domenica 14 settembre 2014

Le Forze Armate: il coraggio della solidarietà

Ne ha fatta di strada l'uomo da quando accese il fuoco e inventò la ruota, uscì dalla grotte e dalle palafitte e costruì le città. Le sue opere hanno esaltato la propria intelligenza in tutti campi della scienza, della medicina e dell'arte. È arrivato persino a mettere i piedi sulla Luna e a “passeggiare” nello spazio. Soltanto in un campo non è progredito: sin dall'antichità, infatti, anziché vivere in pace ha sempre combattuto sanguinose battaglie coi propri simili ,con milioni e milioni di morti, feriti e cumuli di rovine. Le guerre, motivate quasi sempre da mire espansionistiche e dalla brama di appropriarsi delle ricchezze altrui, considerate bottino di guerra, hanno rallentato il progresso umano. 
Mettere in campo forze armate per difendersi e, ove necessario, attaccare, ha comportato e sempre comporterà lo spreco di ingenti somme di denaro che, se impiegate nella costruzione di opere pubbliche e nella ricerca scientifica, ad esempio per trovare nuove cure alle malattie, ci avrebbero consegnato se non un mondo perfetto quantomeno uno migliore. 

Nel 1950, quando i caschi blu dell'Onu intervennero nella guerra scatenata dalla Corea del Nord contro quella del Sud, per ripristinare lo “status quo ante” e restituire l'indipendenza a Seul, ebbi modo di pensare che soltanto le Nazioni Unite, avvalendosi di contingenti militari internazionali, potessero far cessare gli scontri armati senza far incancrenire i conflitti tra gli Stati e ripristinando in tempi abbastanza rapidi la pace. Purtroppo le numerose guerre che si sono susseguite fino ai nostri giorni mi inducono a pensare che mi ero sbagliato. Le mie convinzioni iniziarono a vacillare negli anni della guerra civile in Libano. Il 23 ottobre 1983, una domenica, un contingente militare costituito da marines americani, sotto l'egida dell'Onu, inviato pochi mesi prima per porre termine a una guerra fratricida, fu preso d'assalto in una caserma: persero la vita 241 soldati americani, e in un altro attentato quasi simultaneo furono trucidati altri 56 militari francesi. La storia va avanti ma le tragedie si ripetono. Il 12 novembre 2003 a Nassiriya, nel sud dell'Iraq, un altro sanguinoso attentato stroncò la vita a 28 uomini, tra cui 19 italiani (diciassette erano militari) e nove iracheni. Sono anni che mi domando a cosa servano davvero le Nazioni Unite se non riescono a impedire i conflitti che scoppiano nel mondo,tenuto conto che questi è il loro primo compito istituzionale.

Mi soffermo su due recenti interventi militari: la prima guerra del Golfo (1991), che una coalizione internazionale sotto l'egida dell'Onu dichiarò all'Iraq che aveva invaso il Kuwait; la seconda guerra del Golfo (2003), voluta da Stati Uniti e Gran Bretagna per eliminare il regime di Saddam Hussein, accusato di essere un pericolo per la sicurezza internazionale perché in possesso di pericolose armi di distruzione di massa (mai trovate). Persa la guerra Saddam fu catturato, processato e condannato a morte per i crimini commessi nel corso degli anni sia contro i propri oppositori, sia contro le popolazioni curde. Se nel primo caso l'intervento militare fu legittimato dalla palese violazione da parte dell'Iraq di una risoluzione dell'Onu, tesa a ridare piena sovranità ad uno Stato invaso, nel secondo a scatenare la guerra furono motivazioni geopolitiche, e il Palazzo di vetro fu beffato da chi spacciò per vero un rapporto sulla sicurezza palesemente inventato (quello che dava per certo il possesso, da parte di Bagdad, degli ordigni di distruzione di massa).

Un breve accenno anche alla guerra in Afghanistan, dove tuttora operano, su mandato Onu, i contingenti militari di diverse nazioni, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia e altri otto Stati. Il conflitto è scoppiato nel 2001 per porre fine al dominio dei talebani, che davano asilo a Osama bin Laden e da anni facevano vivere il paese nel terrore. I militari italiani inviati in Afghanistan, è bene ricordarlo, sono soldati di pace, alla luce dell'articolo 11 della nostra Costituzione (“L'Italia ripudia la guerra...”). I nostri soldati avrebbero dovuto essere accolti con gioia, invece fino ad ora ben 54 di loro sono stati uccisi nel corso di scontri armati e attentati compiuti dai filo talebani. È incredibile che così tanti giovani militari inviati in quella terra non per aggredire, uccidere o conquistare terreni, ma per riportare sicurezza e pace tra la popolazione afgana, siano rimasti uccisi. 

Ma torniamo alle Nazioni Unite. Cosa fecero per evitare la violenza criminale del dittatore serbo Slobodan Milosevic, che si macchiò di un'efferata pulizia etnica, da Vukovar a Dubrovnik e nel Kosovo, dai campi di concentramento di Prjedor e Omarska, all'eccidio di Sebrenica, causando ovunque morti e distruzione? L'Onu non riuscì ad opporsi con fermezza a quel dittatore sanguinario: per bloccarlo fu necessario un intervento della Nato, sotto l'ombrello giuridico della palese violazione dei diritti umani. E il Palazzo di vetro nulla riesce a fare per porre termine alle gravi tensioni che da decenni minacciano il Medio Oriente, la terra in cui nacque Gesù, dove non si placa lo scontro tra israeliani e palestinesi. Dopo la Prima guerra mondiale, su iniziativa del presidente americano Woodrow Wilson, nacque la Società delle nazioni, con sede a Ginevra, allo scopo di salvaguardare la pace e la sicurezza universale e favorire la cooperazione economica, sociale e culturale fra tutti gli Stati. Si estinse il 18 aprile 1946, a causa della sua manifesta impotenza nell'aver impedito lo scoppio del secondo tragico conflitto mondiale. Dalle sue ceneri nacque l'Organizzazione delle Nazioni Unite, con sede a New York, costituita dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale: Cina, Francia, Gran Bretagna, Unione sovietica e Stati Uniti d'America. 

In considerazione della brutta situazione che stiamo vivendo in questi tempi, con numerosi focolai di guerra accesi in vari angoli del mondo, dobbiamo purtroppo prendere atto che l'Onu è priva degli strumenti necessari a imporre, agli stati membri, le proprie risoluzioni per la salvaguardia della pace e della sicurezza. Le Nazioni unite, infatti, non dispongono di proprie forze armate e non hanno, quindi, un'opzione militare su cui far leva come minaccia e per intervenire tempestivamente laddove necessario. Restano solo i moniti del segretario generale dell'Onu, che quasi sempre rimangono inascoltati, a meno che qualche altro organismo più ristretto (G8) non agisca per proprio conto, facendo leva sulle sanzioni economiche (vedi caso della Russia per l'occupazione della Crimea) o su interventi militari veri e propri promossi dai singoli stati: uno degli ultimi casi è la guerra in Libia contro Gheddafi (2011), combattuta da una coalizione internazionale composta in tutto da 19 stati e guidata dalla Nato. Autorizzata da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che aveva istituito una zona d'interdizione al volo sul paese nordafricano, la guerra “ufficialmente” fu combattuta per tutelare l'incolumità della popolazione civile dai combattimenti tra le forze lealiste e i ribelli.

Ma torniamo al nostro Paese. Le Forze armate italiane sono il primo baluardo per la difesa delle nostre frontiere. Fra i propri doveri vi è anche quello della solidarietà, che impone comportamenti relativi agli alti valori di carattere etico-sociale in ordine ai quali occorre aiutare chi è in difficoltà. Con il “Trattato di Lisbona” del 2007 (in vigore dal 2009) è stato modificato il “Trattato istitutivo della Comunità Europea” che ha introdotto una clausola di solidarietà (art. 222) che impone agli Stati membri di agire con spirito di solidarietà, impiegando tutti i mezzi possibili, compresi quelli militari, in caso di richiesta di aiuto per attentati terroristici e per calamità naturali o causate dall'uomo. Gloriosa è la storia delle nostre Forze armate, ricca di pagine di epico valore scritte col sangue dei soldati che le hanno vissute. Mi riferisco, in primo luogo, ai conflitti combattuti per unificare la nostra Patria, per secoli divisa in diversi piccoli staterelli, com'era solito dire il mio maestro della scuola elementare - che frequentai durante gli anni '30 - che mai ho dimenticato, tanto da farmi pensare che l'eroismo con cui furono combattute dai nostri soldati le battaglie sul Carso, sull'Adamello, sul Piave e su ogni altro fronte fosse derivato dall'amore per la Patria. Un sentimento che, unito ad altre circostanze a nostro favore, ci permise di vincere la Prima guerra mondiale. Da bambino mi capitava di piangere quando la banda musicale del mio paese suonava l'inno del Piave, davanti al monumento ai Caduti del mio paese, durante la ricorrenza della vittoria celebrata ogni anno il 4 novembre. Ancora oggi, dopo tanti anni, quando ascolto le note musicali del nostro inno i miei occhi si riempiono di lacrime. Mi è di conforto sapere che i nostri Padri costituenti nell'articolo 11 della Carta Costituzionale abbiano scritto: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali...”. Al di là di ogni retorica, per l'importanza che hanno, queste parole dovrebbero essere “scolpite” nella Carta costituzionale di tutte le nazioni il mondo. Molto importanti e significativi sono anche gli articoli 52 e 54 della Carta costituzionale: il primo sancisce che la difesa della Patria è un dovere sacro del cittadino e che l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica; il secondo precisa che tutti i cittadini hanno il dovere di fedeltà alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato. Inoltre chi esplica funzioni pubbliche ha il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

Devo riconoscere che, nel corso degli anni, mi ha favorevolmente impressionato la sensibilità dimostrata dai governi che si sono succeduti e dalle autorità militari, sempre protesi a garantire il soccorso alle popolazioni colpite da terremoti, allagamenti o altri disastri. Ricordo la tragedia del Vajont, provocata dall'enorme massa d'acqua fuoriuscita dalla diga quando una parte del monte Toc sprofondò nel bacino: acqua e fango spazzarono via Longarone con tutti suoi abitanti. Rivedo, davanti ai miei occhi, le immagini trasmesse dalla tv, coi soldati che cercavano nella melma i corpi delle vittime. Una straziante operazione di soccorso che qualcuno doveva pur fare e che vide i nostri militari in prima linea. Anche nel terremoto di Messina, nel 1908, i primi a portare aiuto ai superstiti di quell'immane tragedia furono i nostri marinai e soldati. E lo stesso avvenne nei terremoti che sconvolsero il Friuli e l'Irpinia. Per assicurare tranquillità e sicurezza alla popolazione, i nostri militari sono stati impiegati anche in alcune città del Sud Italia, dove la criminalità organizzata è responsabile di reati gravissimi che minacciano il vivere civile di tutti noi. Non ci possono essere dubbi: altissimo è sempre stato il senso del dovere manifestato con zelo, disciplina e coraggio dai nostri soldati nei confronti degli abitanti delle zone in cui sono stati mandati a espletare il loro servizio.

Il “coraggio della solidarietà” è una bellissima qualità. Ma dove la si può trovare? Nel cuore nobile di ciascun uomo, se permeato dall'amore nei confronti dei propri simili e se sane e robuste sono le Istituzioni. Ma credo anche che vi sia un fondamento culturale frutto dell'umanesimo cristiano. Il primo a manifestare questo “coraggio della solidarietà”, infatti, fu Gesù Cristo, quando disse agli uomini: “Amate il prossimo come voi stessi”. Che si abbia fede, oppure no, come spiegò Benedetto Croce in un famoso saggio, “non possiamo non dirci cristiani”. Per il filosofo il cristianesimo aveva compiuto una rivoluzione: “Operò nel centro dell'anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all'umanità” che grazie proprio a quella rivoluzione non può non dirsi "cristiana".

Se desideriamo vivere in un mondo di pace, come credo sia nel cuore di tutti gli uomini, è fondamentale adoperarsi per risvegliare la coscienza di quei governanti che vorrebbero costruire bombe atomiche per distruggere altre nazioni, pronti a scatenare “guerre sante” strumentalizzando la religione e sfruttando l'ignoranza delle persone. Non c'è fede al mondo che possa predicare la morte anziché la vita. Chi afferma il contrario, se ha studiato i propri testi sacri di riferimento sa di dire il falso. Non è possibile, purtroppo, prevedere tragedie come quella generata dall'ideologia folle professata da Adolf Hitler, che scatenò la Seconda guerra mondiale e causò la morte di milioni e milioni di persone, provocando enormi distruzioni. L'unica cosa che sappiamo con certezza è che, se vogliamo evitare che in futuro fatti analoghi si ripetano, servono adeguati strumenti di prevenzione. Occorrerebbe, ad esempio, che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu (l'organo esecutivo delle Nazioni unite) disponesse di un contingente militare fornito da tutte le nazioni iscritte all'Associazione, per agire come deterrente o, nei casi più gravi, intervenire in modo tempestivo per spegnere i conflitti. Ma bisognerebbe anche rivedere le regole, perché il sistema dei veti (un solo no espresso da un membro fisso del Consiglio di sicurezza può bloccare ogni decisione), figlio delle logiche dei blocchi del secondo dopoguerra, è ormai anacronistico e impedisce ogni decisione. Se soffermiamo la nostra attenzione sul nostro Paese, dobbiamo riconoscere che è un dovere morale attenersi ai principi filosofici dell'etica, che studia e ci mostra le scelte e i comportamenti che ogni governo nazionale dovrebbe assumere, sia per governare i popoli che per utilizzare al meglio i propri militari. Dalla condizione delle forze armate si hanno due connotazioni peculiari: la prima è quella del “professionista militare”, inteso come dirigente, la cui etica è di matrice tecnica, mentre di matrice eroica è la seconda, che qualifica “un capo per vocazione”. La matrice tecnica riguarda la modernizzazione sempre crescente dei mezzi, strumenti e armi in dotazione, mentre la matrice eroica attiene al fattore morale, che si impernia su valori etici quali , ad esempio, lealtà, coraggio, rigore morale, senso del dovere, rispetto dei diritti e della dignità, spirito di dedizione al prossimo.

Giova evidenziare che al militare può essere richiesto, quando gravi momenti lo rendano necessario, il sacrificio della cosa più preziosa che ciascuno di noi possiede, la vita. Non può essere imposto a nessun altro. Il militare è tenuto a credere nei valori e nei compiti che gli vengono affidati, in quanto programmati nell'interesse della collettività nazionale. La sua condizione è molto diversa dalle altre professioni in quanto comporta la totale adesione ai valori che si pongono alla base della solidarietà e della capacità, di ogni soldato, a combattere. Come ricordavo prima, per tentare di costruire un mondo migliore occorrerebbe che le Nazioni Unite fossero messe nelle condizioni di agire, attraverso opportune riforme giuridiche e organizzative. E un primo intervento operativo da mettere in cantiere con urgenza sarebbe quello di impedire la produzione di gas asfissianti e di altre altre pericolose armi chimiche, o nel caso in cui esistano già, provvedere allo smantellamento degli arsenali, il cui impiego può causare spaventose stragi di esseri umani. Anche se spesso sono divisi da odi e incomprensioni, i popoli della terra sono accomunati da alcuni elementi imprescindibili: tutti sognano di vivere in pace, lavorare e acquistare il pane quotidiano e quant'altro necessario alla propria sussistenza. Hanno bisogno di amore, perché è amore lavorare, seminare la terra, far crescere le piante, raccogliere i frutti, impedire che fiumi, laghi e le acque del mare siano inquinati dai rifiuti di ogni genere. Crescere sani e forti e vedere i propri figli e nipoti farsi strada nel mondo. Qualcuno pensa che vi siano persone che, nel profondo del loro cuore, sognino davvero morte, miseria, disperazione e distruzione? Impossibile. Se non nella mente di chi vuole instillare odio nelle persone, perseguendo finalità malate.

Grande è il sentimento di amore che il popolo italiano deve sempre sentire per le proprie Forze armate, pronte a mantenere fede al giuramento di fedeltà prestato, come avvenne ad esempio all'indomani dell'Otto Settembre 1943 a Cefalonia, dove la divisione Aqui si rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e iniziò a combattere contro di essi. Feroce fu il comportamento dei tedeschi che, per vendetta, massacrarono i superstiti dell'intera divisione, con in testa il comandante Generale Gandin e migliaia e migliaia di uomini tra ufficiali, sottufficiali e soldati. Sappiamo per certo che le nostre Forze armate sono pronte ad aiutarci nei momenti di maggiore difficoltà, quando la vita è appesa a un filo a causa di qualche imprevedibile evento naturale. O aiutare i nostri simili che, sognando una vita migliore, scappano dal loro paese e, sfidando le onde del mare, il fame, il freddo e la sete, salgono su barconi di fortuna per raggiungere le nostre coste alla ricerca della felicità. E trovando, spesso, solo miseria e disperazione. Quanti di loro hanno trovato la morte nel Mediterraneo. Quanta indifferenza e quanto odio da parte di molti. Ma quanta bellissima solidarietà da parte, ad esempio, del popolo di Lampedusa e, soprattutto, delle nostre Forze armate, impegnate nel prestare soccorso a chi è in difficoltà in mezzo al mare. Una solidarietà che non ha confini, ideologie o secondi fini. Ma è frutto solo di amore e umanità.

Sono fermamente convinto che il coraggio della solidarietà lo debbano avere, in primis, tutti i governi e i vertici delle forze armate. Ma anche, nel proprio piccolo, ciascuno di noi. Solo questa “rivoluzione culturale” ci potrà permettere di realizzare quel fantastico sogno che hanno nel cuore tutti gli uomini di buona volontà: costruire un mondo migliore, senza più guerre, perché, come disse Papa Pio XII nell'agosto 1939, alla vigilia dello scoppio della Seconda guerra mondiale, “con le guerre tutto è perduto mentre con la pace niente è perduto”. Auspico che la “rivoluzione” da me propugnata, ancorché difficile da realizzarsi, possa compiersi per il bene delle generazioni future, che potranno finalmente vivere in un mondo permeato dai valori eterni della pace e dell'amore, e dal naturale spirito di fratellanza che appartiene a ciascun essere umano. 


--- Questo è il tema  con il quale partecipai al concorso letterario indetto nell'anno in corso dal Circolo ufficiali in congedo (Unuci) di Chiavari. Non figuro tra i concorrenti che sono stati premiati, che sicuramente hanno scritto un testo migliore del mio. Comunque sono molto soddisfatto perché ho potuto esprimere quanto mi ha dettato il cuore ---