sabato 24 dicembre 2016

Auguri a tutti e viva il Presepio!

Da bambino vedere il Presepio nelle chiese della mia terra, la Versilia, ed anche in qualche abitazione privata, mi ha sempre fatto provare delle bellissime sensazioni. Ricordo quando, insieme alla mamma e a mio fratello Sergio, visitai per la prima volta quello allestito nella chiesa di Vallecchia, l'antica Pieve di Santo Stefano. Era stato preparato utilizzando statuine vecchie di secoli e, proprio per questo motivo, di grande valore. La nascita di Gesù bambino deve aver commosso molto il cuore di San Francesco d'Assisi, che fu il primo uomo al mondo a pensare di dare vita, nel 1223, ad una rappresentazione iconografica della Natività.

 Ai tempi in cui frequentavo l'asilo infantile Delatre di Seravezza, in una fredda serata invernale, vicina alle feste natalizie, dopo cena mia mamma, appena sparecchiata la tavola, nella cucina annerita dal fumo del camino e scarsamente illuminata da una lampada a petrolio, pose una scatola sulla tavola. La aprì e vidi che al suo interno erano state avvolte con minuziosa cura, nella carta di giornale, diverse statuine di gesso che sarebbero servite per allestire il Presepio. Le aveva acquistate in un negozio seravezzino. Rivedo i volti gioiosi del babbo e della mamma e i bagliori sprizzanti dai loro occhi felici quando notarono che quel dono aveva riempito di gioia il cuore dei loro due bambini (gli altri due miei fratelli ancora dovevano nascere). In quel periodo mio padre lavorava su una cava del Trambiserra. Quando a causa del brutto tempo, specie d'inverno, non poteva raggiungere il posto di lavoro, la mamma soffriva perché sapeva che senza i soldi guadagnati da mio padre lei non avrebbe potuto pagare la spesa che faceva ogni giorno per darci da mangiare, non essendovi, purtroppo, altre entrate nella nostra famiglia.

Fortunatamente i titolari delle botteghe segnavano su un apposito registro gli importi della spesa fatta, annotando ovviamente anche la data. E appena i cavatori ricevevano la “quindicina” (si riceveva il salario ogni due settimane) andavano a saldare il conto. Si deve al credito fatto da queste botteghe se negli anni della mia fanciullezza, ed anche in quelli delle precedenti e successive generazioni, molte famiglie sono riuscite a sopravvivere dignitosamente. Mia madre per molti anni si servì della bottega di generi alimentari situata a Riomagno, gestita dalla signora Onorina e da suo marito, un invalido, non ricordo se del lavoro o di guerra. Il bellissimo Presepio ricevuto in dono dai miei genitori mi ha sempre fatto pensare ai sacrifici che devono aver fatto per comprarlo, viste le loro ristrettezze economiche. Quando i tedeschi, nella tragica estate del 1944, fecero saltare in aria molte case di Seravezza, da Riomagno alla Fucina, sotto il Monte Canala e lungo la criniera del Monte di Ripa, tra le quali, al Ponticello,  vi era anche la nostra casa, radendo al suolo anche Corvaia e Ripa, anche il mio Presepio finì sotto un cumulo di macerie.

Ho sempre pensato alla sacralità delle feste natalizie, per questo resto di stucco ogni volta che leggo le polemiche sui Presepi “negati” nelle scuole o in altri edifici pubblici. Trovai incredibile, qualche anno fa, la notizia che un grande magazzino italiano avesse deciso di cessare la vendita delle statuine, quasi che quell'articolo, “passato di moda”, non fosse più desiderabile dai clienti. E rimasi addirittura allibito quando appresi che in una località vicina a Pordenone mani ignote avevano sottratto da un Presepio la statuina di Gesù bambino, che fu ritrovata impiccata all'interno di un cimitero. Sono stato battezzato e credo nel Signore, anche se ho profondo rispetto nei confronti di chi professa religioni diverse da quella cristiana, o non crede affatto. Non mi piace però che in nome del principio sacrosanto della laicità si impediscano, come purtroppo è avvenuto, le benedizioni degli studenti (nei periodi di Pasqua o di Natale) all'interno di alcune scuole pubbliche.

Credo sia una triste quanto inutile sopraffazione. Chi professa la propria fede va rispettato. A maggior ragione tenuto conto che la fede, nel caso specifico, fa parte anche della nostra cultura (“non possiamo non dirci cristiani”, diceva Benedetto Croce). Auspico l'approvazione di una legge che tuteli chi, nel proprio Paese, intende continuare a festeggiare le antiche tradizioni popolari della nostra fede, che dovrebbero essere viste con piacere e rispetto anche dagli stranieri non cristiani che, per vari motivi, si trasferiscono da noi. L'integrazione parte anche dal rispetto. Che deve essere reciproco, ma senza che ognuno sia costretto, stupidamente, a negare la propria identità.

Renato Sacchelli  

giovedì 22 dicembre 2016

Il Feroce Saladino e il sogno di un bambino

Verso la fine degli anni 30 insieme al mio amico Gianfranco Pea (purtroppo scomparso qualche anno fa), con cui frequentai l’asilo e successivamente la scuola elementare, ci demmo molto da fare per trovare una rara figurina chiamata "il Feroce Saladino".

Noi ragazzi del Ponticello non avevamo nemmeno pochi spiccioli per comprare un pallone, tant’è che giocavamo con un involucro rotondo fatto con la carta avvolta con gli stracci. Poter avere le bellissime figurine prodotte dalle ditte più importanti dell'epoca (Perugina, Barilla, Liebig e molti altri famosi marchi) per noi ragazzi era un vero e proprio sogno.

Una mattina, mentre passavo davanti alla casa dove abitava la famiglia Speroni, mi sentii chiamare dal loro giovane figlio, William, che aveva qualche anno più di me. Insieme al suo babbo era nel fondo che avevano al piano terra della loro casa: si accingevano a fare il trasloco per trasferirsi nella nuova abitazione, fatta costruire vicino alla sala cinematografica, in cima alla strada che conduce al Palazzo Mediceo, allora sede del Comune di Seravezza.

Appena entrai William mi disse subito che voleva regalarmi delle figurine che aveva raccolto e conservato negli anni. Mi parve di cogliere un leggero sorriso sul volto di suo padre, quando ascoltò la generosa offerta che mi aveva fatto suo figlio. Un dono che mi rese felice come non mai.

Purtroppo quando gli operai della Todt fecero saltare in aria le case di una parte di Seravezza, tra le quali la mia, tutte quelle figurine finirono sotto le macerie, insieme ad altri bei ricordi dell'infanzia.

E ora che William e i suoi genitori sono nella casa del nostro Padre Celeste, amo ricordarli tutti come persone buone e giuste. Ciao William!
Renato Sacchelli


lunedì 23 maggio 2016

Grazie professor Costantino Paolicchi

Mi fa piacere parlare del professor Costantino Paolicchi, il "versiliese doc" di cui sono sempre stato ammiratore. 
Qualche anno fa lessi con gioia, su Versilia Oggi, il suo articolo intitolato il ”Paese dell’anima”. Con questo suo scritto riuscì a farmi rivedere  la mia Seravezza degli anni 30 e dell’immediato dopoguerra, con tutti i ponti fatti saltare in aria dai tedeschi e molte abitazioni rase al suolo (tra le quali anche quella dove io nacqui)  al di là del fiume, a ridosso del Monte Canala, da Riomagno  fino alla Fucina. La totale distruzione delle case continuò in Corvaia, alla Centrale ed anche a Ripa.
Seravezza fino a quando non fu insanguinata dalla guerra con l’arrivo degli alleati, che avvenne dopo la metà di settembre del 1944, era popolata da uomini impegnati nei lavori sulle cave, lungo le vie a lizza, nelle segherie, fonderie, officine, falegnamerie e in numerosi laboratori del marmo, nei quali lavoravano scultori molto bravi.

Personalmente ricordo di avere visto scolpire una copia della Pietà di Michelangelo nel laboratorio sopra  i telai della segheria del Salvatori, nel periodo dopo la caduta del fascismo, vicino al molino del Bonci. Ho rivisto la fantastica uccelliera che era davanti al bar di Angelo Battelli, ubicato nella centrale piazza Carducci dietro il monumento ai Caduti, dedicato all’uomo nudo di Seravezza che tiene alzato sopra la testa una grossa pietra. Ho rivisto anche innalzarsi nel cielo il pallone aerostatico fatto costruire da già citato  Angelo Battelli, che sempre animava le feste seravezzine. 
Ho rivisto anche  la  criniera del monte di Ripa, senza più neppure una pianta di pino né un arbusto: la cima crivellata dalle cannonate e dai colpi di  mortaio sparati su quel terreno, pieno di trincee dei soldati americani della divisione Buffalo, pareva fosse stata arata: non c’era rimasto un solo filo di erba in quel punto a  ridosso del formidabile caposaldo difensivo creato dai tedeschi sulla cima del monte chiamata il “Castellaccio”. 
Il giorno che percorsi  quel terreno respirai l’aria maleodorante dei resti dei soldati americani sepolti vicini alle trincee in buche poco profonde e ricoperte con poche palate di terra. 

Era il lavoro che si svolgeva  nella nostra terra che dava la vita alla gente, anche se era davvero molto faticoso non solo per gli operai, ma anche  per  i buoi  che tiravano i carri carichi di grossi blocchi di marmo dai poggi di caricamento della Desiata, fino alle  segherie spronati anche dalle urla e dalle imprecazioni dei cavatori che frustavano gli animali.
Quando ero bambino le vie centrali di Seravezza venivano cosparse di ghiaia, motivo per cui a causa  del passaggio di carri e degli autocarri  si alzava molta polvere:  per ridurre questo fastidioso fenomeno con una autocisterna (mi pare che fosse del Comune) condotta dal figlio più grande del barbiere del paese,  di nome Scali, sulle strade veniva spruzzata molta acqua con gli annaffiatoi applicati sulla parte anteriore dell’autocisterna.
Insieme al parroco di Seravezza, monsignor Angelo Riccomini, partecipai, come chierichetto, alla benedizione della casa  abitata dalla signora Teresa Pilli, mamma del professore Dino Bigongiari, che dal 1904 al 1950 fu docente  presso la Columbia Università di New York. La mamma di Dino ai primi tempi del 1940 era la donna più  anziana di Seravezza. In quel tempo era costretta a letto e veniva  continuamente assistita, notte e giorno, dalla mamma di Elena Tabarrani  sorella di  Vincenzo, calciatore del Seravezza (veniva indicato come Tabarrani II).
Voglio anche accennare al famoso scrittore e poeta Enrico Pea, che nacque a Seravezza nel 1881 e morì Forte dei Marmi nel 1958. La prima volta che lo  vidi fu nel 1950: lo incontrai vicino al ponte della Passerella. Aveva un passo svelto e una barba ben curata. Nei tempi in cui andavo a scuola seppi dal mio coetaneo ed amico fraterno Gianfranco Pea che Enrico Pea era suo cugino. 

Il professor Paolicchi nei suoi scritti ha ben evidenziato il pensiero di Pietro Pancrazi, che collocando Enrico Pea fra gli scrittori d’eccezione, sottolineò che costoro  “scrivono come detta dentro e basta”. Poi, chiedendosi come il Pea avesse imparato l'arte, osservò che se fosse stata rivolta a lui questa domanda “si sarebbero visti gli occhi commossi del Pea rivolti al cielo per farci capire il suo riferimento alla Provvidenza”.
Quando frequentavo le scuola elementare venni a  sapere che un seravezzino insegnava ai giovani americani in una famosa  università: non riuscivo a comprendere come fosse potuto accadere un fatto del genere. Mi sembrava, all'epoca, una cosa davvero incredibile.

Renato Sacchelli

mercoledì 18 maggio 2016

ENZO TORTORA, PER NON DIMENTICARE


Desidero ricordare l'anniversario della morte di Enzo Tortora, avvenuta il 18 maggio 1988, pubblicando sul mio blog la cronistoria della sua odissea nella giustizia. Bersagliato da accuse infamanti, dopo un lungo calvario riuscì a veder riconosciuta la propria innocenza, ottenendo l'assoluzione con formula piena. Le tappe di questa triste vicenda sono state sintetizzate da sua figlia Silvia in un articolo che fu ripubblicato da un gruppo di fantastici studenti universitari della facoltà di Scienze Politiche di Pisa, nel loro foglio che si chiamava "IL" (Informazione Liberale).

- 17 giugno 1983 - Alle quattro e un quarto del mattino, Enzo Tortora viene arrestato all’Hotel Plaza di Roma dove alloggia temporaneamente per le registrazione del programma di Retequattro Italia Parla, condotto con Pippo Baudo. Portato alla questura Centrale , Tortora attende ( nonostante che sia stato colpito da un collasso cardiaco) fino alle ore 11 di essere trasferito al carcere di Regina Coeli. L’accusa non la conoscono nemmeno in Questura. Hanno eseguito un ordine d’arresto, spiccato dalla Procura di Napoli, per associazione a delinquere di stampo camorristico, finalizzata al traffico di armi e stupefacenti. Appena lascia la Questura in manette Tortora si trova davanti a centinaia di giornalisti, teleoperatori e fotografi. La sua foto, con i ferri ai polsi, fa il giro del mondo.

- 27 giugno 1983 – I giudici napoletani Lucio Di Pietro e Felice Di Persia arrivano a Roma per il primo interrogatorio. Sono passati 10 giorni dall’arresto e la notizia di Tortora in carcere mantiene le prime pagine sui giornali. Si parla di affiliazione alla Nuova Camorra Organizzata. Il nome di Tortora sarebbe stato fatto da due camorristi pentiti: Pasquale Barra e Giovanni Pandico.

- 15 agosto 1983 - Enzo Tortora viene trasferito dal carcere di Regina Coeli a quello di Bergamo, più attrezzato clinicamente: le sue condizioni di salute, infatti, stanno peggiorando.

 - 29 settembre 1983 - A Bergamo si svolge il secondo interrogatorio di Tortora dopo tre mesi e mezzo di detenzione. Lo conduce il Giudice istruttore Giorgio Fontana. A Barra e Pandico si è aggiunto un certo Margutti; sedicente pittore che avrebbe visto coi suoi occhi Tortora spacciare droga negli studi di una emittente privata. Inoltre il numero telefonico del presentatore sarebbe stato rinvenuto nell’agendina di un malavitoso di nome Giuseppe Puca, rinchiuso in un carcere di Lecce. Tortora nega ogni addebito.

- 1 ottobre 1983 - Il Corriere della Sera pubblica un articolo, a firma di Adriano Baglivo, nel quale si accusa Tortora, tra l'altro, di essere proprietario di yacht e di avere rubato i fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, raccolti attraverso alcune trasmissioni televisive. In seguito il giornalista viene condannato per diffamazione.

- 17 gennaio 1984 - Enzo Tortora lascia il carcere di Bergamo per tornare a casa sua a Milano. Gli vengono concessi gli arresti domiciliari. Dopo poco viene ricoverato per accertamenti in una clinica.

- 4 febbraio 1984 - Ha inizio a Napoli il processo di primo grado. Durerà 7 mesi, 67 udienze e una settimana di sedute in camera di consiglio. Nel frattempo Tortora che si è visto revocare gli arresti domiciliari, frequenta regolarmente il Parlamento europeo.

- 9 marzo 1984 - Tortora viene trasportato in ambulanza da Milano a Napoli. Nel frattempo le sue condizioni di salute sono peggiorate e nonostante che i medici gli sconsiglino il viaggio , accetta di sottoporsi, nella caserma Pastrengo di Napoli ad un confronto con due nuovi pentiti Gianni Melluso e un certo Andrea Villa che viene presentato a Tortora , con un cappuccio nero in testa. Alla presenza dei giudici Tortora nega qualunque circostanza o conoscenza con i due pregiudicati. Dopo venti ore di viaggio in ambulanza Tortora torna alla clinica città di Milano.

- 5 maggio 1984 -Tortora annuncia la sua intenzione di candidarsi nelle liste del Partito Radicale alle elezioni per il Parlamento Europeo. La proposta è partita da un vecchio amico Marco Pannella . il mondo politico accoglie la notizia con atteggiamenti differenti. Viene evocato il caso di Toni Negri che una volta eletto nelle liste radicali preferì fuggire in Francia.

- 17 giugno 1984 - Dopo sette mesi di carcere, quattro di arresti domiciliari in casa e un mese agli arresti in ospedale, Enzo Tortora viene eletto eurodeputato al Parlamento europeo con oltre 500 mila preferenze , battendo perfino Marco Pannella,. Prima delle elezioni indirizza una lettera al Manifesto, nella quale annuncia: “Mi dimetterò da parlamentare e mi farò processare da privato cittadino . Pronto anche a rientrare in carcere se necessario”.

- 17 luglio 1984 - Il Tribunale di Napoli emette l’ordinanza di rinvio a giudizio per 640 imputati (87 nel frattempo hanno ottenuto la libertà perché il provvedimento era frutto di errori). La sentenza di rinvio è di 1426 pagine, 66 delle quali dedicate a Enzo Tortora.

- 17 settembre 1985 - Tortora viene condannato a dieci anni e sei mesi di reclusione.

-  17 novembre 1985 - Cade Il governo Craxi. Dopo tre giorni il “camorrista” Tortora va al Quirinale in qualità di Presidente del Partito Radicale per le consultazioni di rito con il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga

- 10 dicembre 1985 - Tortora pronuncia in francese il discorso di addio al Parlamento europeo.

- 29 dicembre 1985 – Il presentatore si consegna alle forze dell’ordine in piazza Duomo a Milano. Viene accompagnato senza manette stavolta a, casa sua, ancora una volta agli arresti domiciliari.

- 14 gennaio 1986 – Viene depositata la sentenza di condanna. Sei volumi, 267 pagine su Tortora definito “socialmente pericoloso”, nonché cinico mercante di morte”. Il pm Diego Marmo sostiene che la sua nomina al Parlamento europeo sarebbe frutto di voti della camorra.

- 20 maggio 1986 – Comincia il processo d’appello a Napoli, alla quinta Sezione del Tribunale.

- 1 Settembre 1986 - L’avvocato Della Valle pronuncia l’arringa di difesa della durata di sette ore. Radio Radicale manda in onda tutto il processo di secondo grado così- com'era avvenuto per il primo. Tortora parlerà l’11 settembre, concludendo rivolto ai giudici: “ Io sono innocente. Spero lo siate anche voi”.

- 15 settembre 1986 - La corte pronuncia il verdetto alle undici di mattina. Enzo Tortora è ASSOLTO CON FORMULA PIENA. Dopo 1185 giorni di odissea nell’ingiustizia.

- 20 febbraio 1987 – Dopo una serie di serrate trattative con la Rai e con la Fininvest. Tortora torna in Tv. Sceglie la Rai perché dispone della diretta. Su Raidue Tortora riappare con Portobello, il mercatino del venerdì che dal 1977 al 1983 registrò il record d’ascolto della televisione italiana (28 milioni nell’ultima edizione del 1983). La prima frase pronunciata da Tortora, dopo un lunghissimo applauso iniziale, fu questa: “Dove eravamo rimasti?”.

- 17 giugno 1987 - La prima Sezione della Corte di cassazione conferma la Sentenza di assoluzione piena formulata nel processo di appello.

- 18 maggio 1988 – Nella sua casa di Milano, Enzo Tortora muore stroncato da un tumore, a 59 anni. Ai suoi funerali celebrati a Sant’Ambrogio, partecipano migliaia di cittadini. Poco prima di morire Tortora aveva presentato una citazione per danni contro i magistrati napoletani, in base alla nuova legge sulla responsabilità dei giudici. La cifra richiesta fu di cento miliardi. Non gli è mai stato riconosciuto il diritto al risarcimento. Il Csm archivia il caso Tortora non ritenendo responsabili i magistrati che lo hanno trasformato da cittadino per bene a mostro ”socialmente pericoloso”.
  Silvia Tortora

lunedì 25 aprile 2016

Basta disgrazie sulle cave

L'ultima disgrazia sulla cava di Colonnata (Carrara) mi ha fatto tornare alla mente l'angoscia che provavo quando andavo a scuola, più di ottant’anni fa, mentre udivo i forti boati causati dalle mine che i cavatori facevano esplodere sui monti intorno a Seravezza. Chi gestiva le cave non informava la popolazione sulle esplosioni. Così, ad ogni schianto, la paura era forte. In particolare udivamo i boati provenienti dalle cave del Monte Costa, che si trovavano proprio davanti ai due plessi scolastici che in quegli anni della mia fanciullezza frequentai.

Mio padre, quando ero bambino, lavorava su una cava del Trambiserra. Chissà se si trattava della stessa cava dalla quale furono estratte le colonne di marmo da applicare sulla facciata della chiesa di San Lorenzo di Firenze, che fu disegnata da Michelangelo ma mai realizzata.

Sì, tremavo quando udivo quei boati, perché pensavo ai gravi rischi che correvano i cavatori, sapendo che molti uomini avevano perso la vita rimanendo schiacciati sotto i blocchi di marmo estratti dalle montagne.

Se ben ricordo, verso la fine del 1939 (o all’inizio del 1940) tre uomini morirono sul monte Costa, schiacciati sotto un blocco di marmo appena staccato dopo la varata. Fra i cavatori morti c’era anche il babbo di un mio compagno d’asilo e dopo di scuola, di cui ricordo soltanto il cognome, si chiamava Donati. Avevo conosciuto tutto il suo nucleo familiare, quando la titolare del telefono pubblico di Seravezza mi chiese, un tardo pomeriggio, di portare al signor Donati, abitante al Loghetto, il testo di una chiamata telefonica a lui indirizzata. 

Era l’ora di cena. Entrato in casa vidi la tavola con al centro, su una tovaglia bianca, una polenta ancora fumante da tagliare, proprio mentre questa famiglia stava per iniziare a mangiare. Negli anni 90 del secolo scorso, il grande invalido del lavoro Marino Lorenzoni, abitante vicino al Borgo dei terrinchesi accanto all’abitazione del mio babbo, mi fece leggere un libretto che anni prima aveva fatto stampare il parroco di Arni, dove il Lorenzoni era nato. Rimasi impressionato nel leggere i tanti nomi degli arnini e delle località vicine, morti in seguito alla disgrazie accadute mentre espletavano il loro duro lavoro sulle cave dell’alta Versilia.

Il lavoro è vita e credo che chi dirige qualsiasi attività lavorativa dovrebbe fare il possibile per evitare che non avvenissero più disgrazie mortali causate da disattenzioni, che fanno sprofondare nel dolore i familiari delle vittime e feriscono l’intera umanità.

giovedì 7 aprile 2016

Riflessioni sull'amore

Si parla tanto di questo sentimento che dovrebbe unire ed affratellare tutti i popoli della terra, senza più divisioni ideologiche, steccati, muri, frontiere e lotte di classe.
Ciò che invece sta accadendo a Beirut, in Iraq, in Iran  ed in altre nazioni  di questo piccolo mondo, ci farebbe dubitare della sua esistenza, almeno a quei livelli, se non fossimo, nel contempo, testimoni di esempi luminosi di amore che ogni giorno delicate creature, come suor Teresa di Calcutta , tanto per citarne una, manifestano nei confronti di masse di persone ammalate o afflitte dalla fame
Altri esempi della specie ci vengono forniti da coloro che lottano a difesa dei diritti dell’uomo, primo fra i tanti, quello relativo alla libertà, senza la quale non ci può essere nemmeno l’amore.
Quindi l’amore esiste sin dal giorno in cui l’uomo è stato creato.
E’ realtà di sempre e  non un sogno irreale.
L’uomo, generato da un atto di amore, è il simbolo e l’emblema di questo sentimento, comune peraltro a  tutti gli altri essere viventi.
Cristo, morto inchiodato sulla croce, rappresenta per coloro che credono nei valori genuini e  più autentici, che la vita non è solo terrena ma eterna, la più alta  manifestazione di amore nei confronti di tutto il genere umano.
Nel giorno in cui si festeggia San Valentino, per antica tradizione il  santo patrono degli innamorati, cessando, per, un momento, ma solo per un attimo, di pensare alla guerra, ai nostri fratelli palestinesi che assediati nei loro campi profughi a Beirut, sono costretti,  per sopravvivere, a nutrirsi  con la carne delle persone uccise durante i sanguinosi scontri , voglio ricordare quanto è sublime l’amore che unisce una coppia.
Stare insieme, avere rispetto, l’uno verso l’altra e viceversa, avere figli, ricevere e donare carezze e baci, sono frutti che solo l’amore può darci.
Ma l’amore non ha limiti. Esso si manifesta in tutti i campi della nostra vita.
E’ amore lavorare; seminare la terra, far crescere le piante; impedire che i fiumi i laghi ed i mari siano inquinati  dai rifiuti di ogni genere. E’ una dimostrazione di amore anche questa odierna cerimonia  che ci consente di esprimere le nostre gioie, le ansie e le angosce del nostro tempo inquieto.
Ma amore non significa dover subire passivamente le violenze  e i soprusi degli uomini ingiusti.
Amore significa  anche impugnare la spada, così come fece l’Arcangelo Gabriele per sconfiggere il demonio che, annidandosi dentro l’uomo, è riuscito ad assopire la sua coscienza.


P. S. Questo è il mio primo articolo che fu pubblicato su "Il Dialogo" (aprile 1987), mensile cattolico versiliese diretto e fondato dal compianto don Florio Giannini, che ha già raggiunto da alcuni anni la Casa del nostro Padre Celeste.
Visto che il tema trattato in questo articolo mi sembra ancora oggi attuale, ho voluto ripubblicarlo sul mio blog, per onorare la memoria di Don Florio.

mercoledì 23 marzo 2016

Ricordi sempre vivi nel mio cuore

A 86 anni quasi compiuti ricordo ancora i due finanzieri di bello aspetto,  che vidi, per la prima volta nei primi anni 40, quando da Pietrasanta, dove aveva la sede la loro brigata, giunsero in bicicletta a Seravezza dove si fermarono davanti al molino che in quell’epoca esisteva vicino alla mia casa ubicata nel rione Ponticello per parlare con il proprietario e gestore dell’opificio che  era l’anziano signor Bonci. Entrambi indossavano la bella divisa in grigio verde ed erano armati entrambi della pistola Glisenti che portavano attaccata alla bandoliera. Io stavo saltando  con altri ragazzi sul mucchio di rena messa, all'interno dell'area del molino che gli operai della vicina segheria del Salvatori utilizzavano a cariolate per segare i blocchi di marmo. Sul quel mucchio di rena era solito giocarci anche Giuseppe Salvatori, detto Beppino che con il nome d’arte Renato girò nel dopoguerra il famoso film intitolato “Poveri ma belli” e ,successivamente, altri bei film diretti da importanti registi.

I due militari  si muovevano con dignitosa compostezza. Uno di essi mi sembrò essere più grande di età rispetto all’altro che verosimilmente doveva essere il capopattuglia. Dopo essere entrati nel molino i due militari della Guardia di finanza non li ho più rivisti.  Quindi ritorno a parlare del mio amico Beppino che possedeva una teleferica in miniatura che piazzava sulla cima del mucchio di rena facendo andare in su e giù i due mini carrelli. Con lui ci giocava anche il suo coetaneo Agostino Pucci che abitava in una delle case costruite sulle prime rampe del monte Canala, sulla cui cima i soldati tedeschi trinceratisi nel loro formidabile caposaldo difensivo chiamato il Castellaccio,  per sette mesi,  dall’estate del 1944 e fino all’aprile del 1945 fermarono l’avanzata delle truppe della divisione americana chiamata Buffalo. La prima volta che sentii parlare dei finanzieri, senza riuscire a vederli fu quel giorno dell’ anno 1940 in cui  mio padre mi portò con se alla vendemmia dell’uva  nella vigna che il suo babbo coltivava a mezzadria nella zona più alta del Monte di Ripa. Preciso che  fu l’unica volta che mi ci portò. Fu lui che mi aiutò a superare i più tratti difficili dei sentieri che conducevano sulla cima del monte, tirandomi su con le sue fortissime  braccia.  Eravamo vicini alla vetta del monte quando udimmo  lo scalpitio ferrato dei muli dei finanzieri che percorrevano la mulattiera per arrivare forse a Cerreta S. Nicola, come mi disse il mio babbo. A causa della folta vegetazione non riusci neppure a vedere le ombre dei muli nè neppure quelle dei finanzieri che li conducevano

La seconda volta che udii ancora parlare di un finanziere avvenne nel mese di luglio 1941, quando nel mio rione si diffuse la notizia, data da uno strillone che durante le domeniche vendeva i giornali lungo le strade del paese. Quanto lui urlava riguardava l'eroica morte  che affrontò l'appuntato dell' allora Regia Guardia di Finanza Francesco Meattini, nato a Cortona (Arezzo) il 18 luglio 1901 che era in forza al distaccamento di Berane, località del Montenegro. Il distaccamento fu attaccato e incendiato da preponderanti bande di ribelli. Durante la cruenta battaglia il Meattini, che era il capo squadra fucilieri, nonostante fosse stato più volte ferito, rifiutò ogni aiuto continuando a spronare i suoi commilitoni a combattere. Finite le cartucce e con i suoi colleghi quasi tutti morti, si fermò un attimo per baciare la fotografia dei suoi cari, dopodiché con calma e freddezza si mise in tasca alcune bombe a mano e tolta la sicura saltò sui ribelli seminando distruzioni e morte. Per questo suo eroico sacrificio, che commosse non solo tutte le persone di Seravezza che si erano affacciate alle loro finestre  bensì tutti i cittadini italiani, l‘appuntato Francesco Meattini fu insignito della medaglia d'oro al valor militare alla memoria.per il suo fulgido esempio di sublime sacrificio (Berane, Montenegro, 17 -18 luglio 1941-XIX )

Ricordo ancora  che durante la seconda guerra mondiale entrò una mattina nella mia  aula dell’Avviamento Professionale al Lavoro di Seravezza che allora frequentavo,  il  babbo di un mio  compagno di classe che di cognome mi pare che  si chiamasse Giannaccini. Indossava la divisa di finanziere, con attaccati sulle maniche della sua giacca i gradi di brigadiere. Il padre aveva ottenuto una breve licenza da fruire a Basati (328 m), ma prima di raggiungere il suo paese si era voluto fermare a Seravezza per salutare il proprio figlio. Tutti giorni, anche col cattivo tempo, suo figlio scendeva a Seravezza e ritornava a casa al termine delle lezioni percorrendo una lunga mulattiera..  Ancora non esisteva una strada asfaltata e, quindi, per lui ebbi subito una grande ammirazione, per la fatica che affrontava, per frequentare, ogni giorno   a Seravezza, la nostra scuola dell’Avviamento al lavoro.. Devo dire che durante l’anno precedente questo ragazzo aveva frequentato, insieme ad un altro ragazzo basatino, di nome Sergio,  la quinta classe. Sapevo che ai ragazzi di Basati, ricca di castagneti  non mancava ad essi la farina di castagne  con la quale potevano nutrirsi coi saporosi ciacci  ( necci fatti con farina dolce  di castagne  disciolta in acqua  con poco sale   e cotta fra due testi riscaldati a fiamma viva) mentre per tanti bimbi di Seravezza, sfortunatamente  per tutta la durata della guerra, mangiare i ciacci, rimase un sogno irrealizzabile.

Il giorno 1.11.1948 epoca in cui  lavoravo come apprendista formista fonditore presso la famosa ditta Cerpelli Pompe con sede a Querceta, presentai domanda di arruolamento nel Corpo della Guardia di finanza che consegnai “brevi manu” al piantone della caserma del comando del Circolo della Guardia di Finanza di Lucca, distante da Seravezza di circa una trentina di km. che raggiunsi in bicicletta.
Dopo aver superato gli esami fisici e culturali, nella notte successiva al 15.7.1949, tutti noi giovani dichiarati idonei, si parti in treno per raggiungere Roma, accompagnati da un maresciallo, per frequentare, dopo avere superato altri esami, il corso  allievi finanzieri della durata di sei mesi. Ricordo ancora le belle pagine fulgide di storia scritta col sangue dai finanzieri, a partire dal 1774, e le altre  tante lezioni che ci furono impartite in materia tributaria e penale e quant’altro che occorreva sapere per disimpegnare   al meglio i servizi che dovevamo espletare per la difesa delle leggi del nostro Stato dopo essere stati nominati finanzieri.
Desidero rivolgere un commosso ringraziamento ai seguenti ufficiali per gli alti insegnamenti che seppero darci.
- Colonnello Luigi Fantapiè ,comandante della scuola allievi finanzieri;
- Maggiore Fulgenzio , comandante del battaglione allievi finanzieri;
- Capitano Luigi   Signoriello, comandante della 1^ compagnia allievi finanzieri,
- Tenente Nello Febbraro,  comandante del mio plotone.

 Renato Sacchelli

I RICORDI RIMASTI SCOLPITI NEL MIO CUORE

Sento forte la  nostalgia di quei tempi in cui scrivevo per l'A.N.F.I. NEWS, il notiziario della sezione di Pisa,  che fu voluto dal Presidente pro - tempore finanziere - commendatore Marco Mugnaini e dallo scrivente che quando uscì il primo numero,  nel mese di ottobre del 1998,  in seno al Consiglio direttivo rivestivo la carica di revisore dei conti. Ho scritto tanti articoli  su questo nostro foglio, dai quali emergeva sempre l'amore nutrito per il  mitico e glorioso Corpo della Guardia di Finanza in cui mi arruolai il 15.7.1949.
Il notiziario nacque dall’esigenza di instaurare a livello locale un filo diretto fra tutti gli iscritti  alla sezione della Torre pendente  che allora contava 120 soci. La collaborazione era aperta a tutti i  soci,  ai quali il notiziario fu sempre offerto gratuitamente. Successivamente fui  eletto vice presidente della Sezione,  carica che mantenni per 10 anni. Devo dire che apprezzai molto le  parole che mi rivolse il presidente Marco Mugnaini quando, per la prima volta,  entrai, nella sezione dopo il mio congedo dal Corpo. “Questa è la tua casa” e ciò che mi disse lo trovai un pensiero eccezionale rimasto sempre impresso nella mia mente.  Mi preme sottolineare che i miei rapporti furono sempre ottimi con tutti gli iscritti. Era bello incontrare  e parlare con i militari in congedo, tra i quali vi erano alcuni   reduci della seconda guerra mondiale che furono internati nei lager nazisti, dove moltissimi di essi morirono in seguito alle inaudite violenze subite ed alla fame patita.
Fu stupendo per me rivedere alcuni colleghi con  i quali negli in anni lontani, avevo  esplicato  importanti servizi E quanta gioia si provava, quando   prima di ritornare a casa,  si andava tutti  a prendere un caffè  in  uno dei tanti esercizi  più vicini alla nostra Sezione. Ho pianto  quando la morte strappò alla vita diversi   soci, tra i quali ricordo, nel tempo in cui ero vice presidente,  il nostro socio onorario Gen. C. A. Ferruccio Canovaro, i marescialli  maggiori Leonardo Uneddu, Carlo Zanni e  Pietro Alesse,  ed i  brigadieri Ezio Ansini, Lorenzo Zitiello, Antonino Marchese,  l'appuntato Guido Zazzini. e il socio simpatizzante Enzo  Fialdini . Si li ho voluti ricordare tutti perché sia con loro che  con tutti gli altri iscritti alla sezione, ebbi sempre rapporti di profonda stima e di affetto.  La morte improvvisa del Comandante del gruppo provinciale di Pisa, Gen B. Paolo Semeraro che era anche lui socio onorario dell’AN.F.I. di  Pisa, addolorò profondamente tutti gli iscritti alla nostra sezione. Il generale Semeraro che da poco tempo aveva compiuto cinquant’anni,  fu un ufficiale di grande  valore. Egli quando pronunciò un suo discorso nella nostra sede dove era venuto a visitarci amò, definirci affettuosamente  di “essere tutti noi i suoi vccchietti”. E ancora,  parlando dell’ANFI,  disse: “Se siamo qui dopo una vita bicentenaria lo dobbiamo a tutti gli ex finanzieri per il servizio svolto a beneficio della nostra Patria.
Ecco cosa pensava dell'ANFI l’associazione che a me mi ha fatto sentire sempre immutato   lo spirito di Corpo che sentii nel mio cuore sin quando mi arruolai nella Guardia di Finanza.
Fui io a scrivere l’articolo sulla morte del generale Semeraro che fu pubblicato sulla nostra importante rivista Fiamme Gialle.  
Fino a quando sono stato relativamente in buone condizioni di salute ho partecipato a tutte le belle cerimonie pubbliche ed ai fantastici  raduni nazionali e interregionali. In particolare non dimenticherò mai il primo raduno  cui presi parte  che fu  quello che avvenne nei giorni 27- 28 settembre 1998, a l'Aquila, dove mentre sfilavamo nelle via del centro cittadino fummo acclamati da una massa imponente di cittadini e da molti bambini e bambine . Tutti i presenti al nostro passaggio gridavano Viva La Guardia di Finanza, viva L’Italia….”. Proprio a l'Aquila mi riconobbe un collega, in forza al Gruppo di Arezzo,  col quale prestai servizio al distaccamento di Passo Foscagno (2295 m) della brigata di Semogo -   nel 1954 -  Ben 45 anni erano trascorsi senza più esserci rivisti. Anche al raduno di Fiuggi fui riconosciuto da un collega che prestò servizio insieme a me, alla Brigata  di  Monte Bisbino nel 1958,  dove lui  era conduttore di un cane anticontrabbando. Di anni senza più rivederci ne erano trascorsi 40. 
Amo pensare che essere stato così riconosciuto  sia dipeso dal fatto che avevo  conservato  un
aspetto giovanile grazie alla mia capigliatura ancora nera.

Concludo col ricordare il   maresciallo capo  “terra” Aroldo Ballati, socio benemerito della Sezione ANFI di Pisa che personalmente non ho mai conosciuto, ma col quale parlai al telefono diverse volte per invitarlo a partecipare alle nostre feste, in particolare a quella fantastica relativa  al nostro Corpo.In relazione alla mia richiesta lui , mi rispose che camminava con molta difficoltà, e  di essere quasi cieco,  motivo per cui non poteva più muoversi. Con me ha sempre parlato volentieri, Una volta mi  raccontò di aver fatto parte del 6° battaglione mobilitato - formato a Livorno - del quale fece parte anche l'appuntato Francesco Meattini, medaglia d'oro al valor militare. Aroldo mi disse anche di avere  combattuto nei Balcani  a fianco degli alpini della divisione Tridentina per respingere un attacco dei ribelli, Per il suo comportamento  gli fu concesso un encomio solenne. Quando compì 100 anni  anch'io dovevo far parte della rappresentanza dei finanzieri in congedo della sezione operativa della compagnia di Pisa per festeggiarlo. Stavo per scendere  le scale quando udii mia moglie che mi chiamava: “Renato, Renato, sto molto male…” Ritornai sui  miei passi e così la vidi distesa sul letto in preda a forti dolori. Mi disse che aveva preso una compressa antidolorifera che anziché  farla stare meglio aveva peggiorato le sue condizioni. Dovetti chiamare la guardia medica . La dottoressa che arrivò la trovò grave e per questo motivo chiamò l'autoambulanza per farla subito ricoverare al pronto soccorso dell’ospedale di Pontedera dove gli fu accertato che era allergica al medicinale che aveva preso. Li rimase molte ore prima che venisse dimessa. Fu per questo fatto che  non conobbi  Aroldo. Quando cessò di vivere a 101 anni di età, fui l’alfiere (porta bandiera) durante il  suo funerale, a cui parteciparono molti cittadini di Pomarance, un ufficiale del Nucleo provinciale di Pisa in rappresentanza del Colonnello Paolo Semeraro e diversi marescialli in forza ai reparti vicini al luogo dove Aroldo visse gli ultimi anni della sua vita e da tanti finanzieri. 
 Nel periodo in cui sono stato vice presidente ho vissuto  tanti episodi belli che hanno sempre riscaldato il mio cuore riempiendolo di gioia, motivo per cui sono grato ai soci fondatori della nostra grande Associazione Nazionale Finanzieri d’Italia la cui esistenza,    riesce ancora oggi a farmi risentire immutato quello spirito di Corpo che avvertii di avere quando entrai, nel luglio del 1949, nella caserma Piave di Roma per frequentarve il corso di allievo finanziere.

Renato Sacchelli