domenica 20 giugno 2010

Ricordi che un si possino dimenticà.

“Il fóco è mmezzo pane!“; già dicéino pròpio così ’mmii genitori quand’ero cicchino, mentre tutta la famiglia si scaldaa, durante le fredde serate d’inverno degli anni ’30 e ’40, intorno al camino acceso e ccon la legna stiocchéttante che ssprigionaa banfate e faville in continuazione. Questo ritornello l’aveo sentuto dì tante volte, anco dai vecchietti che staceino néle piazze a ppiglià un popò di sole per riscaldassi. Erino ‘ttempi de la miseria nera per tanta gente de la Versilia, col freddo che ne la cattiva stagione facéa venì a nnò ragà ’ggeloni a le mane, mentre lo scolo de le acque piovane formaa, sotto le rocce del monte e de l’utima fila, in basso, delle canalétte dei tiétti, grossi candéli che pareino èsse di cristallo. A scola c’era chi portaa ‘l mattone riscaldato avvolto ind’un cencio e cchi de le stiampe secche per accende la stufa. Anco io da ragà sono ito, con altri batocchi, a rraccoglie banfùglieri e ttacche sui monti ’ntorno a Seravè, specie durante gli anni de la spaventosa guèra ’n cui le mi forze un erino molte per colpa de la fame che sentio tutti ‘ ggiorni forte forte. Un aveo sempre sentuto dì che “’l fóco era mezzo pane?” In verità gli stecchi che si raccoglevino erino spesso necessari per fa’ la polenta nel paiólo e anco ’mminestroni...affumicati, quando mancavino ’ssoldi per comprà ’l carbone per cóce ’ccibi sui fornelli, perché ne duvea passà del tempo prima d’avecci ‘l gasse néle bombole. Quando si usaa la legna per fa’ ’l mangià, ’mmuri de la mi’ cucina continuavino a annerì sempre di più, perché la sciamina un tiraa il fume, sicchè si dovea sempre aprì la fenestra per fallo uscì fòra. Allora trovà anco pòghi banfùglieri un dèra facile; ’bboschi venivino spesso tagliati per soddisfà ’bbisogni di legna dei fornai e ggnanco néle selve, che pareino èsse de’ giardini, si trovaa più nulla, perché ’ppropietari le pulivino bene per raccoglie le castagne, preziose come ‘l pane. Era sempre ‘no spettacolo vedè passà néle nostre strade baròcci carichi di fascine, con sóbbre ‘n òmo che parea asseduto sul trono, mentre stringea fra le mane le briglia del cavallo, del quale si risciva a vedè solo la testa e lle zampe. Il baròcciante d’istate tenea sula testa un cappello di paglia che, néla stagione invernale, sostituiva con ‘n cappellaccio tondo. Chi ce la facéa a ssalì néle zone più èlte dei monti, caminando lungo dificili sentieri tracciati anco fra ‘ rravaneti, podea portà a ccasa, sule curve spalle, grossi fasci di legna secca. Fra questi òmeni forti e vvigorosi c’era anco mi’ pà; é così che la mi’ famiglia podette riscaldàssi per tanti inverni. Nó ragà di legna ne raccoglievimo pòga; un fascetto piccolo piccolo, paragonabile a cquélo che si preparaa per la “Befana“, perché un aveimo la forza e nnemmeno l’esperienza degli òmeni grandi per arrampicassi su ’ mmonti più impervi. In que’ giorni òmeni e ddonne difendevino a ddenti stretti sia gli stecchi dei propi boschi sia le castagne, che nó ragà più grandicelli tentavimo di raccoglie, dato che erimo più affamati degli scoiattoli. Negli anni de la guèra, un òmo del mi’ paese, picchiò un ragà che avea sorpreso nel propio bosco, mentre con un seguretto ne la mana, stacéa a ttaglià degli arbustelli, qualcuno anco secco, in compagnia di un su’ amico più piccolo. Mentre quest’ultimo riscitte a ffuggì, perché si trovaa a una diéggina di metri più sóbbre del su’ compagno, l’altro si trovò improvvisamente addosso ‘l padrone e ‘ ssui figlioli che lo seguivino, senza così avecci alcuna via di scampo. Inferocito, l’òmo gli tolse ‘ l seguretto e ssupito si scagliò contro di lu’, pigliandolo a sstiaffi e anco a ppugni. Una gragnola di colpi arrivonno sula testa, sul viso e sule spalle del ragà, che con le mane tentava di riparassi da le botte. Picchiaa e gridaa: “Chi t’ha datto l’ordine di taglià le piante del mi’ bosco? Come ti sei permesso d’entracci...guai a tè se rimetti ‘ppiedi quiccosì...” e ggiù ancora colpi. Nemmeno ‘ ssui figlioli ebbero compassione per lo sfortunato coetaneo. Anch’essi funno spietati incitando ‘l genitore: “Dagliene ancora babbo, dai... dai...più forte...”. L’òmo smise di picchià quando s’accorse che ‘l ragà era giunto al limite de la sopportazione; altri colpi gli averebbero fatto perde ‘ ssensi. “Vai via!, Via! Via! “, gridò a la fine l’òmo, mentre tentò di dagli un calcio nel sedere. Il ragà s’allontanò barcollante, e ssùpito scomparì tra ‘ cespugli del monte. Mentre scendea, con la bile in bocca, a un tratto sentì ‘l bisogno di riprende fiato. Distesosi per tèra, girò ‘ ssui occhi pieni di lagrime verso il célo tinto d’azuro.
A que’ tempi un c’era amore fra nó. La carità un si vedea in giro; Gesù era morto da guasi dumila anni. Altri episodi di granda violenza contro ’ rragà accadevino in quéla epoca, forse per colpa de la fame che fé perde a ttanta gente l’uso del cervello. Ricordo quel giorno ‘n cui andetti a le castagne sul monte Altissimo, supito dóppo la salita del ponte di Rimone; erimo in quattro o ccinque de la mi’ età. Un appena s’uscitte da la strada e s’entrò ne la prima selva, ‘na donna di Seravé , che ‘n era gnanco la padrona, ci tirò addosso un mucchio di sassi grossi. Funno le nostre gambe, allora scattanti, a evità il peggio: in poghi menuti ci si trovò ‘n fondo al fiume tutti sani e ssalvi. La scampammo propio bèla; qualcheduno di nó, senza avè avuto gnanco il tempo di mettisi ‘n bocca ‘na sola castagna, podéa fenì a l’ospidale se gli fùsse andata bene a un rimané stecchito sul colpo.
Ma ‘l péggio per nó batòcchi e pper tutta la gente de la Versilia dovea ancora arrivà. Del’alba dei giorni tragici de lo sfollamento e del crepitio de le armi che insaguinò per sette mesi la nostra tèra, già s’intravedeino ‘ pprimi bagliori.

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