venerdì 31 dicembre 2010

Biografia del Maestro Bruno Guerrini

Figlio di Antonio Guerrini e di Augusta Falconi;
nacque a Seravezza il 7 giugno 1917;
frequentò a Seravezza le Scuole Elementari e l’Istituto Tecnico Versiliese (4 anni);
continuò gli studi presso l’Istituto Magistrale di Pisa, superando, al termine dell’anno scolastico 1935-1936, gli esami di Stato, conseguendo così il diploma di maestro;
successivamente effettuò l’insegnamento, in modo saltuario e per pochi giorni, presso la Scuola Elementare di Seravezza e anche presso quella distaccata alla Cappella nel locale ove ora è ubicata la sede del Gruppo degli Alpini in congedo di Seravezza,.
frequentò, coi colleghi Silvio Federigi e Mauro Barghetti, un corso privato di preparazione ad un concorso per ottenere “il posto di ruolo”, tenuto dal professor Giulio Paiotti;
vinto il concorso fu destinato ad insegnare nell’isola di Rodi, allora colonia italiana con tutte le isole del Dodecanneso;
frequentò ad Arezzo, negli anni 1938-1939, il corso di allievi ufficiali di fanteria. Nominato sottotenente, fu assegnato ad un reparto della divisione Bologna;
nel mese di novembre 1941 si trovava in Libia con la X Compagnia Divisionale anticarro della Divisione Bologna, che fu travolta da un attacco in forze scagliato da truppe neozelandesi in direzione di Tobruk;
fu ucciso il 26 novembre 1941 a Bages Belamedh, durante una sanguinosa battaglia, nel corso della quale perirono 45 ufficiali ed un migliaio di soldati italiani;
Mauro Barghetti, suo collega e amico fraterno, nel suo articolo “No, Bruno, noi non ti dimentichiamo”, pubblicato sul n.324 di Versilia Oggi del mese di settembre 1993, ha riportato anche il seguente racconto che fece un soldato semplice dello stazzemese che, acquattato nel cratere di una bomba esplosa nei pressi del caposaldo occupato dagli uomini del sottotenente Bruno Guerrini, vide morire l’ufficiale seravezzino: “Il sottotenente Guerrini comandava un “caposaldo” dotato di due cannoncini anticarro da 47/32, poco più di due giocattoli, se rapportati alle corazze dei carri armati anglosassoni; nei manuali tattici di allora “caposaldo” voleva dire “ ordine di resistere fino alla morte”. Il suo caposaldo fu investito dalla furia d’un grosso carro armato; lui ordinò il fuoco ai suoi soldati ormai fuori combattimento. Allora si mise al pezzo di persona, caricò, puntò, sparò, colpendo in pieno il carro al quale naturalmente fece soltanto un po’ di solletico-." Stava per sparare l'ultimo colpo quando l'esplosione di una cannonata nemica frantumò anche le ossa di Bruno.”
Nel suo articolo il Barghetti, in relazione all’azione compiuta da Bruno Guerrini, ha inoltre scritto: “Nessun superstite ci fu che ne potesse proporre una doverosa medaglia d’oro alla memoria”;le ricerche per rintracciare il soldato dello stazzemese, ai conclusero con esito negativo (probabilmente sarà deceduto nel corso di questi ultimi decenni).

Monsignor Guido Corallini, attuale parroco di Santa Caterina a Pisa, che fu compagno di studi di Guerrini Bruno presso le Scuole Magistrali, ha fatto presente che le stesse, da anni, hanno sede in un nuovo fabbricato e che il vecchio edificio è passato in uso ad un Istituto Superiore dell’Università. Dei nomi, tra i quali anche quello del maestro Bruno Guerrini, a cui le aule erano state, a suo tempo, intitolate, non è rimasto più nulla. Al Preside pro - tempore dell’Istituto Magistrale Statale “G. Carducci” di Pisa, ubicato in via S. Zeno, Angela Pucci, chiese, per iscritto, un attestato dal quale risultasse che, a suo tempo, le vecchie Scuole Magistrali pisane intitolarono un’aula anche alla memoria del suo zio materno Bruno Guerrini, ma anche in questo caso nulla fu trovato.
Purtroppo anche le ricerche della lapide che fu murata nell'aula dedicata alla memoria di Bruno Guerrini e che finì sul mucchio di altre vecchie lapidi che furono divelte ed ammucchiate vicino alla scuola, effettuate da chi scrive si conclusero con esito negativo, infatti nulla trovò.

domenica 26 dicembre 2010

Ecco come i partigiani portarono via il ciclostile del comune di Seravezza

Nel mese di dicembre del 1943 i partigiani della Versilia sottrassero il ciclostile che aveva in dotazione il comune di Seravezza. Appresi questa notizia sui banchi dell'Avviamento Professionale al Lavoro. In quei giorni lontani sentii dire che erano stati i partigiani a compiere questa azione per poter stampare volantini per incitare la popolazione versiliese alla lotta partigiana a difesa della libertà, sia contro i tedeschi che reagirono, con una inaudita e sanguinaria violenza, contro i soldati italiani allo sbando dopo l'8 settembre del 1943 causando un forte spargimento di sangue e deportazioni in massa nei lager in Germania e un Polonia, sia contro i fascisti che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Liberatore. Il Ministero delle Forze Armate della Repubblica Sociale era stato affidato, in quel momento storico molto difficile per gli italiani, al maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.

Non molto tempo fa nel fare visita a Alfieri Tessa, l'uomo che alla fine degli Anni 30 mi fece sognare, come ho raccontato nel mio primo articolo che ho scritto su di lui, oltre al libro “Il fucile legato con la corda”, mi donò diversi suoi fogli, nei quali aveva raccontato gli episodi più drammatici, accaduti durante la lotta partigiana in Versilia. Tra questi fogli ho trovato anche quello in cui ha dettagliatamente descritto l'azione intrapresa per sottrarre il ciclostile al comune seravezzino, che fu compiuta all'inizio del mese di dicembre del 1943.

Ad Alfieri Tessa, partigiano seravezzino, costantemente addetto al servizio informazioni, fu affidato l'incarico di accertare chi disponeva di un ciclostile, ritenuto utile dai partigiani per la motivazione innanzi accennata. Fu lui che accertò che proprio il comune di Seravezza aveva in dotazione questa macchina, quindi pensò di effettuare un sopralluogo all'interno del palazzo Mediceo, allora sede comunale, per vedere l'ufficio in cui era stato collocata e quindi studiare un piano per sottrarla all'Anninistrazione comunale seravezzina.

Ne parlò al componente della banda partigiana Oscar Dal Porto, insieme al quale aveva svolto il servizio militare a Pisa. I due convennero che era necessario accedere all'interno del comune per vedere dove veniva tenuto questo desiderato ciclostile. Quando si presentarono a Bonci Primo, dipendente comunale che con la sua famiglia occupava un appartamento al piano terra del palazzo Mediceo, dissero che desideravano soltanto sapere se erano arrivati certi documenti. Il Bonci li fece entrare proprio nel locale dove videro subito quello che cercavano. Dopo aver guardato su alcune scrivanie e scaffali il Bonci informò i due uomini che i documenti da essi cercati non erano ancora arrivati. Comunque questa scusa aveva funzionato aldilà di ogni aspettativa. Non c'era più alcuna necessità per trattenersi nel palazzo comunale. Alfieri Tessa e il Dal Porto ringraziarono il Bonci e lasciarono il Comune riuscendo, di nascosto, a sottrarre la chiave della serratura della porta di accesso all'ufficio in cui erano entrati.

L'esito di questi accertamenti fu comunicato a Gino Lombardi che subito stabilì che l'azione dei partigiani per portare via dal omune il ciclostile doveva iniziare alle ore 18 del 6 dicembre 1943 con la partecipazione del comandante Lombardi. Alfieri Tessa, che conosceva gente e l'ambiente di Seravezza doveva rimanere di vigilanza all'esterno.del palazzo, nel tratto di strada che dal centro cittadino passava e tuttora passa davanti al palazzo Mediceo. Luigi Mulargia che era stato attendente di Gino Lombardi durante il servizio militare prestato a Pisa S.Giusto, doveva osservare il tratto inverso della via che dal ponte della Scolina,passa sempre al lato del palazzo Mediceo nel quale dovevano entrare soltanto Gino Lombardi, Oscar Dal Porto e Piero Consani. Alle ore 17,30 del 6 dicembre, tutti i suddetti partigiani si ritrovarono presso il bar della Scolina pronti all'azione studiata e preparata con cura. Appena entrarono nel municipio, rinchiusero il Bonci nell'appartamento da lui abitato. Oscar Dal Porto accompagnò Gino Lombardi nell'ufficio dove veniva tenuto il ciclostile, mentre il Consani rimase di guardia al portone d'ingresso del palazzo comunale, tenuto socchiuso.
Lombardi e Dal Porto strapparono subito i fili telefonici e presero il ciclostile che immediatamente fu portato fuori dal portone che fu aperto dal Consani appena questi udì il rumore dei passi di Gino Lombardi e di Oscar Dal Porto mentre scendevano le scale. In un baleno il ciclostile fu caricato su un carretto coperto con un telo, poi tutti e cinque ritornarono presso la vicina segheria dismessa che c'era nelle vicinanze del Palazzo, al lato della via che conduce sui paesi dell'Alta Versilia, dove furono restituite a Gino Lombardi le armi che aveva dato ai suoi uomini prima dell'inizio dell'azione Dopo lo scambio di saluti con un patto che avrebbe legato i cinque partigiani nella buona e nella cattiva sorte, assumendo sempre comportamenti onesti e pieni di rispetto reciproco, ognuno fece ritorno, sotto una leggera pioggerella, alle loro abitazioni. Gino Lombardi col carretto gommato, sul quale oltre al ciclostile aveva messo anche le armi, attaccato dietro la sua bicicletta, accompagnato soltanto dal buio della notte,pedalò in direzione di Ruosina dove abitava.
Devo dire che non avrei mai pensato che a questa temeraria impresa, visti i tempi difficili in cui nel 1943 si viveva in Italia, avesse partecipato anche Oscar Dal Porto che, in quell'epoca, fu mio professore di matematica all' Avviamento di Seravezza.

Concludo rivolgendo un pensiero commosso a Gino Lombardi,fondatore della formazione partigiana chiamata “I Cacciatori delle Apuane”, fucilato a Sarzana il 21.4.1944; a Piero Consani, amico di Gino Lombardi e vice comandante della succitata banda armata, fucilato a Sarzana, dove fu lungamente torturato, il 4 maggio 1944; a Mulargia Luigi che fu ucciso, sempre nel mese di aprile 1944, sul monte Gabberi, durante uno scontro a fuoco coi militi della G.N.R. e della X Flottiglia MAS, i quali, al corpo di questo giovane eroe, effettuarono orribili mutilazioni.Estendo il mio deferente pensiero a tutti i partigiani italiani che combatterono e furono uccisi o rimasero feriti, o deportati nei lager nazisti in Germania, durante la lotta intrapresa in ogni luogo per riconquistare la libertà.

Un grazie di cuore lo rivolgo a Alfieri Tessa, per il suo cristallino e valoroso comportamento tenuto nelle file partigiane.

Alfieri Tessa: il mio capitano

Invitato da Alfieri Tessa ad andare a trovarlo in occasione dell'incontro avvenuto durante i funerali del mio caro amico Primo Giorgi che furono celebrati il 27.4.2009 nella chiesa di Querceta, ho approfittato di una recente visita al cimitero di Seravezza, dove sono sepolti i miei genitori, per recarmi nella sua casa ubicata alla Colombaia, in mezzo ad un bel giardino pieno di fiori e di piante verdeggianti
Sin dagli ultimi Anni 30 quando ero un bimbo ho sempre ammirato Alfieri un po’ più grande di me, per averlo visto più volte intento a far volare dei modelli di aereo da lui costruiti che spiccavano il volo grazie al movimento dell’elica mossa dall’elastico attorcigliato di vecchie camere d’aria di biciclette, quando faceva le prove sulla piazza antistante il cimitero di Seravezza. Spettacolare fu il volo che il suo piccolo aereo fece alzandosi in aria dalla Mezzaluna. Purtroppo a causa delle limitate capacità sviluppate dalla carica della camera d’aria il volo fini presto, l’aereo precipitò fra i grossi pini esistenti sopra la casa della famiglia Landi, che allora esisteva vicina alla chiesa della Santissima Annunziata, fatta saltare in aria da operai della Todt, al comando di un sergente della Wehrmacht, insieme a tutte le case, aldilà del fiume, della Fucina e del Ponticello fino a quelle di Riomagno, durante la tragica estate del 1944.
Da quel volo del suo aereo lanciato dalla Mezzaluna non incontrai più Alfieri Tessa. Fu grande il piacere di rivederlo durante una conferenza sui “partigiani” che fu tenuta, negli anni 90 da uomini della resistenza, nel salone della Misericordia, nel tempo in cui era governata appassionatamente dall’indimenticato dottor Luigi Santini. A questa conferenza parteciparono sia il comandante dei partigiani di Massa Carrara del 1944/45 Pietro Del Giudice che altri noti elementi della resistenza apuana. Fu in quella occasione che gli ricordai di averlo sempre ammirato perché coi suoi piccoli aerei che faceva volare negli anni giovanili della sua vita mi fece davvero sognare. Nel 2008 quando Seravezza festeggiò alla grande il maestro Narciso Lega, mi sedetti nella sala del Cinema Teatro dei Costanti, appena ristrutturato, proprio su una poltroncina accanto alla sua. Si parlò delle cose belle e interessanti che faceva da “giovine”, ricco di talento. Anche suo padre Carlo fu un uomo geniale. Nel tirare sulla strada le “marmoline” che aveva raccolto nell’alveo del fiume Serra, ideò un congegno per far aprire il carrello carico che lui stesso tirava su con un filo di acciaio arrotolato ad un piccolo argano. Appena il carrello sbatteva, dopo aver oltrepassato il muretto, contro un ferro, il suo fondo di scatto di apriva, lasciando così cadere al margine della strada le marmoline che poi vendeva a un barrocciaio di Seravezza.
Ho provato una grande gioia nell'esaudire il suo desiderio. La sua casa è piena di quadri molto pregevoli da lui dipinti, uno dei quali è dell’antico rione del Ponticello,dove c'era anche la casa dei miei nonni materni, dove io nacqui, spazzato via dalla guerra e riapparso nel quadro come lo vidi sempre sin da quand’ero bambino. Oltre a bei quadri ha molti libri. Su uno scaffale, troneggia un calco in gesso di un aquila che posa gli artigli a terra dopo un volo forte e ardito nel cielo. Alfieri Tessa, uomo dall’aspetto fisico ancora gagliardo e ben portante l’età che ha, e con una voce incredibilmente rimasta giovane, mi ha letto il suo racconto dettagliato su come si svolse l’azione dei partigiani quando si impadronirono del ciclostile del comune di Seravezza, notizia che in quell'epoca appresi sui banchi di scuola. Ai preparativi di questa azione, voluta e organizzata dal comandante della formazione partigiana Cacciatori delle Apuane, s.tenente Gino Lombardi (medaglia d'oro al valore militare alla memoria) fu preponderante il ruolo che ebbe lo stesso Alfieri che poi partecipò anche personalmente all’impresa insieme allo stesso Gino Lombardi ed ai partigiani Mulargia Luigi, Pietro Consani e Oscar Dal Porto, quest’ultimo mio professore di matematica presso l’Avviamento di Seravezza. Poi mi ha parlato del calco in gesso dell’aquila esposta nel suo studio dove ne ha anche uno della sua testa raffigurante l’età giovanile. Tutto quanto mi ha ricordato, nel suo insieme, lo studio che aveva il compianto Danilo Silicani, dove teneva tante preziose opere frutto della sua arte, compresa anche una sua testa scolpita in marmo bianco, nonché libri e disegni a testimonianza della sua vasta ed elevata cultura, così come mi è apparsa essere anche quella di Alfieri Tessa.
Fu il Tessa a modellare il calco dell’aquila tenendo conto delle precise indicazioni fornitegli dalla signora Lombardi, un’opera che poi, fusa in bronzo, venne collocata sulla sommità del sacello, dove riposano i resti dei due figli Dino e Gino Lombardi. Alfieri realizzò il progetto di questa opera monumentale cimiteriale costruita interamente a spese della famiglia Lombardi. Particolare attenzione Alfieri Tessa la dedicò a modellare l’aquila voluta dalla madre dei fratelli Lombardi per onorare anche l’Arma aeronautica nella quale i suoi diletti figli avevano prestato servizio come ufficiali. Alfieri seppe cogliere l’attimo in cui il l’aquila posa i suoi artigli sul monumento funebre, mentre il suo occhi si posano sulle tombe sottostanti. La signora Lombardi rimase molto soddisfatta di questa opera frutto dell'ingegno di Alfieri Tessa.
Durante una notte mani sacrileghe e ignote divelsero e portarono via dal sacello questa bellissima opera di Alfieri; non so quando avvenne questo grave fatto. Se la giustizia degli uomini non riuscì a identificare e punire i colpevoli di questo incivile, vergognoso e ripugnante reato, sicuramente gli autori non sfuggiranno alla legge divina, quando la loro anima giungerà davanti a Dio. Grande fu il dispiacere che ebbe Alfieri Tessa per questo incredibile furto dell’aquila che aveva modellato con molta passione. L’opera, raffigurante il rapace, ricollocata al posto di quella rubata, è certamente diversa da quella che creò Alfieri Tessa. Credo che dalla tomba sia rimasta sconvolta anche la madre di Gino Lombardi.
A proposito delle sue pubblicazioni “In Versilia : agosto 1944 un mese maledetto" e “Il fucile legato con la corda”, quest’ultimo libro edito nel 2003, mi ha detto che tutto ciò che ha scritto è frutto dei suoi ricordi scritti col cuore e quindi in buona fede, senza aver mai pensato di alterare i fatti delle vicende vissute.
Quando mi accingo, al termine del nostro colloquio a salutare sua moglie per fare ritorno a casa, ella mi chiede, se avevo conosciuto negli anni della mia infanzia al Ponticello di Seravezza il Carducci e sua moglie Aurora che era una sua zia. Dopo un attimo di perplessità, in cui mi è venuto in mente un certo Carducci che camminava a fatica, sorreggendosi ad un bastone, e che andava sempre in giro con un calessino trainato da un cavallo, sul quale spesso anch’io salii stringendo nelle mie mani le briglie, mi sono ricordato dei coniugi legati da stretti vincoli di parentela con la moglie di Alfieri. Così,improvvisamente sono riapparsi davanti ai miei occhi le immagini di questa anziana coppia che vidi l’ultima volta nell’estate del 1944 quando camminavano abbracciati lungo le strade del Ponticello in direzione del centro di Seravezza, subito dopo l’esplosione dei proiettili di artiglieria che oltre alla segheria mandò in frantumi anche la loro casa. Furono alcuni operai della Todt ad azionare il detonatore al quale avevano attaccato i fili elettrici collegati ad ogni proiettile collocato alla base dei muri perimetrali della segheria.Dove sorgeva la loro casa rimase soltanto un cumulo di macerie. Ricordo il Carducci e la signora Aurora che distrutti e stravolti dal dolore, rossi in volto e con le lacrime agli occhi, ripetevano entrambi in continuazione queste parole: “ Non c’è più la nostra casina, non c’è più la nostra casina…”.

venerdì 3 dicembre 2010

La vita di Padre Eugenio Barsanti, raccontata dal maestro versiliese Giuseppe Folini, un libro per le scuole

Grazie a don Florio Giannini lessi per la prima volta all'inizio del 2004, il libro edito a cura della Casa Editrice “Il Dialogo” sulla vita di Padre Eugenio Barsanti in occasione del 150° anniversario della invenzione del motore a scoppio ideato dal filosofo, matematico e fisico pietrasantino, e dall'ingegnere fiorentino Felice Matteucci.
Si tratta della ristampa anastatica del libro scritto dal maestro versiliese Giuseppe Folini, che fu dato alle stampe da Salani in Firenze nella collezione “l'Ulivo” nel 1954, oramai introvabile nelle librerie.
Gioia e commozione, ecco cosa sentii nel mio cuore mentre leggevo le pagine di questo libro che mi donò don Florio, davvero un autentico capolavoro.
Più volte mi sgorgarono dagli occhi le lacrime, in primis nel rendermi conto dell'infinito e grande amore che sin da bambino Niccolino (nome con cui fu battezzato Padre Eugenio) nutriva per i suoi genitori.
Brillante negli studi compiuti con il massimo dei voti presso la scuoladegli Scolopi di Pietrasanta, Niccolino non voleva più continuare a studiare, sì desiderava lavorare per poter aiutare la sua famiglia.
Fu suo padre ad insistere perché continuasse gli studi, in modo che le mani del figlio non si riempissero di calli come le sue.
Il libro narra gli esperimenti e gli studi compiuti da solo e poi insieme all'ingegnere Felice Matteucci che contribuì alla realizzazione del motore che prese il nome Barsanti Matteucci.
Emergono le losche vicende del francese Stefano Leonir e dei tedeschi Otto e Langen che copiarono il brevetto Barsanti Matteucci, a dimostrazione della mancanza di scrupoli di questi uomini malvagi.
Quando l'officina Dawan di Seraing, cittadina distante otto km. Da Liegi, stava per produrre il motore in serie sotto la personale direzione di Padre Eugenio Barsanti, questi si ammalò improvvisamente di tifo che in pochi giorni lo strappò alla vita, tra il pianto di tutti i minatori iitaliani in Belgio.
Il 18 aprile 1864, a soli quarantatrè anni, per padre Eugenio Barsanti si aprì la porta del “Padre Celeste”.
Il 10 giugno 1864, Padre Geremia Barsottini, nella chiesa di Sant'Agostino degli Scolopi di Pietrasanta, davanti al feretro dell'illustre scomparso ed alla presenza di una folla enorme, pronunciò un 'eccezionale orazione funebre in cui pose in risalto la vita di Padre Eugenio Barsanti interamente dedicata a Dio, agli affetti dei suoi cari, all'insegnamento ai giovani dello scibile umano ed alla scienza per il progresso dell'Umanità.
Il libro parla anche del furto patito da Antonio Meucci (amico di Garibaldi esule in America) l'inventore del telefono, il quale morì povero, mentre Grahan Bell, che aveva copiato e sfruttato il brevetto del nostro connazionale , diventò ricco..
Dall'avvento del motore a scoppio migliorarono sensibilmente le condizioni di vita dell'uomo, un sogno che Padre Eugenio Barsanti aveva sempre nutrito nel suo cuore.
La lettura di questo libro fa poprio bene al cuore, specie nella nostra era in cui ragazzi violenti si sono macchiati del sangue dei genitori da loro barbaramente uccisi.
Dopo la lettura di quanto aveva scritto il maestro Folini, espressi il desiderio che per le sue pagine sestremamente educative, il suo libro entrasse in tutte le scuole.
Tramite “il Dialogo” segnalai questa mia proposta al ministro pro- tempore della Pubblica Istruzione, signora Letizia Moratti, nella speranza che trovasse un favorevole accoglimento che penso invece che non ci sia stato.

giovedì 2 dicembre 2010

La passione di Cristo – un film di Mel Gibson, altamente drammatico e pieno di scene di inaudita ferocia contro il Cristo Redentore.

Mel Gibson, con il suo film La Passione di Cristo, ha fatto vedere immagini crude e di una estrema violenza relative agli ultimi momenti della vita di Gesù, mentre viene deriso e colpito da pugni e calci, lapidato e frustrato a sangue e, infine, inchiodato sulla croce in mezzo a due ladroni, per volere di chi non credeva che lui fosse il Messia, il figlio di Dio sceso in Terra per la salvezza degli uomini dal peccato originale.
Si deve all'inserimento nella pellicola di alcuni “flah back”, relativi alla vita di Gesù, che ci è nota attraverso i Vangeli ed ai rapporti coi suoi apostoli, l'apparizione del Salvatore in tutta la sua immensa dolcezza.
Egli che aveva compiuto miracoli, ridando la vita ai morti e la luce agli occhi di chi era cieco, guarito paralitici, moltiplicato i pani e trasformato l'acqua in vino, fu considerato a conferma della cecità umana, un uomo falso e bestemmiatore, sia dagli uomini che dirigevano li affari pubblici e curavano l'amministrazione della giustizia, sia da una marea di gente incosciente e maòvagia.
Fu Caifa, il sommo sacerdote che presiedeva il Sinedrio, il supremo corpo politico e religioso ebraico che osò giudicare e proporre la morte di Gesù, chiedendo a Ponzio Pilato, il prefetto romano della Giudea, di infliggergli il supplizio della crocifissione, pena che di solito veniva comminata a persone condannate per i gravi delitti compiuti.
E il governatore Ponzio Pilato, che pur non ravvisava nel comportamento di Gesù alcuna violazione della legge, cedette alle pressioni del Sinedrio, forse perché temeva una sommossa di questa provincia che a stento sopportava la presenza romana, egli si rivelù un pavido che non seppe essere all'altezza della carica affidatagli.
Tentò, comunque, di salvargli la vita, infliggendo a Gesù la pena dolorosissima della fustigazione, alla cui esecuzione furono com andati alcuni soldati romani che, nel colpire il corpo di Gesù con verghe e flagelli di mostrarono un' inaudita ferocia.
Non fu sufficiente per il Sinedrio e per la folla impazzita questa punizione, per lasciarlo libero.
Crocifiggetelo! Crocifiggetelo!...” urlava Caifa.
Pilato non volle assumersi alcuna responsabilità diretta della morte di Gesù.
Davanti a tutti si lavò le mani.
Così prevalse la cattiveria degli uomini che usarono una violenza estrema ed uccisero senza pietà, il figlio di Dio che predicava soltanto l'amore, la carità ed il perdono.
Mi domando come Giuda abbia potuto tradire il Maestro per trenta monete di argento?
Si pentì è vero e per il rimorso che provò si impiccò ad un albero, macabra la vista del suo corpo penzoloni dalla pianta.
La visione di questa pellicola mi scosse fortemente.
Il volto di Gesù ridotto ad una maschera di sangue è un immagine davvero sconvolgente. La morte sulla croce e la risurrezione di Gesù segnò il ritorno alla grazia ed all'eterna salvezza di tutti gli uomini di buona volontà. Ecco il miracolo della Fede.
Satana il demonio, col viso d'angelo, ha sempre aleggiato in tutte le scene del male rappresentate nel film.
Nelle diverse pellicole cinematografiuche girate sulla crocifissione di Geù, mai avevo visto immagini così altamente crudeli.
Eccezionale è l'interpretazione di Gesù da parte dell'attore principale, è tale è anche quella degli altri attori.
Mentre Gesù sale sul Golgota con la croce sulle spalle, sullo sfondo appare la fantastica visione paesaggistica dei Sassi di Matera.
E' un film drammatico tutto da vedere.
La colonna sonora è stata doppiata sia in aramarico, la lingua che veniva parlata nella Giudea al tempo della vita di Gesù, sia in quella latina.
Dalle didascalie apposte sulla pellicola, si leggono le parole pronunciate dagli attori interpreti del film.
Mel Gbson, per questa sua opera, ha raccolto sia critiche aprioristiche che elogi.
Taluni hanno sostenuto che è un film antisemita, ma la parola “judacus” pronunciata in mezzo ai denti, chiaramente in senso dispregiativo, da un soldato romano a Simone Cireneo che aiutava Gesù a portare la Croce sul Golgota , ha dimostrato che così non è.
Per taluni critici critici il parlare dei romani è suonato falso, sì, troppo classico.
Sotto il profilo storico e filologico il rigore doveva essere il primo obiettivo del film.
L'aver messo Cicerone in bocca alla soldatesca romana indisciplinata e violenta, è stato considerato, da una parte della critica cinematografica, l'unico errore del film.
Ha fatto bene Mel Gibson a farci vedere come avvenne la morte di Gesù, il quale, dalle scene gikrate, appare in tutta la sua grandezza divina.
E' in questo quadro che trovo fulgide le parole da lui pronunciate sulla croce, prima di morire: “Padre, perdona loro, perchè non sanno quello che fanno”.



P.S. - Questo mio articolo che scrissi dopo aver visto il film girato da Mel Gibson, fu pubblicato sul mensile cattolico versiliese “il Dialogo”, del gennaio e febbraio 2005, fondato e diretto da don Florio Giannini. Le scene crudeli e violente richiamarono alla mia mente la spaventosa strage di S. Anna commessa il 12 agosto 1944 dalle criminali S.S naziste, tanto da farmi pensare che Gibson era, a mio parere, il registra che avrebbe dovuto girare un grande film su questa spaventosa strage di innocenti.In America so che leggono il mio blog stretti congiunti dell'Angelo Biondo, la ragazza martirizzata a Seravezza nel 1944. Se conoscessero persone interessate alla produzione di pellicole cinematografiche ad esse potrei spedire, tanto per farsene un'idea. un mio racconto sulla Strage di S. Anna senza nulla a pretendere. Alexandra, se mi legge mi faccia sapere cosa ne pensa? Grazie e cordiali saluti, Renato Sacchelli

mercoledì 1 dicembre 2010

Francesco Viti - La Poesia di un cavatore all'inizio del 1900

Francesco Viti, il primo in ordine di tempo, poeta e cavatore versiliese, autore anche dell'inno dedicato a San Giovanni , il Patrono di Riomagno, ci ha lasciato interessanti testimonianze scritte che riguardano, tra l'altro, anche le difficili condizioni di vita della gente dei monti intorno a Seravezza all'inizio del 1900.

Egli come il padre, lavorò sulla cava fin da ragazzo, perché, come si legge nella poesia Il Cavatore che scrisse nel 1902, “con il latte succhiai, cosa non lieta / la polvere dei marmi e cavatore divenni invece di venir poeta.

Sempre da questa poesia, forse la prima da lui scritta, nel giudicare “improba troppo e faticosa è l'arte dei cavator / che con disagio e pena/ di sua vita ogni fibra ed ogni parte / risente il peso di si ria catena” avverte la durezza del mestiere, che pure amava fino a divenire un esperto capocava, perché è ancora al buio si verificava “ che già marmore schegge in ogni parte / volano ai fieri colpi ch'egli mena”, e ne evidenzia. con in versi conclusivi, “Ed ahi sventura ed ahi crudel dolore / purtroppo spesso avviene che all'improvviso / un masso cade, lo colpisce e muore”, il dramma tragico che scaturiva dalle frequenti disgrazie che anche in quel tempo si verificavano.
E' dalla poesia intitolata I lamenti del popolo della frazione Cappella, scritta nel 1905, che appaiono durissime e di incredibile arretratezza le condizioni in cui viveva la comunità montana accennate in precedenza , sprovvista dei più elementari servizi di utilità generale.
Nonostante il fatto che da allora siano trascorsi ben 85 anni , alcune tematiche di fondamentale importanza per la vita dell'uomo, sono ancora attuali.
Francesco Viti desiderava pagare le tasse , anche se siano per noi si gravi / che non hanno più confronto / con quelle dei nostri avi.
Voleva però, e con piena ragione, che il denaro pubblico fosse speso bene come lo sarebbe stato se l'avessero destinato per la realizzazione di opere atte a migliorare la vita di tanta gente costretta ad abitare in luoghi isolati e impervi e Privi di levatrice e di medico / e bbian solo la luna per lampione / e mancaci una scuola / siamo tremila e certo / a chi non sa gli è strana / il medico non vedesi / un dì per settimana .
E ancora: Sappian di certe donne / che giunte a mal partito / avevan per levatrice il povero marito. / E perciò di lagnarci abbian nostre ragioni: nascer come agnelli morir come montoni.
Con questa poesia semplice, cruda ma vera, Francesco Viti 85 anni fa ebbe il coraggio di porre sotto accusa l'inefficienza di una amministrazione comunale che si disinteressò completamente dei diritti e dei bisogni essenziali della comunità montana.
A me sembra anche essere un documento storico da conservare con cura in quanto descrittivo di una vita troppo sofferta da molti versiliesi vissuti in quell'epoca.
Nella lettera, in versi poetici, che da Filettole nel marzo del 1908 inviò alla moglie, Francesco Viti nel descrivere quella località della valle del Serchio dove per un certo periodo di tempo diresse una cava di marmo rosso che fu utilizzato per la costruzione del palazzo della Borsa di Genova, dopo aver manifestato anche il suo apprezzamento per gli abitanti ricchi di fede cristiana, ribadisce la sua fedeltà coniugale, Se mi dovrò molto trattenere / sposa stai certa che ci porto il letto, un comportamento che da sempre accresce l'amore e mantiene unita una coppia.
Divertenti i versi con i quali ordinò al titolare di una nota ditta milanese una mezza dozzina di bottiglie di un liquore, ancora oggi in commercio che “ Bevo ogni giorno / ed ora son docile / come un agnello / dice mia moglie a questo e quello”.
Aveva assaporato il liquore una sera a Seravezza, mentre si accingeva a fare ritorno a casa, consigliato dal droghiere Benti al quale il Viti disse di avere dei disturbi allo stomaco. Sentitosi meglio, il Viti inviò la singolare richiesta in ordine alla quale ricevette gratis un'intera cassetta di tale prodotto che aveva proprietà digestive, particolare questo che fece scrivere un'altra poesia di ringraziamento: Io quando ordino, lo tenga a mente / che non le voglio così per niente.
Nella circostanza assicurò che i liquore l'avrebbe fatto bere anche ai suoi operai.
Essendo da molti anni capocava / ancor non ho pensato ai miei operai / che faticano molto / E' gente brava / ma bevon ponci e vino e spesso assai / per l'ubriachezza sono molto fiacchi / sì che il lavoro ne risente guai.
Nella poesia scritta nel 1912 perchè il figlio Pasquale la leggesse durante il viaggio di trasferimento in Tripolitania dove partecipò alla guerra contro i Turchi, Francesco Viti dimostrò di avere altissimo il senso del dovere e della disciplina, esortando il suo ragazzo a non badare alla fatica, ad obbedire agli ordini dei superiori di qualsiasi grado ed a sparar bene e spesso.
Ed è davvero bello che questo linguaggio sia sgorgato dal cuore di un uomo impegnato in lavori durisssimi sulla cava per ben 12 ore al giorno, dove in una quindicina venivano riquadrati circa 100 tonnellate di blocchi di marmo, come scrisse in calce ad una poesia iniviata ad un suo amico il 14 luglio 1908. una fatica immane che tuttavia non gli impedì, nel tempo libero, di stringere fra le dita della callosa mano la penna per scrivere quanto gli dettava la sua anima di poeta.
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Nella sua poesia non si abbandonò alla contemplazione delle bellezze della natura coi suoi fiori, colori e paesaggi incantevoli bagnati dal mare che in Versilia sono costantemete sotto gli occhi di tutti, ma pose attenzione e concentrò la sua creatività poetica soltanto sugli aspetti della vita semplice, vissuta tra molte sofferenze, da gente umile e forte che con il suo comportamento nobilitò ancora di più ls nostra terra.

Renato Sacchelli

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Questo mio articolo fu pubblicato da “Il Dialogo” sul Numero di Settembre 1990, pag.7.
Quando nel dicembre del 2002, il direttore del mensile Don Florio Giannini, fece stampare il libretto delle poesie del cavatore Francesco Viti, intitolato “Polvere di Marmo”, di seguito alla sua presentazione di questi scritti inserì anche quanto avevo scritto in merito dodici anni prima. .