macabra la vista del suo corpo penzoloni dalla pianta.
La visione di questa pellicola mi scosse fortemente.
Il volto di Gesù ridotto ad una maschera di sangue è un immagine davvero sconvolgente. La morte sulla croce e la risurrezione di Gesù segnò il ritorno alla grazia ed all'eterna salvezza di tutti gli uomini di buona volontà. Ecco il miracolo della Fede.
Satana il demonio, col viso d'angelo, ha sempre aleggiato in tutte le scene del male rappresentate nel film.
Nelle diverse pellicole cinematografiuche girate sulla crocifissione di Geù, mai avevo visto immagini così altamente crudeli.
Eccezionale è l'interpretazione di Gesù da parte dell'attore principale, è tale è anche quella degli altri attori.
Mentre Gesù sale sul Golgota con la croce sulle spalle, sullo sfondo appare la fantastica visione paesaggistica dei Sassi di Matera.
E' un film drammatico tutto da vedere.
La colonna sonora è stata doppiata sia in aramarico, la lingua che veniva parlata nella Giudea al tempo della vita di Gesù, sia in quella latina.
Dalle didascalie apposte sulla pellicola, si leggono le parole pronunciate dagli attori interpreti del film.
Mel Gbson, per questa sua opera, ha raccolto sia critiche aprioristiche che elogi.
Taluni hanno sostenuto che è un film antisemita, ma la parola “judacus” pronunciata in mezzo ai denti, chiaramente in senso dispregiativo, da un soldato romano a Simone Cireneo che aiutava Gesù a portare la Croce sul Golgota , ha dimostrato che così non è.
Per taluni critici critici il parlare dei romani è suonato falso, sì, troppo classico.
Sotto il profilo storico e filologico il rigore doveva essere il primo obiettivo del film.
L'aver messo Cicerone in bocca alla soldatesca romana indisciplinata e violenta, è stato considerato, da una parte della critica cinematografica, l'unico errore del film.
Ha fatto bene Mel Gibson a farci vedere come avvenne la morte di Gesù, il quale, dalle scene gikrate, appare in tutta la sua grandezza divina.
E' in questo quadro che trovo fulgide le parole da lui pronunciate sulla croce, prima di morire: “Padre, perdona loro, perchè non sanno quello che fanno”.



P.S. - Questo mio articolo che scrissi dopo aver visto il film girato da Mel Gibson, fu pubblicato sul mensile cattolico versiliese “il Dialogo”, del gennaio e febbraio 2005, fondato e diretto da don Florio Giannini. Le scene crudeli e violente richiamarono alla mia mente la spaventosa strage di S. Anna commessa il 12 agosto 1944 dalle criminali S.S naziste, tanto da farmi pensare che Gibson era, a mio parere, il registra che avrebbe dovuto girare un grande film su questa spaventosa strage di innocenti.In America so che leggono il mio blog stretti congiunti dell'Angelo Biondo, la ragazza martirizzata a Seravezza nel 1944. Se conoscessero persone interessate alla produzione di pellicole cinematografiche ad esse potrei spedire, tanto per farsene un'idea. un mio racconto sulla Strage di S. Anna senza nulla a pretendere. Alexandra, se mi legge mi faccia sapere cosa ne pensa? Grazie e cordiali saluti, Renato Sacchelli

mercoledì 1 dicembre 2010

Francesco Viti - La Poesia di un cavatore all'inizio del 1900

Francesco Viti, il primo in ordine di tempo, poeta e cavatore versiliese, autore anche dell'inno dedicato a San Giovanni , il Patrono di Riomagno, ci ha lasciato interessanti testimonianze scritte che riguardano, tra l'altro, anche le difficili condizioni di vita della gente dei monti intorno a Seravezza all'inizio del 1900.

Egli come il padre, lavorò sulla cava fin da ragazzo, perché, come si legge nella poesia Il Cavatore che scrisse nel 1902, “con il latte succhiai, cosa non lieta / la polvere dei marmi e cavatore divenni invece di venir poeta.

Sempre da questa poesia, forse la prima da lui scritta, nel giudicare “improba troppo e faticosa è l'arte dei cavator / che con disagio e pena/ di sua vita ogni fibra ed ogni parte / risente il peso di si ria catena” avverte la durezza del mestiere, che pure amava fino a divenire un esperto capocava, perché è ancora al buio si verificava “ che già marmore schegge in ogni parte / volano ai fieri colpi ch'egli mena”, e ne evidenzia. con in versi conclusivi, “Ed ahi sventura ed ahi crudel dolore / purtroppo spesso avviene che all'improvviso / un masso cade, lo colpisce e muore”, il dramma tragico che scaturiva dalle frequenti disgrazie che anche in quel tempo si verificavano.
E' dalla poesia intitolata I lamenti del popolo della frazione Cappella, scritta nel 1905, che appaiono durissime e di incredibile arretratezza le condizioni in cui viveva la comunità montana accennate in precedenza , sprovvista dei più elementari servizi di utilità generale.
Nonostante il fatto che da allora siano trascorsi ben 85 anni , alcune tematiche di fondamentale importanza per la vita dell'uomo, sono ancora attuali.
Francesco Viti desiderava pagare le tasse , anche se siano per noi si gravi / che non hanno più confronto / con quelle dei nostri avi.
Voleva però, e con piena ragione, che il denaro pubblico fosse speso bene come lo sarebbe stato se l'avessero destinato per la realizzazione di opere atte a migliorare la vita di tanta gente costretta ad abitare in luoghi isolati e impervi e Privi di levatrice e di medico / e bbian solo la luna per lampione / e mancaci una scuola / siamo tremila e certo / a chi non sa gli è strana / il medico non vedesi / un dì per settimana .
E ancora: Sappian di certe donne / che giunte a mal partito / avevan per levatrice il povero marito. / E perciò di lagnarci abbian nostre ragioni: nascer come agnelli morir come montoni.
Con questa poesia semplice, cruda ma vera, Francesco Viti 85 anni fa ebbe il coraggio di porre sotto accusa l'inefficienza di una amministrazione comunale che si disinteressò completamente dei diritti e dei bisogni essenziali della comunità montana.
A me sembra anche essere un documento storico da conservare con cura in quanto descrittivo di una vita troppo sofferta da molti versiliesi vissuti in quell'epoca.
Nella lettera, in versi poetici, che da Filettole nel marzo del 1908 inviò alla moglie, Francesco Viti nel descrivere quella località della valle del Serchio dove per un certo periodo di tempo diresse una cava di marmo rosso che fu utilizzato per la costruzione del palazzo della Borsa di Genova, dopo aver manifestato anche il suo apprezzamento per gli abitanti ricchi di fede cristiana, ribadisce la sua fedeltà coniugale, Se mi dovrò molto trattenere / sposa stai certa che ci porto il letto, un comportamento che da sempre accresce l'amore e mantiene unita una coppia.
Divertenti i versi con i quali ordinò al titolare di una nota ditta milanese una mezza dozzina di bottiglie di un liquore, ancora oggi in commercio che “ Bevo ogni giorno / ed ora son docile / come un agnello / dice mia moglie a questo e quello”.
Aveva assaporato il liquore una sera a Seravezza, mentre si accingeva a fare ritorno a casa, consigliato dal droghiere Benti al quale il Viti disse di avere dei disturbi allo stomaco. Sentitosi meglio, il Viti inviò la singolare richiesta in ordine alla quale ricevette gratis un'intera cassetta di tale prodotto che aveva proprietà digestive, particolare questo che fece scrivere un'altra poesia di ringraziamento: Io quando ordino, lo tenga a mente / che non le voglio così per niente.
Nella circostanza assicurò che i liquore l'avrebbe fatto bere anche ai suoi operai.
Essendo da molti anni capocava / ancor non ho pensato ai miei operai / che faticano molto / E' gente brava / ma bevon ponci e vino e spesso assai / per l'ubriachezza sono molto fiacchi / sì che il lavoro ne risente guai.
Nella poesia scritta nel 1912 perchè il figlio Pasquale la leggesse durante il viaggio di trasferimento in Tripolitania dove partecipò alla guerra contro i Turchi, Francesco Viti dimostrò di avere altissimo il senso del dovere e della disciplina, esortando il suo ragazzo a non badare alla fatica, ad obbedire agli ordini dei superiori di qualsiasi grado ed a sparar bene e spesso.
Ed è davvero bello che questo linguaggio sia sgorgato dal cuore di un uomo impegnato in lavori durisssimi sulla cava per ben 12 ore al giorno, dove in una quindicina venivano riquadrati circa 100 tonnellate di blocchi di marmo, come scrisse in calce ad una poesia iniviata ad un suo amico il 14 luglio 1908. una fatica immane che tuttavia non gli impedì, nel tempo libero, di stringere fra le dita della callosa mano la penna per scrivere quanto gli dettava la sua anima di poeta.
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Nella sua poesia non si abbandonò alla contemplazione delle bellezze della natura coi suoi fiori, colori e paesaggi incantevoli bagnati dal mare che in Versilia sono costantemete sotto gli occhi di tutti, ma pose attenzione e concentrò la sua creatività poetica soltanto sugli aspetti della vita semplice, vissuta tra molte sofferenze, da gente umile e forte che con il suo comportamento nobilitò ancora di più ls nostra terra.

Renato Sacchelli

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Questo mio articolo fu pubblicato da “Il Dialogo” sul Numero di Settembre 1990, pag.7.
Quando nel dicembre del 2002, il direttore del mensile Don Florio Giannini, fece stampare il libretto delle poesie del cavatore Francesco Viti, intitolato “Polvere di Marmo”, di seguito alla sua presentazione di questi scritti inserì anche quanto avevo scritto in merito dodici anni prima. .

sabato 13 novembre 2010

UOMINI E TOPI

Ho girato questo mio racconto sullo sfollamento della gente di Seravezza, ordinato dai tedeschi nell'estate del 1944, a Paolo Capovani, affinché lo facesse pubblicare sul libro, curato dal Circolo Culturale Sirio Giannini, che parlerà della barbara uccisione dell'eroe seravezzino Amos Paoli.

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Davanti al metato dove si era rifugiata la mia famiglia, nell’estate del 1944, tra il Pelliccino e il Colle, un pomeriggio del mese di luglio o del mese successivo, si presentò una pattuglia di militari tedeschi al comando di un ufficiale. Nella nostra lingua che parlava abbastanza bene, ci disse che da lì dovevamo andare via. “Via, via! Subito! Guerra! Guerra! Gli americani sono vicini e fra pochi giorni ci saranno i primi scontri” In preda ad una comprensibile paura tutti rimanemmo senza parole. L’ordine era perentorio. C’era ben poco da dire e da fare, in fondo si trattava della nostra sopravvivenza. Dove andiamo? Sgomento e smarrimento trasparivano dagli occhi dei miei genitori. Sotto di noi, in fondo alla stretta valle, si vedevano i tetti delle case di Riomagno, troppo vicine alle postazioni tedesche per pxensare di rimanere laggiù. Più in alto a metà del monte che avevamo davanti, tra le foglie dei castagni si intravedevano le case di Giustagnana e fu proprio in quella località che mio padre decise di andare.

Lasciammo il metato con le poche cose che avevamo. A me fu affidato il compito di portare il materasso dal quale, quando qualche anno prima fu promossa, a scuola, una raccolta di lana da destinare alla produzione di maglieria e di calzettoni per i nostri soldati in Russia, mia madre ne estrasse alcuni pugni. Oh! Come appariva lontana la guerra da noi, il cui esito vittorioso all’inizio nessuno osava mettere in dubbio. Avevamo otto milioni di baionette e i canti "Vincere e vinceremo in cielo in terra e mare…". "Partono i sommergibili", forieri di tante illusioni e di troppo facili ottimismi. Per noi ragazzi, nati figli della Lupa, poi divenuti balilla e infine balilla moschettieri, la partita si stava chiudendo in modo davvero imprevedibile e non come tante volte ci avevano fatto credere o sperare. A Riomagno che raggiungemmo in poco tempo c’era una grande confusione con tanta gente che scappava dalla zona arrampicandosi sul monte per raggiungere i paesi sovrastanti di Giustagnana, Minazzana, Fabbiano e Azzano. Giunto alle piane del Loghetto, mentre mi riposavo, mi passarono accanto due fratellini, un bimbo e una bimba. L’uno con delle pentole e l’altra con dei piatti in mano. Gli occhi neri e tanto sbarrati della piccina esprimevano la grande paura di cui doveva essere in preda. Quello sguardo terrorizzato non l’ho mai dimenticato. Dopo aver ripreso l’arrampicata giungemmo vicino alla chiesa di Giustagnana, dove sostammo, ai margini della mulattiera, in attesa che mio padre facesse ritorno dal centro abitato in cui subito si era recato alla ricerca di una stanza dove poterci trascorrere almeno la notte.

Quando ritornò bastò guardarlo in faccia per capire l’esito negativo delle sue ricerche. Peraltro Giustagnana già da tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole ubicate lungo i pendii, adibite a ricovero degli attrezzi, erano state occupate da tanta gente ch’era fuggita dalle loro case sul mare o dall’immediato retroterra. “Stanotte si dorme sotto un castagno!”. E mentre mio padre pronunciava siffatte parole, fu udito anche da due uomini che con la "giubba" (giaccone, ndr) sulle spalle e con il pennato attaccato alla cintura dei pantaloni, all’altezza del fondoschiena, facevano ritorno a casa dopo aver lavorato nei boschi o nelle selve, l’unica attività che potevano ancora svolgere essendo state da tempo chiuse le cave e tutte le aziende della Versilia. "Potete sistemarvi in chiesa, ci sono già altri sfollati”, disse uno di loro. Quando mio padre ritorno bastò guardarlo in faccia per conoscere l’esito negativo delle sue ricerche. Nessuno ci diede una mano. Giustagnana gà da tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole, fatte di muri a secco e con i tetti di piastre erano state occupate da tanta gente costretta a lasaciare le loro case vicine al mare e nell’immediato retroterra. “Stanotte si dorme sotto un castagno!Quando ritornò bastò guardarlo in faccia per conoscere l’esito negativo della sua ricerca. Nesssuno ci diede una mano. Peraltro Giustagnana già da un po’ di tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole che c’erano in quel tempo lungo le pendici del monte, solitamente adibite al ricovero degli animali e degli attrezzi da lavoro con visibile soddisfazione. Per la buona notizia che ci aveva dato. In chiesa? Mi sdembrò una cosa incredibile da farsi. Ma non c’erano altre soluzioni e lì dovevamo andaare se non avesssimo voluto trascorrere la notte all’addiaccio.

Fui proprio io che, poco dopo, varcai la soglia della casa di Dio. A prima vista mi sembrò che all’interno non ci fosse più spazio tanta era la gente che l’aveva occupata. Fatti alcuni passi tra i materesassi e le altre cose sistemate con ordine sul pavimento della chiesa, vidi che ai piedi di un altare non c’era nessuno, era il solo posto rimasto libero. Tirai un grosso sospiro di sollievo. Intanto gli ultimi raggi del sole che stava per scomparire dietro il crinale del Monte Canala, penetrati a fasci, attraverso le vetrate colorate , illuminavano ancora l’interno del sacro edificio, nel quale spiccavano le immagini sacre e si muovevano esseri umani colpiti dalla sventura. Per un attimo mi sembrò di essere al centro di una scena irreale. Raccolta frettolosamente della legna secca e acceso il fuoco furono cotti gli ultimi patatini. E con la fame che ancora si sentiva, ci distendemmo sul materasso addosso ai nostri genitori. Quattro figli: un nido!. Quando stavo per chiudere gli occhi, uno sfollato fu improvvisamente colpito da convulsioni. Lo conoscevo questo uomo che a Seravezza , ogni domenica vendeva i giornali lungo le vie del paese. “Aiuto, aiuto…” gridavano i suoi familiari. In un attimo tutti gli uomini che erano in chiesa gli si avvicinarono per tenerlo fermo. Appena sentii dir:. “Si è calmato” di colpo mi addormentai. I giorni trascorsi a Giustagnana li ricordo come i più tribolati della mia vita. Nessuno pensò di scavare delle fosse per certi bisogni fisiologici, motivo per cui quando si era costretti a inoltrarsi nella vicina selve, non si poteva ritornare in chiesa se prima non si passava dal canale per lavarci bene i piedi, tanto puzzavano per avere calpestato gli escrementi umani di cui quel terreno era pieno.

Io non ce la facevo più a vivere in quel posto, troppo grande era la sofferenza. Esortai i miei genitori a cercare qualche casupola dove trasferirci. Fortunatamente trovammo una casettina tutta scalamata, ubicata tra Giustagnana e Fabiano, non più utilizzata dall’uomo, motivo per cui da tempo doveva essere il regno incontrastato dei topi visto lo spessore sotto le vecchie e screpolate tavole del pino riaalzato, dei  loro escrementi alto diversi centimetri formatosi col trascorrere del tempo sotto le tavole del piano rialzato. Dopo aver fatto riparare il tetto a nostre spese ed averla ripulita quella casettina che aveva una finestrina mi sembrò persino bella. Lì trascorse pochi giorni anche mia nonna Marianna che all’inizio dello sfollamento era stata ricoverata all’ospedale di Valdicastello. La portò lassù mio padre sulle spalle, quando venimmo a sapere che dimessa inspiegabilmente dal nosocomio, aveva fatto lentamente ritorno nella sua casa del Ponticello, dove fu assistita, non so per quanti giorni, dalla buona famiglia Landi che non aveva ottemperato all’ordine di sfollamento, continuando a rimanere nella propria abitazione fino al momento in cui i tedeschi decisero di far saltare in aria l’intero rione. Senza l’aiuto della famiglia Landi sicuramente mia nonna sarebbe morta di fame e di sete. E in quella casettina di Giustagnana che pareva dell’uomo primitivo, tanto piccola da poter sembrare quella di Biancaneve e Settenani, rimanemmo fino alla caduta delle castagne e alla nascita dei primi funghi. Fu proprio in quei giorni che a Giustagnana arrivarono i soldati di colore statunitensi della divisione Bufalo.

Raccogliere le castagne proprio davanti al nostro rifugio era un sogno che non poteva durare e infatti non durò. Quando immediatamente dopo l’arrivo dei soldati americani, mia madre rimase ferita ad una gamba dalle schegge dei colpi di mortaio coi quali i tedeschi accolsero l’arrivo dei soldati americani, fummo costretti a rifugiasi in un fondo del centro abitato adibito alla custodia di attrezzi per lavorare la terra. In un angolo c’era anche un mucchio di fieno. Mia madre ferita fu medicata dai soldati americani. E così mentre la natura donava i suoi frutti nutrienti e saporosi, la guerra scatenata da uomini folli che con la forza delle loro armi volevano imporre ai propri simili le loro ideologie e i proprie interessi, senza alcuna considerazione per i diritti sacri e inalienabili dell’uomo, primo fra tutti quello della libertà, continuava a mietere vittime innocenti. Che stridente contrasto tra il mondo davvero fantastico e meraviglioso e la libertà repressa nella maniera più violenta da essere spregevoli che meriterebbero di bruciare in eterno fra le fiamme dell’inferno.

martedì 9 novembre 2010

ECCO COME FU UCCISO AMOS PAOLI

Ho affidato questo mio scritto, sull'uccisione dell'eroe seravezzino Amos Paoli da parte delle S.S., a Paolo Capovani per il "Circolo Culturale Sirio Giannini", che lo pubblicherà sul suo libro, ricco di altre testimonianze di persone che videro, coi propri occhi, fatti violenti e sanguinari che si verificarono in Versilia e in Apuania durante la tragica estate del 1944 ed anche nei sette mesi successivi in cui, nella nostra terra, furono combattute aspre battaglie.

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Da ragazzo vedevo spesso transitare lungo la via del Ponticello di Seravezza un giovane con le grucce sotto le ascelle, abitante in una delle prime case di Riomagno, a poca distanza dall’inizio della mulattiera che conduce sulla cima del Monte Canala. Era Amos Paoli rimasto paralizzato alle gambe a causa della poliomielite contratta in tenera età, quando non esisteva alcun vaccino per combattere questa tremenda malattia infantile. Sul suo volto non vidi mai alcun segno di disperazione; andava avanti sopportando serenamente il suo grave handicap.

Guido Menchetti, che frequentò insieme ad Amos le scuole elementari di Seravezza, lo ha ricordato con la commovente poesia intitolata “Il mi' compagno di banco”, già pubblicata nel libro di storia versiliese di Giorgio Giannelli “Versilia. La trappola del 44”, che ricorda anche la cronaca della cattura di giovani di Riomagno da parte delle S.S., ritenuti aderenti al movimento partigiano: “Le gruccette tenea sotto l’ascelle / e stragicava le gambette secche; / su da Rimagmo fino ’n cima al Chiasso; / sembra guasi un assurdo: passo, passo. / A tracolla la misera cartella, /quando un era una borsa di pezzame, / gli sballottava sempre sulla schiena / e cotanta sventura era ’na pena. / E dopo tre rampate di scalini / con le stampelle misse sott’un braccio, / arrivava nell’aula già stanco / il Paoli, compagno mio di banco. / Fu martire da vivo ed or che morto / leggo ’l suo nome su ’na lastra bianca, /una palma, mi sovvien, / forse era nata / perché al mi amico fusse un dì donata. / Come fece ’l Ferrucci a Gavinana, / puntando ’l dito contro l’aguzzino, / gli avrà certo parlato a fiato corto: / Oh vigliacco! Tu uccidi un òmo morto. / Che eroi! Che bravi! / E che fadigata / avranno fatto per distrugge un mito! / Che ‘n Versilia era esempio d’onestà / d’amore, d’abnegazione e libertà. / Povero Amos! Te un ridei mai; / ma’n t’ho mai visto piange o lamentatti: / con que’ riccioli biondi e ’l viso bianco, / fusti per me,’l compagno mio di banco”.

Ricordo Amos anche quando i suoi amici lo portavano in giro sulla canna delle proprie biciclette. Stridevano i freni allorché scorrazzavano lungo la via sterrata e piena di sassi del Ponticello, dove Amos ed il suo amico si fermavano sempre nella piazzetta del centro del rione per chiacchierare con le ragazze, che Amos accoglievano sempre con simpatia. Allora lui rideva, oh come rideva in quei momenti! Nella notte fra il 25 e 26 giugno 1944, un gruppo di S.S. guidate da un repubblichino che faceva da interprete, circondarono la casa del Paoli per catturare suo padre che invece non vi fu trovato. La soldataglia stava per andarsene quando il repubblichino gridò: “Qui ci devono essere delle armi per forza!” Saltarono così fuori uno Sten e due pistole Smith che prima che i tedeschi entrassero nell’abitazione, il fratello più piccolo di Amos aveva nascosto sotto un materasso. Alla fine Amos, fatto salire sulla propria carrozzina, fu trasportato in una villa vicina a Corvaia insieme a Luigi Novani che si era fermato a dormire nella casa dell’amico ed a Lorenzo Tarabella, arrestato in una abitazione adiacente a quella del Paoli, dove pensavano che vi fosse il partigiano Giuseppe Marchi, che fortunatamente aveva trascorso la notte altrove. Il giorno 26 giugno le S.S. portarono in giro Amos e i due suoi amici per le vie di Seravezza e di Riomagno, a bordo di una camionetta, che tra l’altro, nel momento in cui aerei alleati sorvolarono la zona, si riparò sotto la piccola volta di Riomagno, all’inizio della mulattiera che sale alle cave della Cappella. Al Paoli fecero rivedere la sua casa; volevano intenerirlo.

Gli promisero che lo avrebbero rilasciato se lui avesse fatto il nome dei partigiani che conosceva, ma lui non fiatò. Disse soltanto: “Finimola con questa storia!” Riportati a Corvaia li misero al muro con le spalle rivolte verso di loro, sparando colpi di pistola fra l’uno e l’altro. Dopo qualche ora i tre furono fatti salire su un camion e trasportati nella villa di Compignano, sopra il monte Quiesa, dove operava il comando delle S.S.. Durante il trasporto dovevano stare in ginocchio e non più seduti. Amos non ci riusciva e furono i suoi due amici a sorreggerlo durante tutto il viaggio. Appena arrivati, i tre giovani furono picchiati a sangue e mentre picchiavano, al Paoli gridavano: ”Tu capo partigiano!”. All’alba del 27 giugno 1944 una S.S. trascinò per una gamba il povero Amos fuori dalla villa per un centinaio di metri, mentre il poveretto urlava: “Oddio, Oddio!”. Quando egli vide che il tedesco stava caricando la pistola cominciò a invocare la sua mamma. Fu in quel momento che la S.S. gli scaricò al centro della fronte l’intero caricatore, gettandone poi il corpo giù da un poggio.

Aveva solo ventisette anni. I due amici di Amos, il Novani e il Tarabella, che raccontarono poi gli avvenimenti e le loro peripezie, riuscirono a salvarsi dopo aver subito botte e concrete minacce di venir uccisi. Concludo ricordando che fu mio padre a murare a Compignano, dove la mia famiglia si era trasferita qualche mese dopo la fine della guerra, la piccola lapide nel punto in cui Amos Paoli - che per il suo comportamento fu insignito, alla memoria, di Medaglia d’oro al Valor Militare - fu barbaramente trucidato; fui io a tenerla alzata e aderente al muro mentre la murava. Glielo aveva chiesto il babbo dell’eroe che aveva occasionalmente incontrato a Pietrasanta. Il Paoli sapeva che abitavamo in quella località e dopo aver saputo da mio padre stesso che il fattore della tenuta, in cui fu ucciso suo figlio, non aveva provveduto all’incarico che gli aveva dato, gli disse “Orlando, pensaci tu”.

mercoledì 3 novembre 2010

Le antiche origini di Seravezza

Ai piedi del contrafforte tirrenico delle Alpi Apuane, nel punto di confluenza delle acque dei fiumi superiori Serra e Vezza,laddove nasce il Versilia, il fiume che ha dato il proprio nome a tutto il territorio circostante dai monti alla pianura, quest'ultima ristretta tra il Cinquale e Motrone, sorge Seravezza, già nota, nel 952, con il nome di Sala Vetitia.
Con il nome invece di Salavecchia fu citata da Tolomeo nei suoi annali lucchesi del 1142, quando i nobili di Corvaia e di Vallecchia, Veltro e Uguccione investirono il comune di Lucca della metà del territorio di Corvaia. In uno scritto del 2.2.1186, Giovanni Torgioni Tozzetti, rammenta una villa di Seravetitia, nome che si ritrova anche in un documento del 1375 concernente la vendita di una ferriera, ivi esistente, di proprieà del nobile della Versilia Niccolò dello Strego, ad Ulderico Anteminelli da Lucca.
Insediamenti di popoli di origine ligure nella pianura di Seravezza e in quella limitrofa (Pietrasanta), tanto per dare uno sguardo al passato alla ricerca delle nostre radici, risalgono al 177 a.C. come fu provato dal ritrovamento, in località Baccatoio, di un cimitero antico con tombe a cassetta a incinerazione, tipiche dei liguri di quel tempo, Il cimitero fu scoperto nel tratto del terreno sul quale doveva passare la rete ferroviaria Roma Torino, che fu realizzata dopo l'unità d'Italia (1861).
Contrariamente a quanto anch'io, fin da ragazzo avevo creduto, non sembra proprio che il nome di Seravezza derivi dai fiumi Serra e Vezza, in quanto gli stessi fino agli anni del 1800 , erano conosciuti come i torrenti, rispettivamente di Rimagno e di Ruosina. In ordine a tale constatazione si può dedurre che siano proprio i fiumi superiori del Versilia a derivare dal nome di Seravezza.
Già feudo dal secolo XIII dei signori di Corvaia e di Vallecchia per volere dell'imperatore Federico II, Seravezza, quando fu abbattuta la potenza feudale, fu unita alla Vicaria di Pietrasanta. Saccheggiata e devastata nel 1429 dalle milizie fiorentine in guerra con Lucca, capeggiate dal commissario Astorre Gianni, le stesse di ritorno da Sarzana ( narra Niccolò Macchiavelli nella sue Istorie fiorentine) irruppero a Seravezza dove fecero suonare una campana della chiesa davanti alla quale si radunò la popolazione, convinta di ricevere qualche buona notizia. Invece tutti i presenti furono spinti ad entrare nellla casa di Dio, dove le donne furono separate dagli uomini che furono rinchiusi in sacrestia. Dopo questa separazione le femmine di qualsiasi età, vergini o sposate, furono tutte violentate.Con gli abiti ridotti a brandelli, nude o quasi, fecero ritorno nelle loro case. Di Astorre Gianni ha parlato anche Jbernard Sancholle Henraux, che sull'orrendo comportamento degli uomini di questo commissario fiorentino, ha scritto che: “...fece passare a fil di spada” gli uomini di Seravezza. Nel 1450,seguendo le sorti di Pietrasanta, passò ai Genovesi; nel 1484 a Firenze, nel 1486 a Carlo VIII Re di Francia; nel 1509 a Lucca per volere dell'imperatore Massimiliano, e poi ancora a Firenze, dopo il Lodo di Leone X del 28.9.1513.
Da allora Seravezza rimase sempre unita a Firenze, fino a quando il Granducato di Toscana, in quel tempo sotto sotto gli Asburgo-Lorena fu annesso al Regno Sardo con il plebiscito del 15 marzo 1860. Da tale unione molti vantaggi ed una parziale autonomia derivarono a Seravezza, verosimilmente anche in relazione all'atto di donazione delle cave della Ceragiola e del Monte Altissimo che i seravezzini fecero a Firenze nel 1513.
Si deve ai fiorentini l'impulso dato negli anni successivi all'escavazione dei marmi, ai quali furono interessati sia Michelangelo che Giorgio Vasari ed altri celebri scultori di quel tempo, inviati a Seravezza da Leone X e da Cosimo I, per seguire di persona l'estrazione appunto dei marmi di cui avevano bisogno per realizzare le loro opere.Notevole incremento fu dato anche allo sfruttamento delle miniere d'argento esistenti nei pressi di Seravezza, chiamate del Bottino,alle quali lo stesso Cosimo I fu molto interessato, tanto da fare cesellare un vassoio, ricavato dal primo quantitativo del prezioso minerale, dal celebre incisore Benvenuto Cellini.
In quegli anni e per lungo tempo furono famosi i laboratori per la produzione di oggetti in rame, di ferro e di archibugi, questi ultimi fabbricati nella vicina Valventosa. Dopo un periodo di abbandono delle cave, che iniziò intorno al 1688, l'economia di Seravezza si riprese quando fu fondata nel 1821 da J.B. Alessander Henraux l'omonima società, sotto la quale l'escavazione e la lavorazione del marmo ripresero a pieno ritmo, tanto da determinare la crescita di Seravezza a tal punto da essere considerata la capitale della Versilia.
Dal punto di vista artistico, pregevole è il duomo di Seravezza, dedicato ai Santi Patroni  Lorenzo e Barbara, coperto da cupola e con il campanile merlato a bifore, risalente al 500, ma riedificato e ammodernato nei secoli XV e XVI e restaurato dopo i gravi danni subiti nel corso della seconda guerra mondiale, quando nei mesi finali, fu combattuta aspramente anche sui monti di Seravezza.
L'interno a tre navate separate da colonne, è ricco di altari, di un pulpito di stile barocco in marmo policromo, di una piccola fonte battesimale scolpita da Stagio Stagi nel sec. XVI, e di un paliotto marmoreo intarsiato del 600,di Iacopo Benti.Una croce
d'argento dorato in mezzo a figure di santi, tra i quali San Lorenzo, attribuito al Pollaiolo, con incisa l'iscrizione dell'anno 1498, si trova nella sacrestia dove vi sono altri preziosi arredi sacri. Nel duomo sono conservati, in una bara di vetro posta sotto un altare, i resti di S. Discolio martire, soldato di Roma.
L'altra chiesa di Seravezza, dedicata alla Santissima Annunziata, completamente rasa al suolo dai tedeschi insieme a tutte le case dei rioni Fucina e Ponticello durante la tragica estate del 1944, fu ricostruita nel dopoguerra. Nel paliotto mostra un bassorilievo di D. Benti con la Vergine ed il Bambino. Nell'interno si ammira la tela dipinta da Pietro da Cortona (Pietro Berrettini) nella prima metà del XVII Secolo “Le Pie Donne al Sepolcro”, dono del granduca di Toscana Leopoldo II. L'opera fu salvata dalla distruzione da Raffaello Binelli, il quale riuscì a staccarla dalla cornice, insieme alla tela l' Annunciazione, dipinta da Filippo di Luca Martelli da Massa nel 1639 circa, prima che la chiesa saltasse in aria.
Particolarmente interessante è il palazzo Mediceo, noto un tempo come Casinò Ducale, costruito fra il 1555 e 1565, secondo taluni dall'architetto B.Ammannati, secondo altri dal Buontalenti, su ordine di Cosimo I, il quale vi dimorò nei mesi estivi sia perché attratto dal clima mite di Seravezza, sia perché desideroso di seguire personalmente, l'estrazione dell'argento dalle miniere vicine, chiamate del Bottino. Anche dopo la morte di Cosimo I il palazzo fu sempre adibito a dimora estiva dei granduchi di Toscana, fino a quando nel 1784 fu ceduto alla comunità di Seravezza,la quale però ne perse il possesso per volere dello stesso Leopoldo I che volle adibirlo a uffici e magazzini dell'azienda per l'allevamento delle trote, con vivai situati nei pressi di Ruosina.
Il palazzo costituito da due ali avanzanti che racchiudono il cortile, dopo una serie di lavori eseguiti, negli anni 1970 e 1980, è ora adibito a importanti mostre ed a manifestazioni culturali di grande interesse. Per molti anni fu anche sede comunale. Seravezza fu famosa anche per la purezza delle acque dei suoi fiumi. Forse perché fu scolpita nella pietra e posta sopra il pozzo sito all'interno del palazzo Mediceo, si ricorda , ancora oggi, la trota di 13 libbre che nel 1603 fu pescata nel fiume di Ruosina dalla granduchessa di Toscana , Caterina Asburgo Lorena.
Emerge , tra le opere più vicine a noi, il monumento ai Caduti della vittoriosa prima guerra mondiale 1915/1918, per la forza prorompente che sembra sprigionarsi dalla scultura raffigurante l'uomo di Seravezza, mentre, nella sua completa nudità, solleva al cielo un masso di marmo scavato dalla montagna. E' un'opera ammirevole anche per la bellezza ed i significati dei suoi quattro bassorilievi, ma che al tempo stesso s'impone per la sua potenza mascolina.
Il monumento ideato ed eseguito dallo scultore camaiorese Cornelio Palmerini, inaugurato il 19.5.1929, fu portato a termine dopo la morte del Palmerini,avvenuta nel 1927, da Arturo Dazzi.
Bellissima è anche la fontana che si trova nella piazza del centro adornata da stupende sculture raffiguranti fanciulli a cavalcioni di pesci marini,un'opera che reca ancora visibili i danni subiti durante gli eventi bellici del 1944/45. =""
Ma è dallo splendore dei suoi marmi abbacinanti, impastati con l'acqua del mare e dai suoi monti rimasti antichi, laddove non c'è stata alcuna estrazione dei marmi, che vieppiù c'è da rimanere sedotti da questa Seravezza che certamente abbagliò gli occhi di coloro che per la prima volta la videro, quando il sole non aveva ancora annerito le rocce bianche e policrome, spuntate dalle distese marine, durante il movimento divino di formazione della crosta terrestre, in uno sfavillio di luci riflesse nel cielo. Parlando dell'ospedale di Seravezza debbo dire che già nel 1515 viene menzionato lo spedale, ivi esistente con la chiesa dedicata a S. Maria, poi convertita nella chiesa della Misericordia. Per quanto riguarda l'assistenza ai "vecchi", o come si dice ora non autosufficienti, ed agli orfani, risale alla fine del 1700 la fondazione del Conservatorio da parte del cav. Ranieri Campana, un'opera ingrandita nel 1772 e aperta nel 1794, otto anni prima che il conte Francesco Campana, appartenente alla stessa pia famiglia, dopo essere riuscito a unire le due fondazioni fondò l'ospedale che ha funzionato per circa 200 anni a Seravezza, cioè fino all'entrata in funzione nella pianura vina al Lido di Camaiorene del nuovo ospedale chiamato Versilia.
Seravezza ha dato i natali a padre Giovanni Lorenzo Berti, nato nel 1688, teologo imperiale, professore nell'università di Pisa ed autore di varie opere: al letterato padre scolopio Francesco Donati, detto Cecco Frate, che fu amico di Giosuè Carducci, al cavaliere Luigi Angiolini che fu ambasciatore del governo Toscano a Roma ed a Parigi; concluse la sua carriera con la nomina a consigliere di Stato, al pittore Giuseppe Viner, allo scrittore Enrico Pea ed al professore Dino Bigongiari che per oltre 50 anni fu docente alla Columbia Università di New York.
Tra gli uomini del nostro tempo dobbiamo ricordare lo scrittore Sirio Giannini, scomparso prematuramente, il defunto senatore Armando Angelini e l'onorevole avvocato Leonetto Amadei anche questi defunto, che fu un parlamentare per diverse legislature fino a divenire il Presidente della Corte Costituzionale. Voglio ricordare anche Lorenzo Tarabella che oltre ad essere stato un forte cavatore, fu anche un sensibile poeta e scrittore.
Seravezza ha un futuro. Stretta fra i monti che ne hanno impedito l'espansione, danneggiata gravemente dagli eventi bellici del 1944/1945, anche se si è sempre ripresa dalle gravi avversità grazie soprattutto al lavoro della sua gente, ha perso molti dei suoi primati che aveva verso la fine del 1800 e nei primi decenni del 1900 quando contava innumerevoli laboratori ed industrie Parallelamente alla escavazione e lavorazione dei marmi che rimane un fattore trainante della sua economia, Seravezza che dalla fine dell'anno 1975 si fregia del titolo di città concesso con decreto dell'allora Presidente della Repubblica, per il fatto di essere sommersa da un mare di verde , davvero un oasi, e con un clima fresco e mite, ha tutte le caratteristiche per divenire un luogo di riposo e villeggiatura, particolarmente interessante in quanto a poca distanza dalla marina di Forte dei Marmi e sotto i monti più belli del mondo. Sarebbe auspicabile che fossero costruite alcune strutture alberghiere e due gallerie per impedire la circolazione dei mezzi pesanti dentro il centro abitato. Una dovrebbe essere costruita sotto il monte Costa e l'altra sotto il monte di Ripa. La cittadina si presta per le sue caratteristiche ad un mercato permanente dell'antiquariato e dei prodotti artigianali di tutta la Versilia del fiume.

martedì 26 ottobre 2010

Nucleare sicuro? Non esiste

Intendo parlare delle centrali nucleari, necessarie per sfruttare, in modo pacifico, la potenza dell’energia derivata dalla fissione dell’uranio, che per primo ottenne, nel 1935, il grande scienziato Enrico Fermi e altri suoi eminenti collaboratori, un gruppo di studiosi ricordati dalla storia come i ragazzi di via Panisperna. Per questa eccezionale scoperta nel 1938 fu assegnato il premio Nobel per la fisica a Fermi. Fu il primo passo per lo sfruttamento dell’atomo. Poi si arrivò con gli studi, in primis di Oppenheimer Robert Julius, alla costruzione della prima bomba atomica. Gli effetti devastanti di queste bombe lanciate dagli americani, nel corso della seconda guerra mondiale, su Hiroshima e Nagasaki, per indurre il Giappone ad arrendersi, sin da quand’ero ragazzo, oltre a farmi fremere dall'orrore, mi fecero pensare che tale energia, per il bene dell’Umanità, dovesse essere sfruttata soltanto per scopi pacifici.

Debbo dire che accolsi con piacere la notizia della costruzione all’estero delle prime centrali nucleari, per la produzione di energia elettrica di cui ogni nazione aveva e continua ad avere sempre più bisogno. Durante i miei saltuari viaggi in treno a Roma, effettuati in passato, vidi spesso nei pressi della stazione ferroviaria di Montalto di Castro, un grande cantiere, dove doveva sorgere una grande centrale nucleare. Nel 1986 purtroppo esplose a Chernobyl, in Ucraina, una centrale nucleare per la produzione di energia. Nell’atmosfera fu rilasciato pericoloso materiale radioattivo, con numerosi morti e gravissimi danni all'ambiente e alle persone. Nubi tossiche si sparsero nei cieli europei. Da tale disastro iniziò la campagna contro la costruzione in Italia di questo tipo di centrali nucleari.

Nel 1987 ci fu un referendum che confermò la volontà del popolo italiano a non costruire centrali delle specie. Da lì in avanti avremmo dovuto fare ricorso ad altri mezzi per produrre energia elettrica. Una cosa è certa, il carbone, il petrolio e il nucleare sono soluzioni rivelatisi inquinanti e pericolose, oltre a generare conflitti tra i paesi produttori e le nazioni che nel proprio sottosuolo non dispongono delle materie prime. D'altro canto il petrolio, arrivato ormai a prezzi altissimi, impone la soluzione del problema ricorrendo a vie energetiche alternative. Mi è molto piaciuto ciò che disse tempo fa il premio Nobel Carlo Rubbia in una intervista a Repubblica: “Non esiste un nucleare sicuro, il carbone è altamente inquinante e nocivo e soltanto l’energia solare e quella eolica sono in grado di dare risposte sostenibili al problema energetico mondiale”. Anni addietro lessi, su un altro quotidiano, le grandi difficoltà che vi sono per trovare siti idonei per lo smaltimento delle scorie derivate dalla produzione dell’energia nucleare. E i moltissimi anni che debbono trascorrere per arrivare a tale soluzione (22 mila anni secondo Rubbia).

Alla luce di quanto di questi elementi voglio sperare che in Italia non vengano mai costruite centrali nucleari.

domenica 24 ottobre 2010

Gita della maggiolata nelle terre di Siena

Il primo maggio 2008 partecipai alla gita organizzata dalla Milizia dell’Immacolata, formata da pie donne della chiesa di Casciavola (PI) della quale è parroco, dal 1992, don Nino Guidi, ch’é un grande sacerdote versiliese da sempre impegnato a fare del bene al prossimo, in special modo ai più poveri senza distinzione di etnia o del colore della pelle. Pensa ai più bisognosi che a se stesso. Con questo sacerdote, nato a Pruno di Stazzema, quando frequento la chiesa a me pare di respirare l’aria della terra dove sono nato. Meta della visita è stata la località di S. Angelo Cinigiano al confine delle provincie di Siena e Grosseto, dove esiste la grandiosa casa vitivinicola “Banfi” che produce il vino “Brunello”, famoso in tutto il mondo.
Fino alla stazione di Siena siamo arrivati a bordo di un pullman, poi abbiamo proseguito il viaggio con un treno a vapore, composto da più vetture, chiamato della Maggiolata che ha attraversato terreni ubertosi con tanti vigneti. Salire su una vecchia vettura di legno di terza classe ha fatto subito riaffiorare alla mia mente il mio primo viaggio in treno effettuato nel 1937 o nel 1938 da Querceta ad Avenza di Carrara, quando i miei genitori una domenica mattina decisero di andare a trovare a Miseglia la famiglia di una sorella della mia mamma che aveva sposato un uomo di quella località.

Mio padre era appena ritornato dall’Africa settentrionale dove era andato a lavorare con una squadra di cavatori di Seravezza, assunti per costruire le strade dell’impero, da poco conquistato da Mussolini. Mi pare ancora di vedere i pesciolini colorati che si muovevano in una vaschetta al centro della piazza di Carrara e la mulattiera che percorremmo in mezzo agli olivi per arrivare a casa di questa mia zia.
Per tanti anni, a partire dal 1949, ho sempre viaggiato su quel tipo di carrozze. Ricordo, in particolare le sbuffanti locomotive a vapore impiegate anche dalla Tranvia Alta Versilia per il trasporto sia dei viaggiatori che dei blocchi di marmo fino alla tragica dell’estate del 1944 quando i tedeschi imposero l'ordine di sfollamento alla popolazione versiliese che durò fino al mese di settembre sempre del 1944, data in cui sulla nostra terra inziarono aspre battaglie in particolare sui monti di Seravezza e nelle zone della marina del Cinquale e di Montignoso che durarono fino all'aprile del 1945. Nel salire sul treno della maggiolata, mi sono rivisto quando da piccolo mi soffermavo al Ponticello di Seravezza ad ammirare queste potenti macchine a vapore nel momento in cui si fermavano davanti al molino del Bonci per effettuare il rifornimento di acqua, guidate da due uomini che apparivano davanti ai miei occhi due autentici colossi.

Giunti a S.Angelo Cinigiano ci attendeva alla stazione una fanfara che ci ha accolto suonando canzoni briose. Sospinti dall’allegria di queste note siamo giunti alla famosa cantina “Banfi” dove un dirigente ci ha parlato del vino che produce da uve scelte e selezionate, prodotte dalla coltivazione di vigneti su un territorio di 850 ettari. Poi ci ha fatto visitare l’interno del grande stabilimento dove ho visto botti di rovere di 60 -70 hl e tante altre più piccole. Ci ha descritto le tecniche per la eliminazione, con speciali macchine, delle sostanze meno nobili del vino che appena messo nelle botti viene subito venduto ad acquirenti di tutto il mondo. In quel grande stabilimento fra infinite bottiglie di vino, botti speciali e tini di rovere e acciaio, c’era da smarrirsi.

Il pranzo, cucinato dalle donne della locale Pro Loco, per tutti i 500 partecipanti alla gita, molti provenienti anche da Terni e da altre località della Toscana, è stato consumato su grandi tavolate poste sotto un ampio tendone. Ottima sia la ribollita che le salsicce alla brace davvero molto saporite e gustose.ed ottimo anche il vino bevuto. Ringrazio ancora la presidentessa della regione Toscana della Milizia dell’Immacolata, signora Nara Tani, residente a Casciavola per avere organizzato questa bellissima gita nelle terre di Siena (sin da quand’ero piccino sentivo spesso dire dalla mia mamma che Siena era la madre lingua italiana) ed averci allietato il tempo trascorso a bordo del pullman recitando con molta bravura divertenti poesie di Trilussa, raccogliendo scroscianti applausi anche per la sua capacità scenica artistica di grande spessore...

martedì 19 ottobre 2010

A PROPOSITO... della caduta del regime fascista

Ricordo ancora una volta che la fine del regime fascista, avvenuta nel luglio 1943, troncò la mia “carriera” di ragazzo indrottinato, unitamente a tutti bimbi d’Italia, nati negli anni in cui il Duce era al potere, dalla sua politica volta alla formazione dell’Uomo nuovo, cioè completamente fascistizzato sin dalla nascita; infatti non arrivai ad indossare la divisa di avanguardista. All’inizio dell’anno scolastico 1943/1944 l’intera classe II B dell’Avviamento di Seravezza (Lucca) che chi scrive allora frequentava, si rifiutò di iscriversi al ricostituito partito fascista della Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Imperatore. Non avemmo bisogno di chiedere il parere dei nostri genitori per respingere gli inviti che ci furono rivolti da coloro che credevano ancora nel Duce; si capì da soli che il regime fascista aveva eliminato ogni forma legittima di opposizione al suo governo, togliendo al popolo la libertà, fino ad arrivare a trascinare la nostra nazione in una guerra sanguinosa a fianco della Germana nazista di Adolf Hitler che causò un numero infinito di morti, feriti e cumuli di rovine.
Questi ricordi non li ho mai dimenticati.

lunedì 18 ottobre 2010

Albé Benti, il mi' amico fin dagli anni dell'asilo

Sento forte ‘l bisognò di parlà del mi’ amico Alberto Benti, da me chiamato sempre Albé,scomparso verso la fine del 2006, di cui conservo ancora nel mi’ còre un ricordo vivissimo. Dal 1930 e fino all’istate del 1944 in cui fu ordinato dai tedeschi lo sfollamento degli abitanti di Seravezza e dintorni, abitò davanti a la mi case ubicata nell’antico rione del Ponticello, fatto saltare in aria dagli operai dela Todh, comandati da un sergente dei guastatori dela Wehrmacht. E’ stato ‘l mì compagno fin dall’asilo e degli anni dela scòla. Erimo molto uniti. Insieme a lu, ho vuto tanti amichi, tra i più cari ricordo: Lido Calistri, morto nel 1958 dopo un grave incidente sul lavoro, Matteo Bonci, Aldo Tessa, Andrea Bandelloni, Gianfranco Pea e Gianfranco Tommasi, anco se quest’ultimi quattro nun staceino di case al Ponticello. Per i ragà del mì rione i monti, erino i luoghi dube si andaa a giracchià. Il fiume fu na nossa pescina. Spesso andaimo su le rocce sotto la Mezzaluna dube costruivamo na trincea sula quale issavamo ‘l nosso vessillo tricolore. Il nosso campo di giòco al pallone fu la strada.

Ricordo che nela via piena di polverone, che passava accanto al molino del Bonci, giocaimo molte partite sovente con ‘na palla di carta e stracci, perché nun si avea na lira in tasca per compranne ‘na vera. Lido Calistri che facea ‘l terzino, con un fazzoletto che tenea sempre allacciato sula fronte venia chiamato Caligaris , nome di un famoso giocatore della Juventus e della nazionale. Quando piovea, spesso con Albè e altri compagni, ci incontravamo nela su piana dube accanto al pollaio c’era anco ‘na tettoia. Lì tenea ‘na piccola scultura di marmo raffigurante lo sfondo del Monte Procinto, scolpita da qualche su antenato. Albè era ‘l meglio di tutti no’, fu un trascinatore infaticabile. Un giorno, mentre staceimo a parlà nel salotto, dela su case, visibilmente felice e orgoglioso, tirò fora da un cassetto na foto del su babbo Donato, òmo mite, schivo e bravissimo, scattatagli quando era giòveno mentre stacéa per atterrà attaccato a un paracadute.

Negli anni dela guèra in cui ‘n Versilia si patì molto la fame, Albé, più d’una volta, abbrì la cassetta che su mà, la buona e cara Antonia, tenea in cucina, per donarmi alcuni grossi gràcioli di farina di castagne prodotta dal nò di Albé che duvea possedé sotto Giustagnana, oltre ad una vigna, anco ‘na piccola selvé. Mentre divorao quela farina mi sembraa d’avé in bocca dela cioccolata. In occasione dell’utima colonia estiva organizzata dale scuole nel campo sportivo, prima dela caduta del regime fascista, ci fé visita il federale dela provincia di Lucca. Questi fu accolto dai tutti noì che di corsa gli andammo incontro, gridando: “Viva il Duce… Duce! Duce! Duce!”. Fu in quel momento che sentii la voce di Albè mentre dicea:”Duce, Duce a la fame ci conduce”.

Durante i combattimenti che si svolsero tra il 1944/45, sui monti di Seravezza, la famiglia di Albè che scappò in un primo tempo nella zona di Camaiore, ritornò sòbbre Seravè, nela case del babbo di su’ mà che da lì un s’era mai mosso. In quela località la famiglia di Albè trascorse tutti i lunghi sette mesi in cui durò ‘l conflitto in Versilia. In occasione d’un nosso incontro che avvenne a Seravezza agli inizi degli anni ’90, Albè mi riccontò cosa faceino i ragà come
 lu e anco più grandi che vissero per diversi mesi,a ridosso del fronte. Costoro tutti ‘ giorni, anco col brutto tempo, trasportavino, caricate sule spalle, pesanti cassette di munizioni e anco del mangià in scatola a le più avanzate trincee dei soldati americani. Partivino, dai magazzini situati in Torcicoda, dube stazionava sempre ‘na fila di essi, in attesa di esse chiamati per fà qualche trasporto. Mi raccontò la triste storia del trasporto del corpo del soldato mericano ucciso in località Bovalica in seguito ad uno scontro coi soldati tedeschi. Quel giorno calzava un paio di scarpe di cencio con la suola di gomma, malridotte, tanto che pati un freddo forte ai piedi causato dal mevischio che calpestava, fatto questo che lo indusse a desiderare di poter usare gli stivaletti del cadavere del militare per non soffrire più. Violenta fu la reazione del capo della squadra dei militari alleati, al quale aveva molto timidamte manifestato questo suo desiderio. Forse questo è uno dei miei migliori racconti da me scritti su Versilia Oggi sulle vicende vissute dai versiliesi durante i sette mesi della guerra che fu combattuta in Versilia nel 1944/45. Fenita la guerra questi valorosi ragà vennero subbito dimenticati; nessun attestato di benemerenza, come ho già scritto in altre occasioni, fu loro concesso per l’attività umile ma molto importante, da essi svolta, grazie a la quale fu mantenuto sempre costante e regolare ‘l rifornimento dele munizioni e dei viveri ai soldati mericani. In cambio di quelle loro durissime prestazioni ebbero soltanto piccole scatolette di carne congelata e/o altri generi alimentari; ciò che ricevettero permise, comunque, a que’ giovinetti e ale proprie famiglie di sopravvive. Ricordo che anco io portai, da Valventosa a Giustagnana, sùbbito dòppo l’arivo a Giustagnana dei soldati di colore della divisione Buffalo, du cassette di munizioni. Sotto quel peso sentii un forte e continuo dolore. Albé fu il mì testimonio di nozze. Lu’ più che un amico, fu per me, un fratello, così come lo fu anco Lido Calistri.

Ora che un c’è più fra no’, mi pare belo pensà che, qualo grando sonatore di trombone ch’è stato durante la sua vita terrena, col su' strumento venghi ora impiegato lassù nel célo, per sonà, insieme agli Angeli, la musica che accompagna in Paradiso le anime degli òmeni pii e giusti.

sabato 16 ottobre 2010

Perché occorre riformare le Nazioni Unite. La sicurezza e la pace del mondo a rischio per i limiti strutturali dell’Onu

Quando nel lontano 1950 i caschi blu dell’Onu intervennero nella guerra scatenata dalla Corea del Nord contro quella del Sud, per ripristinare lo “status quo ante” in quella nazione, allora e ancora oggi divisa in due Stati, pensai che questa organizzazione soltanto con l’uso della forza militare potesse assicurare la pace a tutti i popoli della terra. Purtroppo, le tante guerre che ci sono state successivamente fino ad arrivare a quelle dei nostri giorni, mi hanno fatto capire di essermi sbagliato.
Le mie convinzioni crollarono definitivamente ai tempi della guerra nel Libano, nel momento in cui il contingente dell’ONU, costituito da centinaia di marines Usa, inviato in quella nazione con compiti di pace, appena sbarcò e prese alloggio in una caserma, fu vittima di un feroce atto di terrorismo; contro l’edificio fu lanciato un automezzo carico di alto esplosivo. Perirono dilaniati quei “soldati di pace”, com’è accaduto a Nassiriya l’11 novembre scorso ai militari dell’Arma dei Carabinieri e dell’Esercito inviati in Iraq per aiutare quella nazione a ritrovare la pace e la libertà.
Sono anni che mi domando a cosa serve l’Onu visto che non è mai riuscita ad impedire lo scoppio di sanguinosi conflitti nel mondo e di barbari atti di terrorismo che uccidono in continuazione tante creature innocenti L’Onu fu istituita il 25 giugno 1945 sia per salvaguardare la pace e la sicurezza mondiale, sia per favorire la cooperazione economica, sociale e culturale fra i vari Stati della terra, col fine ultimo di addivenire alla costruzione di un mondo migliore, una metà agognata dagli uomini di buon senso, raggiungibile soltanto col superamento degli egoismi nazionali e delle ideologie totalitarie di qualsiasi colorazione.
Questa organizzazione mondiale subentrò alla Società delle Nazioni con sede a Ginevra (costituita dopo la prima guerra mondiale su iniziativa del presidente americano Woodrow Wilson) che si estinse il 18 aprile 1946 quando già funzionava l’ONU, a causa della sua incapacità e impotenza, per limiti strutturali a impedire lo scoppio della seconda guerra mondiale. Segni di debolezza della Società delle Nazioni, si ebbero fin da quando avvenne la mancata adesione alla stessa degli Usa, il recesso del Giappone, della Germania ed anche dell’Italia che ne uscì l’11 dicembre 1937 dopo le “sanzioni” prese a suo carico da questo organismo in seguito alla conquista dell’Etiopia.
Quindi l’organizzazione si costituì per la volontà manifestata dalle grandi potenze alleate durante la seconda guerra mondiale. A Yalta (1945) fu deciso di convocare la conferenza dei paesi alleati che si svolse a a San Francisco dal 25-4 al 26-6-1945 e fu in quella sede che venne sottoscritta la carta delle N.U..
Dopo 58 anni trascorsi dalla sua fondazione, dobbiamo, purtroppo, riconoscere che anche l’Onu è priva di mezzi idonei ad imporre agli Stati membri le sue risoluzioni, che rappresentano i soli strumenti di cui dispone per la salvaguardia della pace e della sicurezza mondiale, in quanto non ha proprie forze armate di cui avrebbe bisogno per intervenire immediatamente laddove esplodono i conflitti e vengono calpestati, da dittatori spietati e sanguinari, i diritti sacri e inalienabili dell’uomo. Ricordo ancora quanto avvenne nei paesi della ex Jugoslavia. Nel decennio 1988-1998, il dittatore criminale serbo Milosevic, prima comunista e poi nazionalista, diede inizio, con una violenza efferata, alla pulizia etnica, da Vukovar, a Dubrovnik e nel Kosovo, dai campi di concentramento di Prjedor a Omarska, all’eccidio di Srebenica, seminando ovunque morte e distruzioni. L’Onu non riuscì ad opporsi a questo uomo sanguinario, come nulla può fare adesso per porre termine alle guerre che vengono combattute tra gli Israeliani e Palestinesi nella terra dove nacque Gesù, in Cecenia ed in tanti altri paesi africani, nonché alla guerriglia tuttora combattuta in Iraq.
Sono ancora sotto i nostri occhi le immagini, trasmesse dalla tv, delle alte Autorità, anche dell’Onu, che si mossero per impedire, senza riuscirci, lo scoppio della guerra in Iraq.
Due parole le devo dire sull’Onu che ha sede nel palazzo di vetro di New York. Il suo parlamento è costituito dall’Assemblea composta dai rappresentanti degli Stati aderenti; essa è governata dal Consiglio di Sicurezza. Oltre ai membri eletti dall’assemblea generale, il Consiglio di sicurezza si compone di cinque membri permanenti che sono gli Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina. Queste nazioni, potenze vincitrici dell’ultima guerra mondiale, si sono attribuite il diritto di veto con il quale bloccano qualsiasi deliberazione, quando, ognuna di loro, per propri interessi, non si trova d’accordo sulle decisioni da prendere in ordine alle controversie in discussione. L’ONU spesso non ha un effettivo potere decisionale nel merito delle controversie; le sue raccomandazioni o risoluzioni possono essere seguite o meno dai singoli Stati. Si avverte, quindi, la necessità di una riforma istituzionale per togliere immediatamente questo “diritto di veto”, al fine di porre sullo stesso piano decisionale tutti gli Stati membri dell’organizzazione, purché rispondano a requisiti di democrazia e rispetto delle libertà.
Ma non basta. Bisognerebbe che l’Onu disponesse di una propria Forza armata, costituita da un contingente speciale alla sua diretta dipendenza,formata da uomini di tutti i suoi Stati membri in grado di intervenire con immediatezza e riportare la pace laddove scoppiassero conflitti. In questa ottica ciascun Stato non avrebbe più bisogno di impiegare le proprie forze armate come avviene in atto in Afghanistan. L’Onu, nella sua Carta del 1948, sancisce i diritti fondamentali dell’uomo, a partire da quello della libertà.
Ė chiaramente ispirata a principi democratici, ma molti Stati che ne fanno parte li calpestano e, anche per questo, le guerre continuano ad insanguinare il mondo.

lunedì 11 ottobre 2010

Dolorosi ricordi di Monsignor Benvenuto Matteucci che fu arcivescovo di Pisa

Mi ha molto commosso la lettura delle pagine del saggio storico ed autobiografico intitolato la “Città senza mura”, scritto dallo scomparso e compianto monsignor Benvenuto Matteucci che fu arcivescovo di Pisa negli anni in cui il mio ultimo figlio faceva parte dei Piccoli Cantori di San Nicola, un gruppo di voci bianche, fondato e diretto dall'indimenticato Padre Renzo Spadoni; anche lui volato, già da diversi anni, nella casa del nostro Padre Celeste.
Sono pagine sconvolgenti che pongono in risalto gli anni della seconda guerra mondiale in cui tanti sacerdoti furono perseguitati ed uccisi dai nazisti. Anche durante il periodo successivo del dopoguerra, il prete Matteucci visse un sofferta solitudine perché fu abbandonato da tutti e, tra costoro, anche da chi, nella fase finale della guerra, aveva salvato la vita a rischio della propria. La paura fece allontanare tanti fedeli dalle chiese; come se i sacerdoti fossero “diventati dei lebbrosi che la società rinnega e degli appestati che il popolo rifugge.”
Bisogna leggerle queste pagine per comprendere in pieno le sofferenze patite dai ministri di Dio, mentre svolgevano il loro alto magistero sacerdotale durante gli anni più cruenti della nostra storia contemporanea.
Chi scrive fu testimone oculare di una violenta aggressione che nel 1945 subì il parroco dell'antica Pieve di San Martino alla Cappella, a guerra appena finita. Il fatto avvenne all'altezza del fabbricato, in anni più tardi occupato dalla stazione dei Carabinieri di Seravezza. Il prete che camminava a piedi lungo la strada, veniva inseguito da una donna con una borsa piena di “marmoline” raccolte nel fiume. Urlava parole irripetibili contro di lui che accusava di aver parlato coi tedeschi di suo marito partigiano, fatto che avrebbe causato,non compresi bene,la sua uccisione o la deportazione in Germania. L'anziano sacerdote barcollava, mentre tentava di evitare che le pietre lo colpissero. Nessuno della numerosa gente che circolava in quella via intervenne a sua difesa. Vidi questa aggressione mentre mi accingevo a ritornare a Pietrasanta, dove la mia famiglia si era sistemata alla meno peggio in un locale di proprietà del datore di lavoro di mio padre. Dopo la liberazione frequentavo la III classe, dell'Avviamento professionale al lavoro, di Seravezza che fu riaperto subito dopo lo sfondamento della linea Gotica., Raggiungevo Seravezza e ritornavo a Pietrasanta camminando a piedi. Anch'io, piccolo   ragazzo, assistetti a questa scena violenta, senza avere il coraggio di muovere un dito a favore del sacerdote. Non riuscii a comprendere come questo prete potesse aver fatto una cosa così grave, ancora oggi mi pongo questa domanda nonostante siano trascorsi ben 65 anni da quando avvenne questa aggressione. In quei giorni la mia famiglia, con la casa fatta saltare in aria dai tedeschi, per avere un tetto, si trasferì a Compignano di Massarosa, in una fattoria sopra il monte Quiesa, dove era sfollata la famiglia di Pietro, fratello di mio padre, motivo per cui non ho mai saputo come finì, questa sconvolgente e dolorosa vicenda.

Un altro giorno, vidi uomini afferrare una ex guardia giurata della ditta Henraux, costringendola ad entrare in un fabbricato vicino al Ponte Nuovo.Lungo le scale l'uomo fu fortemente picchiato.L'accusarono, mi pare di ricordare, di essere un fascista che non so cosa aveva fatto di male durante la guerra partigiana. L'uomo urlava disperatamente. Il rumore dei colpi infertigli, li udii nella via dove sostai brevemente, tanto da sembrare che provenissero da una grancassa in uso alle bande musicali colpita con forza da una mazza rivestita di cuoio. .
   

domenica 10 ottobre 2010

Una aggiunta da fare alla Carta Costituzionale dell'Ue

La politica italiana gradirei che fosse esercitata con molta sobrietà dagli eletti alla Camera ed al Senato. Indico che la vita da prendere ad esempio fu quella che condusse il grande italiano che fu l'indimenticato Alcide De Gasperi. Quando, nell’immediato dopoguerra si recò, se non ricordo male, a Parigi ed a New York, dove pronunciò forti discorsi a difesa della nostra nazione uscita distrutta dalla guerra,a fronte della quale ci furono richiesti forti danni da risarcire, indossò un cappotto rivoltato. Morì a Sella di Valsugana il 19.8.1954 in una casetta di proprietà della moglie. Durante la sua attività politica non accumulò ricchezze.
Alcide De Gasperi, fu uno dei padri fondatori dell'Ue, insieme a Konrad Adenaur, Robert Schuman, Alfredo Spinelli, Gaetano Martino ed a Jean Monnet.
Chi ha scritto la Carta Costituzionale dell'Ue, ritengo che abbia commesso una grave dimenticanza nel non avere evidenziato, in tale importante atto, la matrice cristiana del continente europeo. Questa carta non poteva non tenere conto delle lotte dei cristiani combattute contro gli arabi molti secoli fa che impedirono alle nazioni europee di essere dominate e governate, da califfi islamici.

martedì 5 ottobre 2010

I resti di aspre battaglie

Nella primavera del 1945, sulla Versilia storica ( Seravezza, Pietrasanta, Stazzema e Forte dei Marmi) ritornò a splendere il sole. Sfondata la linea Gotica i cui caposaldi li aveva sulle cime dei monti sopra Seravezza e Strettoia e nella zona intorno al Cinquale, le forze alleate non trovarono più ostacoli alla loro avanzata verso il nord Italia. La guerra volgeva al termine. La massa di profughi della Versilia e di Seravezza in particolare, ritornarono alle loro case allorquando cessò il servizio di vigilanza che i carabineri eseguirono per un breve tempo intorno alle vie che conducevano al capoluogo seravezzino, il cui territorio fu per sette mesi teatro di furiosi scontri, per impedire ai civili l'accesso in questi territori, non so per quali motivi, tanto da farmi pensare che questa misura di sorveglianza fosse stata attuata per impedire eventuali saccheggi. Purtroppo moltissime famiglie, compresa anche la mia, non vi poterono più ritornare, perchè le loro case erano state fatte saltare in aria da operai della Todt, sotto la direzione di sottufficiali della Wermacht o furono distrutte o molto danneggiate dalle cannonate. Molte persone che avevano perso tutto si misero quasi subito a scavare fra le macerie per recuperare qualcosa che potesse essere ancora utilizzato. Fra mille difficoltà iniziò l'opera di ricostruzione. Fu subito dopo lo sfondamento del fronte versiliese che la mia famiglia che si era rifugiata a Capezzano Pianore, si trasferì a Pietrasanta, in via dei Piastroni, dove occupò un fondo adibito a deposito, di propriteà dell'ing. Attilio Cerpelli che aveva riassunto mio padre al lavoro con il compito di recuperare materiali e macchinari rimasti sotto le macerie, quando la sua officina, situata alla Centrale, fu fatta saltare in aria sempre dagli uomini della Todt. A fianco dell'immobile di via dei Piastroni, l'ingegnere Cerpelli era proprietario di un piccolo capannone con il tetto quasi completamente distrutto dalle cannonate. E' lì che la mia povera mamma cuoceva il cibo su un fornello di fortuna, costituito da qualche mattone e alimentato dalla legna secca. Ricordo che quando pioveva doveva badare che il fuoco non si spegnesse, per questo teneva sempre aperto un ombrello. Intanto l'esplosione delle mine disseminate un pò ovunque causarono altri morti e feriti tra i giovani. Ricordo che nella Corvavia, rasa al suolo, vicino al laboratorio dei marmi della ditta Casini e Tessa due giovani di Seravezza, uno era il cugino del mio amico Gianfranco Pea mentre dell'altro non ricordo il suo nome, saltarono in aria nel vicino frutteto allora ivi esistente, che era stato minato dai tedeschi, rimanendo uccisi sul colpo. La paura delle mine non mi impedì di salire sui luoghi dove per sette mesi i tedeschi bloccarono l'avanzata delle truppe americane. Fu la curiosità e anche la speranza di riuscire a trovare qualche cimelio di guerra a farmi percorrere un giorno, insieme ad altri ragazzi di Seravezza e Corvaia, quest'ultimi sfollati a Pietrasanta, il crinale del Monte di Ripa, dalla Rocca, al Castellaccio e fin sulle rampe del Folgorito. Ci spingemmo anche sulla Mezzaluna e sopra il Pelliccino.Quel giorno che visitai i luoghi suddetti, marinai la scuola che in quel tempo frequentavo che era la terza classe dell'Avviamento al lavoro di Seravezza riaperto subito agli alunni dopo la lberazione. Quanto arrivai sul crinale del monte di Ripa, la prima cosa che mi colpì fu la constatazione dell'avvenuta distruzione di tutti gli alberi di pino che erano cresciuti fitti e alti su quel terreno prima che divenisse un teatro di guerra. La terra per effetto delle migliaia di cannonate esplose e dei colpi dei mortai era tutta smossa, non c'era più un filo d'erba, sembrava che fosse stata arata dai più trattori. In una trincea vicina alla mulattiera che toccava la cima del monte Canala vidi tra tanti fucili, cassette di bombe a mano e munizioni di ogni tipo anche un grosso bazooka. Dal giro che feci mi resi conto della guerra sanguinosa che fu combattuta sui nostri monti, subito l'arrivo in Versilia gli americani. Sul Pelliccino, proprio ai piedi di un olivo vidi i resti di un soldato americano che successivamente, segnalai ai soldati americani impegnati a staccare dai corpi dei loro colleghi uccisi la piastrina di riconoscimento. Sempre sopra il Pelliccino, poco sotto il Castellaccio tra i pini bruciati, vidi ossa umane, un mortaio, cassette di bombe a mano, alcuni fucili e elmetti americani. Diverse furono le tombe che contai sulle piane della Mezzaluna e da altre parti. Ricordo di essermi velocemente allontanato dal crinale del monte di Ripa, a causa del nausante odore della carne umana ancora in putrefazione, che proveniva da un cumulo di terra sotto il quale era stato sepolto un soldato americano, come immaginai visto che la fossa era stata scavata tra le loro trincee. Vidi sempre in qua e là ossa umane di militari americani, e alcuni corpi di soldati statunitensi uccisi ancora avvolti nelle divise logorate e ridotte a brandelli per la lunga esposizione alle intemperie. Nessuno dei resti dei soldati sia americani che tedeschi avevano ai piedi gli scarponcini o stivaletti perchè secondo quanto seppi, gli erano stati tolti da chi era salito sin lassù prima di noi per portarseli via per poi calzarli. Intorno alle postazioni che avevano occupato gli americni, c'erano mucchi di bossoli di mitragliatrice e dei fucili e cumuli di scatolette di latta arrugginite che all'origine contenevano i cibi conservati con il quali venivano alimentati i soldati americani. Numerosi fili elettrici di vari colori che servìrono ai collegamenti tra i vari reparti, erano ancora distesi su tutto l'ampio crinale. Sullo spiazzo del Castellaccio che fu un formidabile caposaldo della linea difensiva tedesca, dove s'infransero i ripetuti assalti delle truppe americane, giacevano i cadaveri di due soldati tedeschi sicuramente uccisi durante l'attacco finale portato dai soldati americani che sfondarono il fronte. Avevano i capelli biondi e lunghissimi, come lunghe mi sembrarono le dita delle loro mani. Ricordo che un mio amico di Corvaia, la cui famiglia aveva trovato rifugio a Pietrasanta, tolse le cinture ancora allacciate ai pantaloni dei due tedeschi uccisi. Soltanto una parte di quella fortificazione fu messa fuori uso, probabilmente dal lancio di bombe a mano, effettuato durante l'assalto finale. Infatti i deposito delle munizioni era ancora intatto, pallottole per i fucili, nastri per le mitragliatrici e bombe a mano erano sistemate ordinatamente.
Attraverso il varco già aperto tra i tronchi degli alberi utilizzati per la costruzione dell'opera difensiva, mi calai nella buca profonda scavata nella roccia. Non era grande, al massimo vi potevano stare riparati cinque o sei soldati. Proprio dalla cima del Castellacio dove trovammo altri ragazzi più grandi che avevano dimestichezza con le armi, ci fu qualcuno che sparò ripetutamente raffiche di mitraglia. Il loro gesto. che mi parve sconsiderato. comunque non fece danni di sorta. Il terreno, attraversato dal sentiero che dalla cima del Monte Canala conduce a Cerreta San Nicola, poco sotto il Castellaccio, era pieno di mine antiuomo tedesche, molte della quali già disinnescate dagli americani. L'esplosivo e tutti meccasismi contenuti in queste minuscole scatole era stato tirato all'aria e abbandonato sul posto. A fianco del muro perimetrale della Casaccia Nera, un diroccato piccolo edificio così chiamato,c'erano i resti di un ufficiale americano, come rilevai dal distintivo del grado visibile sul suo elmetto. Sotto la divisa consunta notai, con orrore, che il suo scheletro, all'altezza della cassa toracica, era pieno di escrementi di topo. Fra le rocce del Folgorito, vidi un paio di zoccoli, sul quale avevano attaccato le tomaie di uno stivaletto di cuoio, che permise a chi li calzò nell'inverno 1944/45 di avere i piedi caldi. Quando si sparse la voce che c'era chi acquistava i bossoli,materiale ferroso e quant'altro, tutto il Crinale del Monte di Ripa fu ripulito in pochissimi giorni, nonostante il sussistere del pericolo delle mine. Sul monte rimasero soltanto mucchi di scatole di latta arrugginite e i colpi di cannoni inesplosi conficcatisi sul terreno.
Purtroppo non riuscii a trovare alcun cimelio di guerra. Lassù, come ho già detto in precedenza,vidi soltanto moltissime armi e munizioni e resti di soldati americani e tedeschi uccisi durante le sanguinose battaglia.

mercoledì 29 settembre 2010

Mio padre in Africa orientale italiana, dopo la conquista dell'impero..

Mio padre subito dopo la guerra d'Africa (1935-36) voluta da Benito Mussolini e conclusasi con la conquista dell'Impero, fece parte della squadra dei dieci cavatori di Seravezza che andarono Etiopia per costruire le nuove vie del territorio appena conquistato. Fu per lavorare che i cavatori presero questa decisione, e anche per guadagnare qualcosa in più. La loro paga, in Africa, era di quaranta lire al giorno, gli trattenevano tre lire e ottanta centesimi per il vitto giornaliero: comprate le sigarette e speso qualche spicciolo per bere un bicchiere di vino o un boccale di birra, gli rimanevano in tasca trentacinque lire. Non era poco, ma non ce la faceva più mio padre a stare in Africa dove, oltre a soffrire un caldo soffocante, sentiva forte la mancanza della moglie e dei suoi due bambini. Quando mi raccontò del vino che beveva, gli chiesi, convinto che non fosse tanto buono in quanto non conservato in cantine fresche, ecco cosa mi rispose: "La ditta che aveva avuto l'appalto per la costruzione delle nuove strade dell'Etiopia, faceva venire dall'Italia il vino a damigiane prodotto dalla famosa casa vinicola Riccadonna. Questo vino lo tenevamo dentro i fiaschi, ricoperti da pezzi di stoffa, sui quali versavamo spesso acqua fresca. Era molto buono e con la gola riarsa che tutti noi lavoratori avevamo sembrava di rinascere quando si beveva".
"Gli operai del cantiere - proseguiva nel racconto - occupavano delle baracche e dormivano su lettini costituiti da paletti piantati per terra sui quali venivano stesi i sacchetti vuoti contenenti, all'origine, il cemento. Tutti correvamo il rischio di essere morsi dagli scorpioni e anche di essere attaccati dalle bande dei ribelli africani, accecati dall'odio verso gli italiani".

Prima di morire mi rivelò un fatto che gli fu raccontato da un operaio che aveva lavorato in precedenza in un altro cantiere. A me, devo dirlo, parse un racconto poco credibile. Ecco cosa mi disse: "Una notte i ribelli africani irruppero nelle baracche di un cantiere assalendo gli operai mentre dormivano. A quei poveretti che uccisero furono amputati i genitali. Ma la tragedia non finì così. La mattina dopo un gruppo di operai fecero dei controlli stradali durante i quali sorpresero alcuni africani che portavano dei fagottini, contenenti quanto avevano amputato agli italiani. Gli autori della violenza compiuta ai nostri connazionali, furono puniti in modo altrettanto crudele e barbaro: ad ognuno di loro fecero esplodere un candelotto di dinamite introdotto negli intestini per via rettale".
Dopo questo racconto dissi a mio padre: "Babbo, una cosa così non l'ho mai sentita dire. E' orribile. I giornali non ne hanno mai parlato. Ti è stata raccontata una "fola" (bugia, ndr). "Non mi raccontò una fola", mi rispose. "Perché mi avrebbe dovuto raccontare cose non vere? Sicuramente sarà intervenuta la censura".

Ritornò a casa durante la festa a Seravezza di San Lorenzo. Quel pomeriggio il pallone gonfiato del Battelli, subito dopo essersi alzato precipitò in fiamme sullle case delle Pile. Il mio babbo indossava una bella divisa sahariana. In testa portava un vero casco coloniale. Era bello, alto e robusto, coi capelli riccioli e con la pelle molta abbronzata. Aveva una forza incredibile. Rassomigliava a un bronzo di Riace.