sabato 16 novembre 2013

Mansueto Biagi, un Versilese nato povero

Presentazione del libro "Un Versilese nato povero. I ricordi dei miei primi quarantacinque anni"

Come sta Mansueto? Ecco cosa chiesi ai miei cognati Anna e Giuliano, quando un giorno, di tanti anni fa, andai a trovarli nella loro casa di Vittoria Apuana. “ Sta bene, è di là in camera, si è messo a scrivere le sue memorie...”. Rimasi piacevolmente sorpreso nell'apprendere tale notizia che subito mi indusse a pensare all'impegno che quest'uomo di oltre novant'anni poneva nello scavare e riportare alla luce della memoria i fatti che più lo avevano colpito durante la sua lunga vita. Quando Mansueto mi fece vedere ciò che aveva scritto sui fogli di un quaderno compresi quanto di straordinariamente bello e drammatico aveva raccontato , descrivendo l'estrema povertà in cui aveva vissuto per molti anni; e le sofferenze patite durante l'ultima guerra, soprattutto nel periodo tragico dello sfollamento del 1944- 45 ; per questo lo incoraggiai a continuare. E cosi che é arrivato a parlarci della vita vissuta nell' arco dei suoi primi quarantacinque anni. Arrivato a quel periodo non é stato più in grado di continuare a scrivere poiché le energie non l'hanno più sorretto come si rileva dalla sua stentata calligrafia. E toccato a me,come gli avevo promesso, il compito di elaborare questo libretto, traducendo fedelmente il manoscritto che mi consegnò nel mese di agosto del 2002.

Mansueto fu costretto a ripetere la prima e la seconda elementare, non andò oltre, poiché le istituzioni scolastiche non gli diedero alcun supporto e la sua famiglia non era in grado di aiutarlo; vista anche la condizione di analfabetismo di entrambi i genitori.Nonostante i negativi risultati scolastici, nella sua vita rivelò una viva intelligenza. Era felice quando consegnava tutti i soldi che guadagnava alla madre, che ne aveva bisogno per pagare la spesa alla bottega, vista la precarietà del lavoro svolto dal marito. Da giovanissimo riuscì a comprarsi una bicicletta da corsa pagandola ratealmente, due lire ogni volta che riscuoteva la quindicina per il suo lavoro svolto sulla cava. L'essere riuscito ad acquistare quello che per anni era stato l'oggetto dei suoi desideri lo inorgoglì molto , tanto da indurllo a pensare che “ essere poveri non conta nulla, basta godere di una buona stima da parte degli altri. E' questa la vera ricchezza dell'uomo”. Ciò che è riuscito a trasmetterci Mansueto coi suoi ricordi ci rappresenta uno spaccato della storia di tanta gente della Versilia , che visse in condizioni di estrema povertà.

Egli, ascoltando la voce del suo Angelo custode, ha trovato sempre la forza e il coraggio per andare avanti, senza mai arrendersi di fronte alle numerose avversità che ha incontrato durante il cammino della sua lunga esistenza.
                                                                     
Forte dei Marmi, Novembre 2002


giovedì 14 novembre 2013

I Cavatori del Ponticello

Neppur quando pioveva
i cavatori di Seravezza
a casa rimanevan. Con l'ombrello cerato
camminavan sotto la pioggia
col passo chiodato.
Sulle montagne scavate
arrivavan con altri di Riomagmo
del Monte di Ripa e del piano
che, secondo dove andavano
dal Ponticello transitavano
per raggiungere il Trambiserra
la Costa o la Cappella;
qualcuno fino alla Tacca
dell'Altissimo saliva.
Chi prima passava
i compagni in attesa chiamava:
Gori, Tabarrani, Lorenzi-
i due Bandelloni, l'uno Garibaldo
e l'altro detto Fortino – Santi
e Speroni : Andiamo!
Seppur molto bagnati, speravan sempre
che il tempo si calmasse,
che ritornasse il sole,
per non perdere la paga,
necessaria per comprare il pane.
E quando, finalmente,
il cielo si rasserenava,
la vita sulla cava continuava,
copioso dalla loro fronte
il sudore colava,
ed io dopo tantissimi anni,
li ricordo così
ora che son tutti morti.


mercoledì 13 novembre 2013

Silvano Alessandrini – biografia

Silvano Alessandrini, secondogenito figlio di Garibaldo (poeta insigne della Versilia) e di Elena Tonetti, nasce al Borgo dei Terrinchesi, frazione della piana del comune di Seravezza, il 6 maggio 1920. Interrotti gli studi è chiamato alla armi il 1° aprile 1940 e viene aggregato al 5° Reggimento di fanteria a Rieti. Su sua domanda ottiene l'assegnazione al Corpo degli alpini che lo prende in forza al 4° Reggimento Alpini di Aosta, per poi passare al 6° Reggimento Alpini Divisione Tridentina. Non ancora in zona di guerra nel novembre 1940, fruisce una licenza per esami durante la quale consegue il diploma di maestro elementare presso l'Istituto magistrale “Giovanni Pascoli” di Massa. Sulla fine dello stesso mese, gli viene notificato l'ordine di mobilitazione e viene avviato sul fronte Greco Albanese. A causa dell'assoluta inadeguatezza del vestiario, degli scarponi e dei calzettoni a disposizione, nella zona del lago Pogradec, una schiera di alpini sono colpiti dal congelamento degli arti inferiori. Molti suoi compagni morirono. Silvano ed altri commilitoni riuscirono a cavarsela. Putroppo i postumi del congelamento per Silvano furono molto seri , per evitare una gangrena all'arto inferiore sinistro, gli fu amputata la gamba, all'altezza della parte bassa del terzo medio. Il 25 ottobre 1941, ormai in congedo assoluto, si sposa a Viareggio con Veronica Barghetti e da allora inizia il suo insegnamento presso le scuole elementari di Querceta, Marzocchino e del Frasso.Terminerà nel 1975 dopo aver seduto dietro tantissime cattedre della Versilia, l'ultima della quale fu quella della scuola elementare di Strettoia.
Nel 1958 iniziò la sua collaborazione, assumendone poi anche la direzione, del festival “il Miccio canterino”
E molto prolifico per il festival del “Miccio canterino” scrisse 22 pezzi che io definisco bellissime scenette teatrali in dialetto versiliese. Nel contempo, sotto pseudonimo, scrisse 26 romanzi gialli, editi, i primi tre, dalla Tribuna Edizioni Piacenza, e, gli altri, dalla EPI Edizioni periodiche italiane di Roma.
Concludo con quanto scrisse nella parte finale della sua prefazione, il professore Danilo Orlandi, nel presentare il libro di Silvano “ La scartocciata” che ho nello scaffale dei miei libri, che fa riferimento al teatro popolare breve e rime sparse, e riporta anche divertenti bei racconti dell'Alessandrini e la poesia Un orto grande: “ Silvano con lavori di teatro, di narrativa e in versi per anni ha compiuto un'opera che già può dirsi di recupero, e fissa in documenti letterali il mondo autentico di una Versilia, di cui fra poco gli echi saranno spenti. Ferma infine un fatto linguistico, tramandando la parlata versiliese nella sua effettiva entità di discorso organico, cioè di reale linguaggio. La sua fatica, per questo verso è unica e meritoria. Per onorarne la sua memoria da anni è stato istituito in Versilia, dei quattro comuni storici, il premio di poesia dialettale, intestato, al suo nome.
Renato Sacchelli
IL MULO BRUNETTO


Amo ancora parlare del mulo, questo animale ibrido e infecondo, nato dall'unione di un asino e di una cavalla, sin dai tempi più antichi utilizzato dall'uomo per trasportare materiali e viveri nelle località montane, raggiungibili percorrendo, soltanto, difficili sentieri. Molto vigoroso, ha esigenze alimentari qualitativamente modeste. E' un simbolo di testardaggine e ostinazione. Con la costituzione del Corpo degli alpini avvenuta nel 1872, questo animale si rivelò un veicolo a motore a quattro zampe e fu impiegato nelle attività operative dagli alpini, in particolare durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, trasportando sulle impervie trincee, scavate fin sulle più alte vette alpine, dove si erano trincerati i nostri soldati, armi, munizioni e viveri. I muli furono impiegati anche durante la sanguinosa guerra combattuta in Russia per assicurare i necessari rifornimenti ai nostri soldati, operanti nelle zone dove furono combattute aspre battaglie.
Giorgio Giannelli sul libro “La Versilia ha vinto la guerra” oltre alle tante pagine di eroico valore scritte col sangue da tutti i nostri soldati che combatterono su ogni fronte, ha narrato anche il racconto che ci ha lasciato l' alpino Silvano Alessandrini, famoso scrittore e poeta dialettale versiliese, che fu schierato col suo reggimento sul fronte greco-albanese. Silvano racconta quel giorno che stava seduto su un muretto con un piede congelato. Teneva una coperta ripiegata sul suo corpo e le scarpe slacciate. Mentre si palpava i fori sotto i calzettoni di lana, udì una voce inconfondibile che gli fece alzare il capo. Vicino a lui, sul muricciolo di pietre, erano stati messi zaini affardellati. Accanto a quelli deposti sull'erba ricoperta dalla neve stavano seduti una decina di alpini che mangiavano delle gallette. Tra loro c' era un alpino che indossava il grado di tenente. L'ufficiale portava sulla testa il cappello nuovo di zecca con penna a 85 gradi. Lo sguardo del tenente fissato sulle montagne innevate si abbassò per un attimo su Silvano, poi si voltò per impartire ordini ai suoi soldati. Proprio in quel momento Silvano instintivamente lo chiamò ad alta voce: “O Tito!”. Il tenente, che stava un quindicina di metri di distanza, si volse di scatto e lo fissò. Quella voce l'aveva impietrito, perché l'accento gli risultava, familiare,  ma l'aspetto molto malconcio dell'alpino non gli aveva consentito di riconoscerlo. Silvano invece lo riconobbe. Chi gli stava di fronte era Tito Salvatori, di Strettoia (Pietrasanta).
“Chi sei?”, gli chiese il tenente dopo un attimo, senza muoversi, fissandolo intensamente. Silvano non gli rispose. Allora l'ufficiale , facendo alcuni passi, si mosse lentamente verso di lui.
“Chi sei, per Dio!”, esclamò con foga il tenente. “Sono Silvano. Silvano Alessandrini”. L'abbraccio che seguì fu forte, lungo e molto commovente. Entrambi rimasero abbracciati per un po' di tempo con le lacrime agli occhi. “Tu in questo stato... disse balbettando Tito. Poi tirò fuori dalle tasche un pacchetto di sigarette che donò a Silvano, rammaricandosi di non avere altre cose da offrirgli. Tito accompagnò Silvano, sorreggendolo, in una stanza sotto una casupola di bianche pietre dove c'era della paglia, poi uscì per andare a trovare qualcosa, mentre lui rimase in attesa del suo ritorno sdraiandosi sulla paglia. Tito ritornò poco dopo con alcune pagnotte.“Non ho trovato altro” gli disse, e aggiunse: “Se è vero che che l'argent fa la guerra, per Dio, noi non vinceremo”. Infine lo aiutò ad uscire da quella stanza in penombra perché voleva fotografarlo. Ci riuscì un po' malamente perché le mani di Tito ancora tremavano. Fu quella foto l'unico ricordo della travagliata guerra combattuta dall' alpino Silvano Alessandrini, che lui conservò sempre nel portafoglio finché visse.
Dopo aver scattato la fototografia Tito disse a Silvano che doveva allontanarsi per raggiungere il comando del reggimento, dove era passato anche Silvano, assicurandogli che al suo ritorno gli avrebbe portato qualcosa. Ma Silvano non lo rivide più.
Un'ora più tardi, sul calar della sera, Silvano sentì il passo di un mulo vicino alla porta e udì una voce che disse: “Caporale andiamo!”. L'Alessandrini si alzò. Essere rimasto disteso sulla paglia aveva riacutizzato i dolori ai piedi. Incespicò nel fare i primi passi, motivo per cui fu sorretto da mani robuste che lo afferrarono sotto le ascelle e lo issarono in groppa al mulo. Gli “sconci” (conduttori dei muli) che avevano condotto fin lassù i gli animali carichi di pagnotte, si apprestarono a ridiscendere il monte con Silvano in groppa ad uno di essi. “Tu - disse a Silvano l'uomo che teneva l'animale alla cavezza, - se vedi l'animale che ti disarcia digli: 'Brunetto', intesi? Lui è il più coglione della batteria, ma è intelligente”. Silvano capì le parole dello sconcio quando la colonna dei muli si incamminò giù nei passaggi più difficili, esponendo i suoi piedi al rischio di uno sfregamento quando la pancia del mulo sfiorava contro la roccia nei tratti più stretti dei passaggi sul ripido sentiero. Soltanto una volta sentì questo sfregamento, ma senza patire alcun dolore. Richiamò il mulo soltanto due volte. Fu così che notò che l'animale, dopo essere stato richiamato, rallentava il passo e procedeva più cautamente evitando di sfregare nelle rocce. “Bravo Brunetto”, diceva lo sconcio senza voltarsi, spostando solo il capo verso il muso del mulo.
Intanto era scesa la notte di luna piena. Attraversando la valle a mezza costa i muli camminarono ancora sui sentieri a strapiombo. Silvano si sentiva al sicuro in quanto il mulo poneva le zampe una davanti all'altra, tanto da sembrare che il mulo stesse danzando. Fu così che l'animale, evitò pericolosi sobbalzi non ponendo mai lo zoccolo in fallo.
Silvano sentiva il caldo del dorso del mulo sotto il suo deretano, e la flessione dei muscoli sui fianchi della bestia, che ogni talto accarezzava con la punta dei piedi.
Quando i muli arrivarono in una stretta valle la carovana si fermò. Dopo essere stato scaricato e trasportato in una vicina capanna, nella notte chiara il mulo raggiunse la distesa di un mare di erba dove, senza rispondere al saluto dell'alpino versiliese, Brunetto tuffò il muso per riempirsi la pancia.


Renato Sacchelli


P. S. Silvano ricevette le prime cure in Albania. Rientrato in Italia fu curato a Roma, all'ospedale militare del Celio, dove gli furono amputati un piede e una gamba. Per gli interventi subiti fu degente anche all'ospedale Italo Balbo del Cinquale (Massa Carrara).









sabato 7 settembre 2013

Il mulo degli alpini

La lettura su "Stella Alpina" del breve racconto intitolato “Pierino Balocco...uno sconcio...”, tratto da “ Vita quotidiana durante la campagna di Russia” descritta dall'alpino Pasquale Grignaschi, mi ha fatto ripensare a come sarà morto nell'Unione Sovietica il fratello di mio padre, Guido (classe 1919), in forza al 4° Reggimento Artiglieria da Montagna – reparto munizioni e viveri – della divisione Cuneense, impiegato sul fronte russo a fianco dei soldati della Germania che in quel tempo erano nostri alleati.
La sua partenza per la Russia credo gli abbia impedito di vedere il bambino che la sua sposa, con la quale da poco tempo si era unito in matrimonio, aveva dato alla luce quando lui si trovava in quella gelida nazione, dove furono combattute sanguinose battaglie.
Ricordo che mio zio Guido fu dichiarato disperso in Russia. Probabilmente sarà caduto stremato dalla fatica nella steppa ghiacciata, oppure ucciso dal fuoco nemico.
Amo pensare che nell'emettere gli ultimi respiri abbia avuto accanto a lui il suo mulo col quale aveva condiviso fatiche e pericoli. Chissà se davvero siano morti insieme?
Se così fosse avvenuto mi pare bello pensare che mio zio, prima di chiudere gli occhi abbia accarezzato il muso e il collo dell'animale che certamente gli attenuò gli spasmi della morte. E, infine, ancora bello mi pare di pensare che appena la morte lo strappò alla vita, abbia, potuto udire le seguenti parole pronunciate dal nostro Dio misericordioso:Oggi sei in Paradiso!”.


mercoledì 4 settembre 2013

Ricordo del Generale di Corpo d'Armata Arturo Dell'Isola

Un uomo profondamente colto e pieno di umanità

Ho appreso dalla rivista “Fiamme Gialle” la ferale notizia della morte del Generale di Corpo d'Armata Arturo Dell'Isola, avvenuta a Milano l'11 ottobre 2012. Non mi dilungherò sulle notizie relative alla sua eccezionale carriera militare (interamente trascorsa nel Corpo della Guardia di finanza, di cui fu anche vice Comandante dal 1° gennaio 1982 al 2 dicembre 1984) essendo già state compiutamente evidenziate dalla rivista dell'A.N.F.I., associazione della quale, dal 1985 al 1993, il generale di Corpo d'Armata dell'Isola fu Presidente Nazionale. Racconterò soltanto alcuni fatti rimasti scolpiti nel mio cuore nel periodo in cui prestavo servizio alla sede del Comando Gruppo di Salerno, comandato dall'allora Tenente colonnello Dell'Isola.

Quando lui arrivò a Salerno, proveniente dal Nucleo Regionale p.t. di Milano, ero addetto all'ufficio matricola. Mi aveva scelto ad assolvere questo servizio il precedente suo pari grado, Nicola Fiore, che fu collocato in congedo per raggiunti limiti di età. Sentendomi molto umile, quando fu disposta la mia assegnazione dalla Compagnia al superiore Comando, mi chiesi se sarei stato all'altezza. Per la trattazione delle numerose pratiche avevo frequenti colloqui coi comandanti del Gruppo, all'inizio con l'alto ufficiale Nicola Fiore e dopo col suo successore.

Una mattina il Tenente Colonnello Dell'Isola mi chiamò nel suo ufficio. Aveva davanti a sé, sulla scrivania, gli elenchi dei militari che contavano diversi anni di lunga permanenza al reparto cui erano in forza, motivo per cui il Comando Generale aveva disposto che fossero trasferiti in altri reparti. Questo provvedimento riguardò i finanzieri alla dipendenza di tutti i reparti della Guardia di finanza operanti nell'ambito del territorio nazionale.

Il nuovo Comandante del Gruppo, aveva posto la sua attenzione sulla richiesta prodotta da un graduato, che fu allegata all'elenco, con la quale chiedeva di non essere trasferito, avendo un figlio disabile e allettato, motivo per cui se avesse dovuto ottemperare all' ordine di trasferimento avrebbe dovuto farlo trasportare nelle nuova sede di servizio a bordo di una autoambulanza.

Il Tenente Colonnello Dell'Isola non solo comprese la difficile situazione a cui il militare sarebbe andato incontro, ma andò anche oltre in quanto pensò ai doveri che spettavano ai genitori per continare a curare ed assistere il loro discendente. Così mi disse di fare la richiesta al Fondo di Assistenza per i Finanzieri, perché gli concedesse un sussidio, cosa che feci subito.

Un' altra volta mi chiamò per parlare di una domanda di trasferimento presentata da un finanziere che avevo messo nella cartella della posta in partenza che lui avrebbe dovuto firmare. Il Comandante mi disse che ciò che avevo scritto nell'attergato (recante le osservazioni relative alla pratica) erano molto importanti per la definizione della stessa, anche se l'interessato nella sua domanda non aveva fatto menzione alle problematiche che avevo evidenziato. Ebbi la sensazione che Dell'Isola avesse molto apprezzato il mio scritto.

Non ho mai dimenticato quando mi convocò nel suo ufficio per la trattazione di una pratica riguardante l'esecuzione dei servizi di istituto demandati ai reparti dipendenti. Cercai di documentarmi bene sulla materia leggendo accuratamente la bozza di stampa 1959 Appena la vide, mi disse “l'ho scritta io nel periodo in cui prestai servizio al Comando Generale”. La pratica fu definita secondo le sue precise direttive in linea con quanto stabilito dalla bozza di stanpa succitata. Capii in quel modo, che la sua preparazione era ai massimi livelli. In quella come in altre occasioni rimasi molto contento di avere un comandante con un'enorme cultura, che trapelava con naturalezza, senza che lui ne facesse mai vanto. Non mi dilungo oltre anche se avrei ancora altre cose da dire per descrivere la sua figura di alto ufficiale molto amato da tutti i finanzieri che ebbe alla sua dipendenza.

Di grande spessore umano fu il discorso che il comandante Dell'Isola pronunciò in occasione della ricorrenza annuale della fondazione della Guardia di Finanza o forse durante la festa dedicata al nostro Patrono San Matteo , il cui busto veniva portato in processione lungo le strade del centro cittadino, fino all'androne della nostra caserma, dove veniva effettuava una breve sosta durante la quale il vescovo impartiva la sua benedizione.

Per merito del signor Comandante del Gruppo e degli uomini che facevano parte del mio ufficio, l'appuntato Renato Tiglio, reduce da un lager tedesco, e dai finanzieri scelti, Carmine Miglino, dattilografo che usava tutte le dita delle sue mani, e Innamorato, (se non ricordo male, di nome Francesco), esperto nella trattazione delle pratiche relative all' avanzamento di grado, credo di poter dire, senza alcuna presunzione, che l'ufficiò matricola cui ero addetto lavorò sempre al “meglio”.

A Salerno occupavo un appartamento di servizio le cui finestre si affacciavano sulla via Duomo, mentre quello occupato dal Comandante del Gruppo era ubicato all'ultimo piano. Agli alloggi di servizio si accedeva non dall'ingresso principale della caserma , ma anche dalla porta laterale, situata in via Mercanti se non ricordo male al N,77.  Proprio per questo ebbi modo di conoscere i familiari del Comandante, la sposa deceduta anni fa, e i due loro figli: il maschio, allora giovane studente universitario a Napoli che vedevo spesso e la femmina, una bimba che poteva avere dieci - dodici anni, che incontrai soltanto poche volte.

Quando in occasione delle ultime feste natalizie espressi, telefonicamente, le condoglianze alla figlia del defunto generale, dottoressa Maria Grazia, il cui numero avevo trovato grazie ad una ricerca fatta su internet, seppi che suo padre aveva sofferto molto prima di morire a causa della malattia che lo aveva colpito.
Le chiesi notizie del fratello, così appresi che era deceduto due anni prima della morte del padre. A conclusione della telefonata le dissi che il ricordo del Generale era rimasto vivo nel mio cuore, e le ribadii che per me suo padre era stato e restava un mito.

Mi piace pensare che l'anima del Generale di Corpo d'Armata Arturo Dell'Isola viva in eterno nella Casa del Nostro Padre Celeste, dove ha raggiunto le anime della sua sposa, del figlio, di tutti i suoi cari e dell'infinita schiera dei finanzieri defunti che furono sotto il suo comando.



sabato 24 agosto 2013

Ricordo dell''Alpino Caporal Maggiore Ferdinando Tabarrani

Ricordo dell'alpino caporal maggiore Ferdinando Tabarrani

Mi ha commosso l'articolo “Una lapide a ricordo dei cinque Alpini caduti nella Campagna di Russia, pubblicato sulla rivista Stella Alpina del dicembre 2012, scritto dal direttore Florio Binelli. Mi ha commosso perché uno di questi alpini, il Caporal Maggiore Ferdinando Tabarrani,  l'avevo conosciuto anch'io quando la sua famiglia venne ad abitare in una casa vicina alla mia, al Ponticello di Seravezza.
Allora ero un ragazzo già grandicello, mentre lui era era un giovanotto atletico e molto forte. Giocava al calcio nella squadra di  Seravezza,  aveva classe e, in mezzo al campo sprizzava tutta la sua potenza fisica. Non ricordo di avere mai parlato con lui. Ho conosciuto i suoi genitori. Il babbo Beppe, forte cavatore, la mamma Germana e le sue due sorelle l'Angiò che mi cuci il vestito con cui passai la prima Comunione e l'altra, di cui non ricordo il nome, che andò in sposa ad un uomo di Ripa. La Germana ed una sua parente facevano i materassi di lana e di vegetale. Le modeste somme che esse guadagnavano, migliorarono un pò  le condizioni di vita delle loro famiglie.  Dopo la nascita del figlio di Ferdinando, chiamato Paolo, dato alla luce dalla sua sposa, la molto bella e giovane Maddalena Rosssi, prima che suo marito partisse per combattere in Russia, partenza che un effetti avvenne nel mese di luglio del 1942. La Germana un giorno mi chiese   di portare una bottiglia di latte a casa della nuora, abitante in Torcicoda. Si , le risposi. Quando entrai nel suo appartamento, vidi dalla   porta della camera lasciata aperta,  Ferdinando che stava disteso sul letto accanto al suo neonato.  Gli parlava facendo dei gesti con le mani, si  gli stava faendo molti “crecchi”.
Ho rilevato dal libro di Giorgio Giannelli “La Versilia rivendica l'impero” che il Tabarrani é menzionato fra gli alpini versiliesi che fecero ritorno a casa dopo aver partecipato all' impresa africana che si concluse con la conquista dell' Etiopia (1935/36). Un altro volume, sempre scritto dal Giannelli intitolato “ Sant'Anna, l'infamia continua” riporta il lungo elenco dei soldati dei quattro comuni storici della Versilia, oltre a quelli di Camaiore, Massarosa e Viareggio, morti o dispersi durante la seconda guerra mondiale, tra i quali figura anche il Tabarrani ucciso sul fronte russo il 31 gennaio 1943.
I cinque alpini ricordati nella lapide murata sulla facciata di una casa dell' antico rione di Torcicoda di Seravezza, erano in forza alla divisione Cuneense, di cui fece parte anche il fratello di mio padre Guido Sacchelli (classe 1919), avviato in Russia col suo reparto che con l' impiego dei muli, doveva rifornire di munizioni e viveri gli alpini schierati lungo la gelida linea del fronte.
A lungo mi sono chiesto se sulla sponda del Don, Ferdinando, mio zio ed altri alpini versiliesi ebbero 
 l' occasione di conoscersi e parlare fra loro della terra dove erano nati nella quale avevano lasciato le loro spose, i figli appena nati , i genitori e tutti i loro cari che purtroppo non rividero più.
Mi fa piacere ricordare anche la maestra Ilva Angelini mia coetania che fu la prima persona di Seravezza a cui venne in mente di collocare una lapide in Torcicoda , a perenne memoria dei nostri alpini morti in Russia. Ne parlò a tavola con tutti i suoi cari , tra i quali c 'era anche Pier Luigi Marrai, uomo di grande valore, prematuramente scomparso nello scorso anno, che sposò in pieno l' idea della sua cognata, dandosi subito da fare per realizzarla. Amo ricordare Pier Luigi quando sul finire degli Anni 30 e all'inizio dei quaranta, insieme ai suoi genitori veniva al Ponticello a trovare il nonno materno, Giuseppe Bussoli e la laboriosa ed instancabile nonna Teodora Tessa, nativa di Riomagno. Nelle mie visite a Seravezza effettuate negli anni in cui non vi risiedevo più, Pier Luigi ed io vivemmo attimi di felicità quando ci incontravamo nelle vie della nostra Seravezza.
Ora che non c'è più fra noi, mi è di conforto sapere che la sua anima di uomo pio e giusto nonché di alpino aggregato è nel cielo Cielo nella casa del nostro Padre Celeste, insieme a quella di tutti i suoi cari defunti e di quelle della fitta schiera degli alpini valorosi caduti in tempo di guerra o scomparsi in tempo di pace.

lunedì 22 luglio 2013

CHE BELLA SORPRESA RIVEDERE SOLIDEA PAOLI A SERAVEZZA , DOPO 68 ANNI DALL' ULTIMA VOLTA CHE LA VIDI A PIETRASANTA

ll 25 aprile 2013,  nel salone Granducale di Seravezza è stata festeggiata la ricorrenza del 68° anniversario della liberazione dal nazifascismo  e, nel contempo;  é avvenuta la presentazione del libro  " La guerra di Claudio" voluto dalla Guardia di finanza  per onorare la memoria del finanziere scelto Claudio Sacchelli, morto di stenti e per le atroci sofferenze patite nel campo di sterminio nazista di Mauthausen il 5 aprile 1945.    
In particolare, puntualizzo, per i lettori che non conoscessero bene i fatti che  portarono alla cattura da parte dei nazisti ed all'imprigionamento di Claudio Sacchelli nel famigerato lager già innanzi citato,  che avvenne dopo  l'armistizio dell' 8 settembre 1943, quando lui era in forza alla brigata di frontiera  di Villa di Tirano -  distaccamento di Lughina -, dove aiutò ad espatriare in Svizzera trecento  cittadini di origine ebraica, ristretti  nella zona dell'Aprica che se non fossero espatriati sarebbero stati sterminati  nelle camere a gas o nei forni crematori impiantati dai nazisti nei loro famigerati lager.
Anche durante il 1944 favori l' espatrio di tanti altri  perseguitati di origine ebraica,  inoltre collaborò con la formazione partigiana operante  nell'alta Valtellina denominata Fiamme Verdi.
Per il suo eroismo il finanziere scelto Claudio Sacchelli il 24 aprile 2012 è stato decorato dal Presidente della Repubblica  Giorgio Napolitano della medaglia d'oro al merito civile alla memoria.
Nell'articolo che ho scritto su queste due commoventi cerimonie devo dire che  non ho parlato della sorpresa che ho avuto  quando sullo schermo della sala Granducale è stato proiettato il video riguardante la lotta partigiana combattuta dalle donne versiliesi.durante la resistenza, nel quale è apparsa l'immagine della signora Solidea Paoli , sorella di Amos, medaglia d'oro  al valor militare, trucidato dai tedeschi a Compignano del comune di Massarosa, nella tragica estate del 1944, per essersi rifiutato di fare i nomi dei partigiani seravezzini  e della zone viciniore, operanti sui nostri monti.  Confesso di avere avuto molta difficoltà a riconoscere la Solidea,  presente anche lei a  queste due cerimonie;  infatti l' ho vista seduta in una fila un pò più avanti della mia. Negli anni della mia infanzia ed adoloscenza, non ho mai parlato con la bimba Solidea che spesso transitava nelle vie  del Ponticello, le cui case erano vicine  a quella occupata dalla sua  famiglia a Riomagno, aldilà del fiume, sotto il monte Canala. Tutti gli edifici  a partire appunto da Riomagno, fino alla Fucina compresi i  paesi di Corvaia e  di Ripa fattti saltare in aria dagli operai della Todt  che utilizzarono proiettili di artiglieria  attaccati con  fili ad un detonatore.
La prima volta che scambiai con lei alcune parole fu quando, a guerra finita,  insieme ai miei compagni  Enrico Cioletti, e coi fratelli Mariani, nati nella Corvaia che non esisteva più, si andò a bere qualcosa di fresco nel  bar gestito dalla famiglia Paoli a Pietrasanta in via di Mezzo. Non ricordo se con noi ci fosse anche Vincenzo Cinquini. Si era nel tempo in cui mio padre fu riassunto dall'ingegnere Attilio Cerpelli per recuperare quei materiali che potevano essere ancora utilizzati nonostante siano  stati  per tanto tempo  sotto le macerie della sua officina, situata alla Centrale,  saltata in aria insieme al deposito dei mezzi della tranvia dell'alta Versilia, sempre ad opera degli operai della Todt che fortificarono l'estremo limite della Linea Gotica. 
Fu per questo motivo che la mia famiglia abbandonò il rifugio di  Capezzano Pianore, per andare ad abitare a Pietrasanta dove si adattò  a vivere, col consenso del proprietario, che era l'ingegner Cerpelli, nel  suo locale adibito a deposito sito in via dei Piastroni, vicino alla cantina vinicola della famiglia Palla. Ricordo quanto tribolò  la mia cara mamma quando metteva il paiolo  su un fornello traballante, sopra il fuoco acceso con della legna secca,  per prepararci qualcosa da mangiare.ed era costretta quando pioveva a dirotto, ad aprire l'ombrello per  ripararsi dalla pioggia che entrava dal tetto scoperchiato dalle cannonate tedesche. . .
Mi pare che fu Enrico che  propose di entrare nel  bar dei Paoli, quel giorno che  ci incontrammo nelle vicinanze del Duomo di Pietrasanta.
Quando entrammo nel locale la Solidea, ci accolse col suo bellissimo sorriso. Vidi che era molto bella.  Qualcuno dei miei compagni scambiò con lei alcune parole. Io, timidò da mori com' ero,  la guardai  in silenzio.  Bevvi una spuma o una gazzosa e da  quel lontano giorno non l'ho più rivista, ecco perchè non sono riuscito a riconoscerla il 25 aprile scorso.
Alcune parole le voglio dire sul nonno Raffaello, padre di Gino,  il babbo di Amos , della Solidea e di altri due figli maschi. Entrambi furono noti antifascisti. Su  Versilia Oggi di tanti anni fa, il seravezzino William Speroni con il quale ebbi sempre cordiali rapporti fin dai tempi in  la cui famiglia abitò al Ponticello di Seravezza prima di trasferirsi nella nuova casa che fece costruire nelle vicinanze dell'allora cinema dei Costanti,  ha raccontato che in una notte  del settembre 1924 la loro casa fu  attaccata  da 250 squadristi di Massa e di Carrara, I Paoli,  risposero al fuoco sparando sugli attaccanti molti   pallettoni, Non  si vollero arrendere. Dopo  qualche ora in piena notte i fascisti ripresero l'attacco scatenando una vera guerra, in cui i Paoli furono costretti a darsi alla fuga  sul monte sopra il Pelliccino ed il Colle, dove si nascosero per diversi giorni.
Concludo questo mio scritto col dire che al termine dei festeggiamenti svoltisi nella sala Granducale di Seravezza ho voluto salutare la Solidea.  Avvvicinatomi al posto dove  si era seduta, mi sono presentato, dopodichè le ho ricordato gli anni dell'infanzia e della nostra adoloscenza vissuta quando eravamo vicini di casa, Ho pensato che anche lei abbia avuto molte difficolta a riconoscermi  per il carico dei tanti anni che abbiamo entrambi sulle  spalle. Forse siamo della stessa età. Mi ha fatto molto piacere constatare  che ella era ancora una donna energica e con una mente molto lucida.ed attenta.  Voglio pensare  che ciò sia dipeso dal fatto che nonostante l'età e le atroci sofferenze patite a causa della barbara uccisione di suo fratello Amos, il suo cuore  è rimasto ancora giovane. Auguri, Solidea!
 Renato Sacchelli 

giovedì 6 giugno 2013

Seravezza STORIA DI RENATO sACCHELLI


La lettura dell’articolo “Il paese dell’anina” scritto dal professor Costantino Paolicchi e pubblicato sull’ultimo numero di Versilia Oggi, mi ha fatto rivedere la Seravezza degli anni della mia fanciullezza. Così la mia mente è ritornata a quando ero bambino e vivevo nella casa dei miei nonni materni dove nacqui il 25 settembre 1930. Ricordo che la mia mamma intorno al fuoco del camino raccontava, spesso a me e ai miei fratelli, fantastiche fole che ci facevano sognare, così come penso che era solito raccontarle anche il nonno di Enrico Pea, che sicuramente fu il primo maestro di vita del suo nipotino.

Nei miei occhi sono sono riapparse anche le immagini dell’immediato dopoguerra, con tutti i ponti fatti saltare in aria dai tedeschi insieme a molte abitazioni rase al suolo, fra le quali anche la mia casa. Seravezza fintanto che non fu insanguinata dalla guerra, fu popolata da uomini impegnati ogni giorno sulle cave, lungo le vie “della lizza”, nelle segherie, fonderie, officine e nelle falegnamerie e in tanti altri laboratori del marmo, tra i quali scolpivano anche bravissimi scultori. Ho rivisto il Caffè Centrale di Angelo Battelli, dotato di una voliera con pappagallo ed alcuni merli, ubicato nella piazza Carducci dietro il monumento ai Caduti ed anche innalzarzi nel cielo il grande pallone cartaceo, gonfiato sotto il calore dell’alcol acceso nella padella, che era solito far costruire lo stesso Battelli, noto animatore delle feste seravezzine. Un anno fece volare anche un asino di cartapesta dalla Mezzaluna vecchia fino alla piazza Carducci. 

E’ riapparsa nei miei occhi la criniera del Monte di Ripa, senza più neppure una pianta di pino né un arbusto, in quanto la cima, spazzata dalle cannonate e colpi di mortaio sparati dai tedeschi su quel terreno che fu la prima linea del fronte americano sotto il Castellaccio, pieno di trincee, cui si trincerarono i soldati americani, pareva che fosse stata arata, non c’ era rimasto un solo filo d’erba. Quel giorno che la percorsi, lassù, ad un tratto, respirai, un’aria maleodorante che proveniva da sotto una buca dove era stato sepolto, nei pressi di una trincea, un soldato americano ricoperto da poche palate di terra.

Era il lavoro che si svolgeva quotidianamente nella nostra terra che dava la vita alla gente, anche se era davvero tragico il faticare dei versiliesi e delle bestie da tiro dei carri carichi di grossi pezzi di marmo che venivano trasportati nelle segherie Nei pressi del Ponticello ho visto grossi carri provenienti dai poggi di caricamento del Trambiserra e della Desiata, tirati da più coppie di bovi i cui conducenti usavano la frusta per spronarli, tra urla e imprecazioni, perché producessero il massimo sforzo per tirare fuori i pezzi di marmo caricati sui carri impantanatisi nel fango alto della strada. Quando ero ragazzzo le vie del centro di Seravezza venivano sovente cosparse di ghiaia e il passaggio su esse dei carri e delle membrucche producevano molto polverone, tant’è che d’estate, per eliminarlo temporaneamente ci passava sopra un’autocisterna comunale che munita di un apposito annaffatoio vi lanciava forti getti di acqua.

All’inizio degli anni 40, nel tempo dedicato alla benedizione delle case, in cui svolgevo le mansioni di chierichetto, seguii  monsignor Angelo Riccomini , parroco di Seravezza, che benedì la casa di Teresa Pilli, la mamma di Dino Bigongiari, la donna più anziana del paese (mori a 106 anni). Era allettata e veniva continuamente assistita, notte e giorno, dalla mamma di Elena e di Vincenzo Tabarrani, noto calciatore del Seravezza. Negli anni 50 vidi uscire dalla casa dove abitava la vedova Bigongiari, un uomo che poi seppi che era suo figlio Dino, il professore che fece parte del corpo docente, dal 1904 al 1950, della Columbia University di New York. Durante la sua permanenza in America Dino Bigongiari ogni anno arava l’Atlantico, come lui era solito dire, per andare a trovare la sua mamma che non aveva mai voluto allontanarsi da Seravezza, facendosi anche accompagnare dalla donna che aveva spostato nel 1939, l’americana Gladis Van Brunt, che era stata una sua ex allieva.

Non è facile parlare del grande scrittore e poeta Enrico Pea nato nel 1881 a Seravezza e deceduto a Forte dei Marmi nel 1958. Lo incontrai nel 1950 una sola volta nelle strade di Seravezza vicino al Ponte della Passerella. Non sapevo chi fosse quell’uomo anziano davvero con una “barba da re biblico. ”Aveva il passo svelto, era in compagnia di un bel giovane, alto e coi capelli neri, forse era un suo nipote. Seppi da alcuni passanti che questo uomo era il famoso Enrico Pea. Non ho mai parlato con Enrico Pea, conosco soltanto le sue opere più famose da lui scritte che ho letto nel periodo più giovane della mia vita. Un mio amico che conobbi sin dall’asilo, che si chiamava Gianfranco Pea, scomparso qualche anno fa, mi disse ,nel tempo in cui andavamo entrambi a scuola, che Enrico Pea era  suo cugino.

Il professor Paolicchi ha evidenziato il seguente pensiero di Pietro Pancrazi , il quale nel collocare Enrico Pea fra gli scrittori d’eccezione ha asserito che costoro “scrivono come detta dentro e basta” Poi il Pancrazi si è domandato come il Pea abbia imparato l’arte? “Se fosse stata rivolta al Pea questa domanda, si sarebbero visti i suoi occhi rivolti al cielo per farci capire il suo riferimento alla Provvidenza." Ecco cosa pensò il Pancrazi in merito all’ attivita di scrittore svolta da Enrico Pea. Personalmente credo che scrivere in quel modo sia stato un dono datogli dal nostro Dio. Anch’io credo che la strada fu la sua scuola, Il primo suo maestro fu il nonno che con quanto raccontava al nipote gli accese la fantasia ad emularlo, tant’è che il suo primo libro che diede alla stampe fu proprio intitolato Fole, fattogli stampare da un editore di Pescara da Giuseppe Ungaretti, che Pea aveva conosciuto in Alessandra dì Egitto, e col quale fu legato da vincoli di fraterna amicizia. Penso che questa amicizia abbia spinto Enrico Pea a dedicarsi alla letteratura.

Enrico esercitò diverse attività: contadino , pastore, mozzo, meccanico, ferroviere , falegname e anche maggiante. In Egitto esercitò il commercio di marmi, di vini ed anche di castagne secche e di altri prodotti, ma non fu fortunato in questi commerci, forse non ci sapeva fare. Essendo stato un ammiratore di Enrico Pea accolsi con piacere l’idea che ebbe Enzo Silvestri, uomo sensibile e molto attaccato alla Versilia e in particolare a Seravezza che costituì un comitato cui aderìrono Giuseppe Tessa ed altri seravezzini che non cito perchè davvero non ho mai saputo chi fossero, per la raccolta di denaro per far scolpire il busto marmoreo di Enrico Pea che da anni si può ammirare in località Puntone di Seravezza, nel punto dove i due fiumi nei secoli trascorsi chiamati uno di Rimagno (ora Serra) e l’altro di Ruosina, (ora Vezza) si incontrano dando vita al fiume Versilia, per ricordare ai posteri che nella nostra terra era nato uno dei più bravi scrittori italiani contemporanei.

Mi fa piacere di avere contribuito, col pagamento, mi pare di ricordare,  di cinquantamila lire, alla realizzazione di questa opera, realizzata dallo scultore Enzo Pasquini, perché Enrico Pea sicuramente amò la sua Seravezza, nonostante abbia detto, “ Seravezza... il paese che m’ha negato il pane, ma che non rinnego né maledico”.


martedì 21 maggio 2013

25 aprile 2013 - presentato a Seravezza "La Guerra di Claudio"


Nel giorno della ricorrenza del 68° anniversario della liberazione dal nazifascimo, nelle scuderie Granducali di Seravezza è stato presentato il libro “La guerra di Claudio”, voluto dalla Guardia di Finanza in onore dell’eroe versiliese Finanziere scelto Claudio Sacchelli, decorato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria.

Un’ora prima circa dell’inizio della cerimonia svoltasi nel capoluogo seravezzino, a Querceta, al lato della porta d’ingresso della sezione A.N.F.I. di Seravezza-Versilia storica-, è stata scoperta una lapide attestante che lì aveva la sede la sezione dei finanzieri in congedo della Versilia storica, intitolata alla memoria del finanziere scelto Claudio Sacchelli, morto di stenti e di sevizie inaudite nel campo di sterminio nazista di Mauthausen (Austria) il 1° maggio 1945, cioè qualche giorno prima della liberazione del campo di sterminio effettuata da una colonna di carri armati dell’ undicesima Divisione corazzata americana. La lapide è stata scoperta dal nipote dell’eroe che porta lo stesso nome dello zio Claudio, affiancato dalla sua sposa e dal sindaco di Seravezza.

Subito dopo e stata collocata una corona di alloro al monumento ai Caduti, sito nella attigua piazza Pellegrini di Querceta.
Le cerimonie si sono svolte alla presenza delle autorità civili e militari: il sindaco di Seravezza, Ettore Neri, quello di Forte dei Marmi, Umberto Buratti, l’assessore al sociale, Pietro Lazzerini, in rappresentanza del sindaco di Pietrasanta, l’assessore alla cultura di Seravezza, Riccardo Biagi; Il vice comandante del gruppo della Guardia di Finanza di Viareggio, tenente Raffaella Frassine, seguita da alcuni ufficiali e da altri sottufficiali del suo Gruppo; Moreno Costa presidente della sezione ANPI di Pietrasanta, Giovanni Cipollini presidente della sezione ANPI Gino Lombardi anch’essa con sede a Pietrasanta;finanziere Marco Mugnaini, consigliere nazionale A.N.F.I. della Toscana e presidente delle Fiamme Gialle Toscana - Associazione di Promozione sociale – No Profit con sede a Pisa; capitano Gerardo Severino direttore del Museo storico e coautore del libro in oggetto; maresciallo ord. Emiliano Stelluti responsabile della foto-cinetica del museo storico, esperto in video; finanzieri della sezione A.N.F.I. di Viareggio;l’onorevole Carlo Carli; il Commissario di P.S. e il Reggente della Delegazione di Spiaggia, entrambi operanti a Forte dei Marmi; ufficiali e militari dell’Arma dei Carabinieri; comandanti delle Stazioni dei carabinieri di Querceta, Seravezza e Forte dei Marmi; locali Associazioni Combattentistiche e d’Arma.
Tra i vessilli spiccava al vento il Gonfalone di Seravezza, decorato di medaglia d’argento al valore civile. Particolarmente commovente è stata la visione del labaro dei Martiri di Mulina di Stazzema, luogo dove iniziò il 12.8.1944 l’ orrenda strage di S. Anna di Stazzema.

Dopo la deposizione della corona d’alloro, tutti i presenti alla manifestazione hanno raggiunto la scuderia Granducale di Seravezza dove, davanti ad un numeroso pubblico che ha riempito la sala, sono stati proiettati tre video, due dei quali della resistenza in Versilia di cui hanno parlato, in video il partigiano Moreno Costa, e il professore Giovanni Cipollini.
Entrambi hanno sottolineato l’attiva partecipazione delle donne versiliesi a sostegno dei partigiani, nel recapitare i messaggi fra le diverse formazioni operanti sui nostri monti, nel preparare i cibi ed anche nella lotta armata. In un cruento scontro a fuoco rimase uccisa l’8 agosto 1944 a Mandria Focette, sopra Farnocchia, Cristina Lanzini, sposa di Alfredo Ardimanni residente a Tolone. Da sottolineare la medaglia d’oro concessa alla partigiana viareggina Vera Vassalli, decorata di medaglia d’oro al valore militare, per l’impegno eroico profuso nella resistenza, arrivando ad oltrepassare il fronte per prendere contatto con gli alleati per organizzare i lanci degli armamenti destinati alle forze partigiane.

Il terzo video proiettato, molto bello e commovente, illustrava il libro “ La guerra di Claudio” per ricordare ai posteri l’eroico finanziere Claudio Sacchelli che nel 1944 era in forza al distaccamento di Lughina della brigata di frontiera di Villa di Tirano, dove Claudio fece fuggire in Svizzera circa 300 internati all’ Aprica di origine ebraica; una fuga voluta dal Vaticano e organizzata da don Giuseppe Carozzi che si avvalse dell’ aiuto del capitano Leonardo Marinelli, comandante della Compagnia di Madonna di Tirano. Successivamente Claudio favorì l’espatrio ad altri numerosi perseguitati di origine ebraica che riuscirono anch’essi a sottrarsi alla deportazione nei famigerati campi di sterminio nazisti. In quella zona Claudio si schierò con la Resistenza collaborando con la formazione partigiana Fiamme Verdi. Su tale video spicca la scritta “ La guerra di Claudio” - storia del finanziere Claudio Sacchelli, un angelo del bene contro l’odio razziale e la persecuzione nazista - 1913-1945.

Hanno pronunciato brevi e commoventi discorsi, il professore Giovanni Cipollini e i sindaci di Seravezza, Forte dei Marmi, e l’assessore di Pietrasanta. Dai loro interventi è emersa la profonda riconoscenza per le generazioni del passato che lottarono e morirono per fare ritornare la nostra Patria ad essere una nazione libera. Sono state dette anche parole di speranza per un avvenire migliore per tutta la nostra nazione. Con commozione hanno ricordato la figura dell’eroe Claudio Sacchelli, un angelo, che morì per avere salvato la vita ad un altissimo numero di creature innocenti.
Nella sua Cronaca Libera Giuseppe Vezzoni, poeta, scrittore e giornalista, ha scritto tra l’altro , che il finanziere Sacchelli “fu un uomo della resistenza che fece nascere la speranza per un’Italia che non c’è più”. Il libro “La guerra di Claudio” è stato scritto dal generale di C.A in congedo Luciano Luciani , presidente del Museo Storico e del comitato studi storici della Guardia di Finanza, e dal capitano Gerardo Severino, direttore del Museo Storico e capo di due Sezioni dell’Ufficio Storico della Guardia di finanza. Sento di doverli ringraziarli profondamente per l’impegno profuso nella realizzazione di questo importante volume.

Il capitano Gerardo Severino, oltre alla vita da giovane vissuta da Claudio nella bella terra di Versilia, ha illustrato i trascorsi giovanili del Sacchelli nella Guardia di Finanza ricordando i luoghi dove prestò servizio lungo il confine italo – svizzero, distinguendosi nei servizi da lui eseguiti insieme ai suoi commilitoni, per la repressione del contrabbando, come risulta dalle fotografie delle bricolle sequestrate, scattate da Claudio che amava la fotografia. Mi sono commosso nel rivedere quei luoghi dove anch’io negli Anni 50 prestai servizio. Severino ha accennato anche al periodo in cui la madre di Claudio portò con sé il piccolo figlio in America per conoscere il padre Garibaldo, il quale non aveva mai visto il suo primogenito che venne alla luce quando lui era emigrato alla ricerca di migliori condizioni di vita, nel nuovo continente. In America, nel 1920, nacque il fratello di Claudio che fu chiamato Agostino Evidio. La madre di Claudio sentendo molto la nostalgia della terra natale volle ritornare in Versilia. Garibaldo preferì rimanere negli USA e, quindi, non fece più ritorno in Italia. L’amore fra Claudio e suo padre non venne mai meno. Forte fu questo sentimento che li unì sempre anche se vivevano lontani l’uno dall’altro.

Severino ha parlato infine delle vicende dolorose che portarono all’arresto e alla prigionia di Claudio a Mauthausen, dove morì per le atroci sofferenze che patì in quel campo di sterminio.
Nel corso della presentazione è stato proiettato un video con immagini strazianti sui lager nazisti, con uomini ridotti a pelle e ossa e mucchi di cadaveri scheletriti. Mostrate anche due fotografie , contenute nel libro, in cui si vedono, in una, alcuni particolari di una camera a gas e, nell’ altra forni crematori dove i corpi dei perseguitati finirono in cenere.
E’ un libro vero, ricco di fotografie, bello e commovente e tutto da leggere. Il volto di Claudio appare davvero quello di un angelo del bene e dell’amore universale fra tutti gli uomini del mondo. Questo onora la nostra Patria, i finanzieri italiani, sia in servizio che in congedo, e tutti i cittadini italiani e, in particolare, i nativi della Versilia.

giovedì 16 maggio 2013

Felicità: riabbracciare la mamma in Paradiso

Nel pieno della notte del 25 ottobre 1985 squillò il telefono di casa mia. L’ora insolita mi fece immediatamente intuire che qualcosa di grave doveva essere accaduto. “Sì è morta la mamma, il suo cuore si è fermato!”. Era la voce di mio fratello Sergio.“Vengo subito” e non fui capace di dire altre parole perché un pianto irrefrenabile mi serrò la gola. Ebbi difficoltà a guidare l’autovettura con i vetri appannati, specie quando incrociavo altri automezzi che transitavano lungo la via Aurelia in senso contrario. Ma non mi fermai mai, anche se non riuscivo ad arginare il torrente di lacrime che usciva dai miei occhi.

Mentre mi avvicinavo alla sua casa tante riflessioni acuivano il mio dolore. Mi pareva di non avere fatto abbastanza per lei e di non averle dimostrato quanto era grande l’amore che nutrivo nei suoi confronti. Il desiderio di portarla a vivere con me durante la sua malattia, per poterla assistere personalmente, rimase solo un sogno che non potei realizzare non avendo a disposizione un’apposita camera. Sapere che aveva chiuso gli occhi per sempre nel suo letto e non in un ricovero, attenuava solo in parte l’angoscia che provavo.

Era già stata vestita quando giunsi davanti a lei. Un lungo velo nero copriva i suoi capelli bianchi che sembravano fili di seta. I lineamenti del suo viso erano sereni e distesi nell’immobilità della morte. Pareva che dormisse con la corona del rosario avvolta tra le sue delicate mani, le stesse che negli anni Trenta avevano raccolto nel fiume barrocci di sassi, faticosamente portati stretti al grembo fin sulla strada, per fare in modo che a noi ragazzi, con il babbo in quel periodo di tempo disoccupato, non mancasse mai il pane. Da poco aveva compiuto l’ottantunesimo anno, essendo nata a Seravezza l’8 luglio 1904. Nonostante fosse gravemente ammalata da più di un anno, non immaginavo che la morte l’avrebbe portata via così in fretta. Affetta da un ictus cerebrale, con la conseguente paralisi della parte sinistra del corpo, era riuscita, dopo diversi mesi, a reggersi di nuovo sui piedi e a fare anche brevi passi in casa, sia pure con grande fatica; ecco da dove derivava la mia convinzione che potesse vivere un po’ più a lungo.

L'esistenza di Iolanda Binelli (detta Raffaella) non fu pienamente felice come lei avrebbe invece meritato. Visse momenti di grande disperazione allorché, in tempo di guerra, con la madia vuota, non poteva mettere nulla a cuocere nella pentola e quando vide saltare in aria la sua casa nel 1944. Un autentico calvario fu anche il periodo dello sfollamento trascorso a Giustagnana, dove rimase ferita ad una gamba dalle schegge dei colpi di mortaio sparati dai tedeschi subito dopo l’arrivo dei soldati americani della divisione Bufalo.

Fu una donna semplice che mi educò secondo i principi della fede cristiana. Instancabile, lavorò in casa come una formichina, finché le forze glielo consentirono. Dopo sei anni dalla sua scomparsa e dall’ultimo nostro straziante abbraccio terreno, durante il quale morì anche una parte di me, sento ancora il bisogno di rivolgermi a lei perché preghi il Signore, affinché tutti suoi cari, nel giorno della loro morte, possano felice riabbracciarla in Paradiso.

P.S. - Questo mio scritto è stato pubblicato su Il Dialogo (ottobre-novembre 1991, pag.14).

domenica 31 marzo 2013

Onore e gloria all'eroico finanziere scelto Claudio Sacchelli


Il libro intitolato “La guerra di Claudio”, voluto dalla Guardia di Finanza, dedicato alla memoria  dell'eroico finanziere scelto Claudio Sacchelli, morto di stenti nel campo di sterminio nazista di Mauthausen il primo maggio del  1945, onora tutti i finanzieri italiani da sempre sentinelle inflessibili di ogni confine, sia in tempo di pace che in guerra e che da oltre duecentoquarantadue anni di storia hanno scritto col sangue pagine  di fulgido valore. Sui finanzieri la nostra Patria potrà sempre contare anche nell'avvenire . In questo contesto il libro onora altamente le Fiamme Gialle cadute nell'adempimento del proprio dovere . E' quindi un'opera letteraria commovente, tutta da leggere e piena di fotografie , molte delle quali scattate dallo stesso Claudio. Bella da vedere è la foto scattata il giorno del matrimonio di Claudio con Mafalda Testa , celebrato a Fiorenzuola d'Arda il 5 settembre 1943, e molto interessanti anche le due fotografie che ci mostrano i particolari delle camere a gas e dei forni crematori.

Il finanziere scelto Claudio nacque nel comune di Seravezza  il 31.12.1913. Si arruolò  nel Corpo dell'allora Regia Guardia di Finanza all'età  di 19 anni appena compiuti. La domanda di arruolamento  la spedi al Comando del  Circolo di Livorno, sotto la cui giurisdizione ricadeva il Comune di Pietrasanta  dove lui  aveva la  residenza. Fu ammesso nella Regia Guardia di Finnaza  il 25 ottobre 1933, dopo aver superato le visite mediche e le prove di cultura generale. Frequentò il corso  allievi finanzieri a  Roma presso la caserma intitolata al Re Vittorio Emanuele III. Promosso finanziere  per il servizio di prima nomina  fu assegnato alla brigata di frontiera di Bormio (SO) in alta Valtellina un reparto che dipendeva dalla tenenza di Madonna di Tirano , disimpegnò anche il servizio a  Buggiolo, Porlezza, Argegno, Prabello e San Fedele d'Intelvi,  dove in una fotografia si vede Claudio, vicino ad un  suo collega seduti sopra tante bricolle sequestrate   contanenie mnerce di contrabbando.
Il volto di Claudio, visibile in numerosi scatti che lo ritraggono, in particolare nella foto che gli fu fatta quando era allievo finanziere , sembra quella di un angelo. Traspare dal suo squardo l'amore cristiano che l'ha portato a morire in un lager nazista per avere salvato la vita a centinaia e centinaia di perseguitati di origine ebraica , che senza il suo aiuto per espatriare in Svizzera sarebbero stati uccisi nella camere a gas o bruciati vivi nei forni crematori.
Il 18 aprile 2012 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha insignito alla memoria del finanziere scelto Claudio Sacchelli la medaglia d'oro al Valore Civile.

Nel libro c'è la storia della nobile,  bella e antica terra di Versilia, come si vede dalle   fotografie riprodotte in cartolina. E si accenna anche all'emigrazione, che vide milioni e milioni di italiani partire per il nuovo Continente alla fine del 1800 e nei primi decenni del 1900, alla ricerca di migliori condizioni di vita. In America trovarono la “porta d'oro” aperta. Erano liberi di scegliere. Tra loro c'era anche Garibaldo Sacchelli, il padre di Claudio, che emigrò in America nel 1914, lasciando in Patria la moglie con il piccolo figlio.  In America Garibaldo  Sacchelli iniziò ad esplicare la sua professione  di lucidatore di marmi  La madre col piccolo  Claudio rimasero a casa dei nonni materni che abitavano a Cerreta S. Nicola del comune di Seravezza sino a quando , per volere  di Garibaldo, finalmente ritornato in Patria per abbracciare il primogenito,  andarono ad abitare nella casa paterna dei nonni  Agostino  e  Lucia ubicata al Cerro  Grosso. Sui monti di Cerreta S.Nicola e del Cerro Grosso dove Claudio e la sua mamma tornarono dopo qualche anno trascorso in America dove Garibando vi aveva fatto ritorno da solo, . spinti dal padre che  inviò alla moglie i pochi risparmi,  Assunta Bonini, col piccolo Claudio e la cognata  Santina Sacchelli di anni 21. si recarono in treno a Napoli per imbarcarsi sul vapore "Patria" che arrivò a New York. il 23.dicembre 1919. Da li raggiunsero il Vermount a circca 400 km. da Proctor dove li attendevano una modesta abitazione. dove vissero pochi mesi .per trasferirsi a S.Francisco in California, forse attratti  dal clima mite rispetto  a quello del Vermount dove  nacque il loro secondogenito Agostino Evidio.
Intanto Assunta Bonini che aveva nel suo cuore lo struggente ricordo della sua terra natale,  approfittò  del pretesto delle nozze di suo  cognato Angiolo, fratello di Garibaldo che doveva  sposate  la signorina Giulia Bascherini, apparentata con la stessa per ritornare nella sua terra nativa per la quale sentiva sempre una forte nostalgia. .  
Ritornata in Versilia con il figlioletto, questi   crebbe cullato dall'affetto dei nonni, mentre la mamma non esito ad affronatre duri lavori spingendosi fino sulle cave per  portare financo l'acqua da bere ai cavatori,.
Garibado  non fece più ritorno in Italia, a seguito anche al fatto che  molte compagnie di navigazione   subirono la perdita di navi per i ripetuti affondamente  ad opera della flotta corsara tedesca quindi non poté  imbarcarsi per fare ritorno in Patria entro il 24 maggio 1915.
Nello sfogliare le pagine del libro appaiono davanti ai miei occhi le immagini di tanti luoghi dove Claudio si fece fotografare quando era giovane finanziere. Osservandole mi sono rivisto in quelle località dove anch'io prestai servizio, in primis a Roma, dove Claudio frequentò il corso allievi finanzieri nell'anno 1933 presso la caserma intitolata a Vittorio Emanuele III, che nel dopoguerra, fu chiamata Caserma Piave, nella quale, sedici anni dopo Claudio anch'io frequentai nel 1949/50 il  corso di allievo finanziere. Traspare dallo sguardo di Claudio e dal suo volto, dolce e mite, l'amore cristiano che l'ha portato a morire in un   lager nazista per avere salvato la vita a tante creature innocenti.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Nel libro ho rivisto Porlezza e Buggiolo. In queste ultime località come in altre località del confine italo - svizzero, fui impiegato come marconista. A causa delle avarie che talvolta si verificavano a Buggiolo quando al gruppo elettrogeno, e/o anche all'apparato ricetrasmittente nei periodi in cui gli apparecchi venivano riparati al laboratorio esistente al comando della legione di Como, il comandante della brigata, brigadiere Lai, era solito impiegarmi nell'esecuzione dei servizi per la repressione del contrabbando.
 A passo Foscagno (2.250 m), sede del distaccamento della brigata di Semogo, conobbi don Alessandro Parenti, parroco di Trepalle , che era la più alta parrocchia d'Europa, dove si rifugiavano molti militari sbandati dopo l'otto settembre 1943.

Ricordo che la brigata di Buggiolo aveva due distaccamenti, uno chiamato S.Lucio e l'altro Garzirola. Durante un servizio anticontrabbando prestato poco sotto il distaccamento di S. Lucio, vidi una croce di marmo posta dove un fulmine aveva ucciso, in anni remoti, due giovanissimi finanzieri che erano li appostati mentre espletavano un servizio anticontrabbando. A pochi metri di distanza dalla caserma del distaccamento di Garzirola vidi diverse croci di marmo bianco collocate lungo il poggio del monte, a ricordo dei finanzieri morti a causa della tormenta, mentre ritornavano al distaccamento al termine di servizi anticontrabbando. Erano arrivati vicinissimi a salvarsi, gli rimanevano soltanto pochi metri da percorrere, per arrivare ad aprire l'uscio della caserma ma non ce la facevano più a muovere i passi. Lì, la morte crudele li stese, sull'alta coltre di neve senza vita.

La descrizione delle modalità con le quali venivano espletati i servizi per la repressione del contrabbando, mi ha fatto tornare alla mente quella volta in cui la mia pattuglia si appostò dietro alcune rocce dell'alpe Riccola, località vicina al confine al territorio posto sotto la giurisdizione della brigata di Dasio Valsolda, dove nei pressi si congiungevano alcuni sentieri che scendevano a valle. Udimmo il rumore di passi veloci prodotti dalla corsa di un uomo che scendeva a valle. C'era un buio assoluto, senza la luna: non si potevano muovere i piedi su quel terreno pieno di rocce e di sassi. Comunque eravamo rimasti lì col fiato sospeso, pronti certamente all' attacco se fosse passato il gruppo dei contrabbandieri, perché non solo la neve cadente, come dice la nostra bella canzone, ma neanche il terreno accidentato,  avrebbe fermato il nostro passo. Guardai il quadrante dell'orologio che segnava le ore 18,30. Pensavamo che quell'uomo agisse da staffetta per vedere se lungo il sentiero vi fossero dei finanzieri appostati. Attendavamo che dopo di lui, arrivasse il grosso degli spalloni, con le sigarette e quant'altro di contrabbando, ma non passò più nesssuno.
A Buggiolo prestò servizio anche Guido Angelini, versiliese come me, insieme al quale nel 1949 frequentai a Roma il corso allievi finanzieri.  Con noi c'era anche un altro versiliese, Primo Giorgi, scomparso qualche anno fa.

Sento il dovere di ringraziare gli autori di questo bellissimo libro, il generale di Corpo d'Armata in congedo Luciano Luciani, che è anche presidente del museo Storico e del Comitato di Studi Storici della Guardia di Finanza, e il il capitano Gerardo Severino, direttore del Museo Storico e capo di due Sezioni dell'Ufficio Storico della Guardia di Finanza. La lettura del loro libro spronerà ancora di più i finanzieri in servizio e, quelli che verranno dalle generazioni future, ad espletare nel migliore dei modi i servizi che eseguiranno a beneficio della nostra collettività nazionale e per la imperitura gloria del nostro Corpo.
Renato Sacchelli

sabato 23 marzo 2013

Un uomo solo senza casa e senza affetti

In una fredda sera invernale, sibila il vento, mentre nel cielo si addensano nuvole scure. Forse nella notte pioverà. Un uomo dal passo stanco si avvicina alla chiesa del paese. Stringe nella sua mano un sacchetto di plastica, dove tiene tutto ciò che possiede. Uno straccio di asciugamano ed altri pochi cencetti: è un barbone, senza casa, né un letto, è solo e senza affetti. Arrivato sulla porta della canonica della chiesa, preme il tasto del campanello. Al parroco che gli apre l'uscio il poveretto chiede implorante: “Padre, mi aiuti, non so dove andare a dormire, mi faccia entrare, la prego, soltanto per questa notte”.
Che deve fare il sacerdote? Lo sa bene che non ha una struttura idonea per dare alloggio ai senza casa, ai barboni, agli extracomunitari e a tutti quelli che hanno bisogno di assistenza per sopravvivere. "Io sono un povero prete e so che non posso chiudergli la porta in faccia Nelle mie omelie parlo sempre di amore fra gli uomini, accoglienza, carità..... In nome del Cristo Redentore non possso dirgli di no, altrimenti che prete sarei?”. Così, d'istinto, apre la porta e lo fa entrare, mettendogli subito a disposizione un angolo del palcoscenico del teatrino parrocchiale, dove colloca una rete con sopra un materasso e due coperte.. 

E' una scena reale, cruda, che si svolge fra un uomo solo e un prete. Sopra di loro il Creatore del Cielo e della Terra, Iddio dell'Universo. Il sacerdote sale nella cucina della parrocchia, riscalda un tazza di latte e la porta al barbone con due fette di pane inburrato e zuccherato. "Per stanotte riposa tranquillo - gli dice con affetto - ma domani vedi di trovare un'altra sistemazione. Questa parrocchia non è in grado di offrire questo tipo di accoglienza ai bisognosi”. Un nodo gli serra la gola, non riesce più a parlare, riesce soltanto ad augurargli la buonanotte.

domenica 17 marzo 2013

Le donne del Ponticello


Così come non ho mai dimenticato gli uomini del Ponticello di Seravezza, che conobbi da quando mossi i primi passi nelle vie del rione, nella mia memoria di bimbo degli anni 30 e dei primi anni 40 rimasero impresse anche le immagini delle compagne che condividevano con loro l' asprezza di una vita spesso sofferta.
Donne stupende quotidiamaente impegnate nei lavori di casa e per allevare i figli. La femminilità che emergeva, infondeva le energie per guadagnare, sulla cava e in altri faticosi posti di lavoro, il pane quotidiano. C'erano anche alcune donne incredibilmente forti che, a poche ore di distanza dalla nascita dell'ultimo bambino , andavano già a lavare i panni nelle acque del fiume anche durante la stagione invernale.
Nei cuori delle donne del Ponticello batteva forte la fede. Un elevato fervore le animava , specie quando la processione del Corpus Domini attraversava le vie del paese. In quelle occasioni erigevano in cima al Riccietto , dove il tratto finale del canale ricoperto scarica le su acque nell'alveo del fiume Serra, un grande altare pieno di fiori e grossi vasi di piante sempre verdi, che veniva adornato con le preziose coperte ricamate messe a disposizione per renderlo più bello.

Le strade venivano ricoperte da ramoscelli di mirto e di timo, raccolti sul monte da alcuni volenterosi, e da artistici tappeti fatti coi petali di rose, dai colori molteplici. Negli anni della mia infanzia la partecipazione del popolo di Seravezza alle funzioni religiose era totale; le chiese di riempivan o di fedeli, sia per ascoltare la S. Messa che pe partecipare al Vespro ed a tutte le altre funzioni religiose, specie negli anni della guerra dove si sentiva maggiormente il bisogno di pregare perché il conflitto finisse e tutti gli uomini tornassero sani e salvi. A guerra inoltrata, furono portati in processione per le vie del paese, i resti di S.Discolio, il soldato romano martirizzato invocato dai fedeli di Seravezza perché facesse il miracolo di far finire la guerra. La processione ritardò a muoversi perché si attendeva l'arrivo del giovane Vinicio Salvatori ( divenuto successivamente governatore della venerabile Misericordia di Seravezza ) che prestava servizio militare. 

Il Salvatori con indosso la divisa di ufficiale, arrivò quando la processione si era già mossa e stava transitando sotto la casa dei combattenti. Egli subito si mise in mezzo al gruppo di noi chierichetti per farci camminare con ordine, sotto l'occhio compiacito del parroco monsignor Angelo Riccomini. Mi limiterò a menzionare (oltre alla mia nonna Marianna, a mia madre Jolanda detta Raffaella, alla zia Armida ed alla cugina Alda) le donne che che vedevo più spesso, a cominciare dalla dolce e bella signora Antonia Benti, madre di due figli Alberto e Marcella; Giuseppa Gori con tre figli: Maria, Lina e Lorenzo, la cui progenita fu mia madrina di battesimo; Germana Tabarrani e la sua giovane figlia “Angiò” che mi cucì il vestito quando celebrai la prima comunione; Emma Giannotti con i figli Valeria e Gigi, la cui casa era attaccata alla mia; la buona Emma Bandelloni, moglie di Fortino ( di cui ho già parlato nell'articolo dedicato agli uomini del Ponticello) con le sue tre belle ragazze: Foschina, Lubiana e Ilva, e due maschi Pietrino e Armandino; la brava maestra Bonci, insegnante di “lavoro” delle classi femminili elementari e mamma di due ragazze Jone e Nives; Ines Lorenzi , il cui secondogenito, appena chiamato alle armi morì subito dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943; la forte e bella signora Jole Maggi, madre di numerosa prole; Annetta Binelli, più conociuta come l'Annetta di Amatio, e la sua anziana mamma , nella cui abitazione mia madre che era loro parente e amica andava spesso a trovarle ( l'Annetta , ogni volta ogni volta che mia madre mi portava con sé, mi offriva sempre una fetta di pane imburrato e zuccherato); la signora Emma Verona e la figlia Clementina, La Emmetta, come noi chiamavamo per la sua piccola statura, diede anche a me alcune ripetizioni di matematica e sua figlia Clementina mi truccò da piccolo Pierrot in occasione di uno dei tanti carnevali che in quell'epoca di svolgevano per le via di Seravezza; l 'anziana signora Erina e sua figlia “Marì”, due donne dolcissime che avevano nei miei confronti atteggiamenti affettuosi e buone parole. La famiglia Tabarrani aveva anche un'altra figliola sposata con un uomo di Ripa ed un figliolo, Fernando, giocatore molto bravo della squadra di calcio di Seravezza, che fece parte del contingente degli alpini in Russia, da dove purtroppo non fece più ritorno, cosa che accadde anche a mio zio paterno Guido, pure lui alpino. 

Dare alla luce un figlio , allevarlo e vederlo poi partite per la guerra senza fare più ritorno a casa, macerò dal dolore i cuori delle mamme ponticellesi Germana e Ines Lorenzi e di tutte le madri che persero in guerra i loro cari figli. Mi fa piacere ricordare la laboriosità della signora Beppa Gori che nei giorni del mercato metteva nelle piazze un banchetto per la vendita di zoccoli, attività cui pose temine quando mise su un negozietto di tali articoli in via dell'Annunziata. Anche la signora Germana Tabarrani si dava molto da fare: specializzata insieme a una sua parente nel fare i materassi di lana e di vegetale alla gente, riusciva così, con quanto raggranellava, ad arrontondare il salario del marito Beppe. Da piccolo tantissime volte mi sono fermato , col naso schiacciato sul vetro, ad ammirare i diversi oggettini e giocattoli che le figlie della signora Emma Bandelloni tenevano esposti nella fantastica vetrina che avevano messo in fondo alle scale della loro abitazione. E fu proprio nella cucina della Jole Maggi che in tempo di guerra, mi recai una volta per ricavare , utilizzando il macinino del caffè, alcuni cucchiai di farina dalle poche spighe di grano raccolte insieme a suo figlio Piero, nei campi della piana dopo la mietitura. 

Qualche volta , mentre noi ragazzi ponticellesi giravamo nelle vie del rione battute da raffiche di vento, si univa a noi la giovane Lubiana Bandelloni che munita di forbici e di pezzi di carta , ci ritagliava minuscole ruote che, messe poi sul selciato stradale, giravano in continuazione spinte appunto dal vento. Noi bimbi le volevamo bene per l'affettuosità che ci dimostrava e per le cose belle che faceva con le sue mani “magiche”. Mi fa piacere ricordare che fu il fratello dell'Annetta di Amatio, Raffaello Binelli, a mettere in salvo alcune preziose tele che ora è possibile ammirare nella ricostruita chiesa della Misericordia, ma che allora adornavano la chiesa della Santissima Annunziata ricca di marmi lavorati , fatta saltare in aria dai tedeschi nell'estate del 1944.
Renato Sacchelli

Articolo pubblicato su Versilia Oggi del mese di agosto 2002

sabato 23 febbraio 2013

Un libro bellissimo



Il libro sull'eroe finanziere scelto Claudio Sacchelli è bellissimo.

Ho ricevuto dal direttore del Museo storico della Guardia di finanza, capitano Gerardo 
 Severino, il libro intitolato “La Guerra di Claudio - Storia del finanziere Claudio Sacchelli un angelo del bene contro l'odio razziale e la persecuzione nazi-fascista”, che il suddetto ufficiale ha scritto insieme al Presidente del Museo succitato, Gen. C. A. Luciano Luciani, che è anche presidente del comitato di studi storici della Guardia di finanza.
E' un libro bellissimo e commovente.E' ricco di foto scattate dallo stesso Claudio che amava in particolar modo la fotografia. Risalta l'amore del finanziere scelto Claudio Sacchelli che non esitò ad aiutare, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, tanti cittadini di origine ebraica ad espatriare in Svizzera, fatto che evitò a centinaia e centinaia di essi, o forse più, di finire bruciati nei forni crematori, o nelle camere a gas attivate dai nazisti nei loro lager, dove tenevano imprigionate tantissime creature umane innocenti. Il libro onora ai più alti livelli la memoria del nostro eroe, la nostra bella terra di Versilia cui è nato Claudio e tutti i finanzieri italiani in servizio e in congedo, in particolare, quelli nati in Versilia .
Ringrazio la Guardia di Finanza per l'alta sensibilità dimostrata nell' aver voluto questo libro, che esalta i valori umani, la cui difesa, ha condotto Claudio a morire in un campo di prigionia nazista , fra atroci patimenti, sevizie e stenti.
Grazie, infine, agli autori che hanno scavato dai loro cuori parole che dimostrano quanto sia stato sublime la morte del nostro conterraneo Claudio Sacchelli.
Di questo libro parlerò ancora...

venerdì 15 febbraio 2013

venerdì 4 gennaio 2013

Ricordi sempre vivi nel mio cuore


E' incredibile come ancora ricordo i due finanzieri che vidi, per la prima volta a Seravezza quando da Pietrasanta, dove aveva la sede la loro brigata, raggiunsero il molino del Bonci ubicato vicino alla mia casa del Ponticello che era stata di proprietà dei miei  nonni  materni. Eravamo alla fine degli anni 30 o all'inizio del decennio successivo. Giunsero in bicicletta armati di pistola Glisenti. Io stavo giocando con altri ragazzi sul mucchio di rena messa, col consenso del proprietario, all'interno dell'area dell'opificio e che gli operai della vicina segheria del Salvatori utilizzavano a cariolate per segare i blocchi di marmo. Sul quel mucchio di rena era solito giocarci anche Giuseppe Salvatori, detto Beppino che con il nome d' arte Renato divenne ,nel dopoguerra, un famoso attore cinimatografico. Egli possedeva una teleferica in miniatura che piazzava sulla cima del mucchio di rena facendo andare in su e giù i due mini carrelli. Con lui ci giocava anche il suo coetaneo Agostino Pucci che abitata su una delle case costruite sulle prime rampe del monte Canala. Nonostante i continui richiami dell'anziano Bonci tutti noi si ritornava spesso sul mucchio di rena sul quale spiccavamo continui salti. Il proprietario del Molino, che era un bravo uomo, riuscì comunque sempre a sopportarci.

La prima volta che sentii parlare dei finanzieri, senza riuscire a vederli, fu quel giorno che mio padre mi portò a vendemmiare l'uva nella vigna che il suo babbo coltivava a mezzadria nella zona più alta del Monte di Ripa. Stavo salendo il difficile sentiero, insieme a lui che continuamente mi aiutava a farmi superare i tratti più difficili, per poi scendere nella vigna coltivata da mio nonno,quando udii il passo ferrato di animali quadrupedi che percorrevano la mulattiera per arrivare a Cerreta S. Nicola, come  disse il mio babbo, il quale ovviamente ignorava i servizi che i militari dovevano esplicare lassù.

La seconda volta che udii ancora parlare di un finanziere avvenne nel mese di luglio 1941, quando nel mio rione si diffuse la notizia, data da uno strillone che vendeva i giornali lungo le strade, riguardante l'eroica fine che fece l'appuntato dell' allora Regia Guardia di Finanza Francesco Meattini, nato a Cortona  (Arezzo)  il 17 settembre  1901, il quale,  quando  era in forza al distaccamento di Berane, località del Montenegro dove era nata la nostra regina Margherita, il suo reparto  fu attaccato e incendiato da preponderanti bande di ribelli. Durante la cruenta battaglia che avvenne il 17- 18 luglio 1941, il Meattini, che era il capo squadra fucilieri, nonostante fosse stato più volte ferito, rifiutò ogni aiuto continuando a spronare i suoi commilitoni a combattere. Finite le cartucce e con i suoi colleghi quasi tutti morti, si raccolse un attimo per baciare la fotografia dei suoi cari, dopodiché con calma e freddezza si mise in tasca alcune bombe a mano e toltane la sicura saltò sui ribelli seminando distruzioni e morte. Per questo suo eroico sacrificio, che commosse tutte le persone del Ponticello che dalle loro finestre commentarono, fra loro, la morte da questo valoroso militare che fu insignito della medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Il  terzo finanziere che vidi da ragazzo, fu quando, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, una mattina entrò nell'aula della classe dell'Avviamento Professionale al lavoro di Seravezza che frequentavo,  il padre di un ragazzo, che aveva avuto qualche giorno di licenza, da tracorrere a Basati dove era residente,per salutare il proprio figlio che era mio vicino di banco. Ricordo che era in divisa con il grado di brigadiere. Tutti giorni, anche col cattivo tempo, suo figlio scendeva a Seravezza e ritornava a casa al termine delle lezioni. La distanza fra Seravezza e Basati non era breve, ancora non esisteva una strada asfaltata e, quindi, per lui ebbi subito una grande ammirazione, per la fatica affrontata, sin da quando frequentò, insieme a me, anche col brutto tempo, la quinta classe elementare di Seravezza.

A 18 anni compiuti presentai domanda di arruolamento nel Corpo della Guardia di Finanza. Il 15 luglio dell'anno 1949 mi chiamarono alla visita medica, fui dichiarato idoneo e, superati gli esami di cultura, fui avviato a Roma dove, dopo aver superato altri esami, frequentai per sei mesi il corso Allievi Finanzieri.

Il 15 gennaio 1950 fui promosso finanziere. Ricordo ancora le pagine fulgide di storia  lette nell'aula, scritte col sangue dai finanzieri, che traggono origine dalla creazione della Legione Truppe Leggere, avvenuta nel Regno di Sardegna il 1° ottobre 1774 ad opera di Vittorio Amedeo III di Savoia. La lettura di quelle pagine  mi fece sentire forte l'orgoglio di essermi arruolato in un mitico e glorioso Corpo militare dello Stato.