martedì 26 ottobre 2010

Nucleare sicuro? Non esiste

Intendo parlare delle centrali nucleari, necessarie per sfruttare, in modo pacifico, la potenza dell’energia derivata dalla fissione dell’uranio, che per primo ottenne, nel 1935, il grande scienziato Enrico Fermi e altri suoi eminenti collaboratori, un gruppo di studiosi ricordati dalla storia come i ragazzi di via Panisperna. Per questa eccezionale scoperta nel 1938 fu assegnato il premio Nobel per la fisica a Fermi. Fu il primo passo per lo sfruttamento dell’atomo. Poi si arrivò con gli studi, in primis di Oppenheimer Robert Julius, alla costruzione della prima bomba atomica. Gli effetti devastanti di queste bombe lanciate dagli americani, nel corso della seconda guerra mondiale, su Hiroshima e Nagasaki, per indurre il Giappone ad arrendersi, sin da quand’ero ragazzo, oltre a farmi fremere dall'orrore, mi fecero pensare che tale energia, per il bene dell’Umanità, dovesse essere sfruttata soltanto per scopi pacifici.

Debbo dire che accolsi con piacere la notizia della costruzione all’estero delle prime centrali nucleari, per la produzione di energia elettrica di cui ogni nazione aveva e continua ad avere sempre più bisogno. Durante i miei saltuari viaggi in treno a Roma, effettuati in passato, vidi spesso nei pressi della stazione ferroviaria di Montalto di Castro, un grande cantiere, dove doveva sorgere una grande centrale nucleare. Nel 1986 purtroppo esplose a Chernobyl, in Ucraina, una centrale nucleare per la produzione di energia. Nell’atmosfera fu rilasciato pericoloso materiale radioattivo, con numerosi morti e gravissimi danni all'ambiente e alle persone. Nubi tossiche si sparsero nei cieli europei. Da tale disastro iniziò la campagna contro la costruzione in Italia di questo tipo di centrali nucleari.

Nel 1987 ci fu un referendum che confermò la volontà del popolo italiano a non costruire centrali delle specie. Da lì in avanti avremmo dovuto fare ricorso ad altri mezzi per produrre energia elettrica. Una cosa è certa, il carbone, il petrolio e il nucleare sono soluzioni rivelatisi inquinanti e pericolose, oltre a generare conflitti tra i paesi produttori e le nazioni che nel proprio sottosuolo non dispongono delle materie prime. D'altro canto il petrolio, arrivato ormai a prezzi altissimi, impone la soluzione del problema ricorrendo a vie energetiche alternative. Mi è molto piaciuto ciò che disse tempo fa il premio Nobel Carlo Rubbia in una intervista a Repubblica: “Non esiste un nucleare sicuro, il carbone è altamente inquinante e nocivo e soltanto l’energia solare e quella eolica sono in grado di dare risposte sostenibili al problema energetico mondiale”. Anni addietro lessi, su un altro quotidiano, le grandi difficoltà che vi sono per trovare siti idonei per lo smaltimento delle scorie derivate dalla produzione dell’energia nucleare. E i moltissimi anni che debbono trascorrere per arrivare a tale soluzione (22 mila anni secondo Rubbia).

Alla luce di quanto di questi elementi voglio sperare che in Italia non vengano mai costruite centrali nucleari.

domenica 24 ottobre 2010

Gita della maggiolata nelle terre di Siena

Il primo maggio 2008 partecipai alla gita organizzata dalla Milizia dell’Immacolata, formata da pie donne della chiesa di Casciavola (PI) della quale è parroco, dal 1992, don Nino Guidi, ch’é un grande sacerdote versiliese da sempre impegnato a fare del bene al prossimo, in special modo ai più poveri senza distinzione di etnia o del colore della pelle. Pensa ai più bisognosi che a se stesso. Con questo sacerdote, nato a Pruno di Stazzema, quando frequento la chiesa a me pare di respirare l’aria della terra dove sono nato. Meta della visita è stata la località di S. Angelo Cinigiano al confine delle provincie di Siena e Grosseto, dove esiste la grandiosa casa vitivinicola “Banfi” che produce il vino “Brunello”, famoso in tutto il mondo.
Fino alla stazione di Siena siamo arrivati a bordo di un pullman, poi abbiamo proseguito il viaggio con un treno a vapore, composto da più vetture, chiamato della Maggiolata che ha attraversato terreni ubertosi con tanti vigneti. Salire su una vecchia vettura di legno di terza classe ha fatto subito riaffiorare alla mia mente il mio primo viaggio in treno effettuato nel 1937 o nel 1938 da Querceta ad Avenza di Carrara, quando i miei genitori una domenica mattina decisero di andare a trovare a Miseglia la famiglia di una sorella della mia mamma che aveva sposato un uomo di quella località.

Mio padre era appena ritornato dall’Africa settentrionale dove era andato a lavorare con una squadra di cavatori di Seravezza, assunti per costruire le strade dell’impero, da poco conquistato da Mussolini. Mi pare ancora di vedere i pesciolini colorati che si muovevano in una vaschetta al centro della piazza di Carrara e la mulattiera che percorremmo in mezzo agli olivi per arrivare a casa di questa mia zia.
Per tanti anni, a partire dal 1949, ho sempre viaggiato su quel tipo di carrozze. Ricordo, in particolare le sbuffanti locomotive a vapore impiegate anche dalla Tranvia Alta Versilia per il trasporto sia dei viaggiatori che dei blocchi di marmo fino alla tragica dell’estate del 1944 quando i tedeschi imposero l'ordine di sfollamento alla popolazione versiliese che durò fino al mese di settembre sempre del 1944, data in cui sulla nostra terra inziarono aspre battaglie in particolare sui monti di Seravezza e nelle zone della marina del Cinquale e di Montignoso che durarono fino all'aprile del 1945. Nel salire sul treno della maggiolata, mi sono rivisto quando da piccolo mi soffermavo al Ponticello di Seravezza ad ammirare queste potenti macchine a vapore nel momento in cui si fermavano davanti al molino del Bonci per effettuare il rifornimento di acqua, guidate da due uomini che apparivano davanti ai miei occhi due autentici colossi.

Giunti a S.Angelo Cinigiano ci attendeva alla stazione una fanfara che ci ha accolto suonando canzoni briose. Sospinti dall’allegria di queste note siamo giunti alla famosa cantina “Banfi” dove un dirigente ci ha parlato del vino che produce da uve scelte e selezionate, prodotte dalla coltivazione di vigneti su un territorio di 850 ettari. Poi ci ha fatto visitare l’interno del grande stabilimento dove ho visto botti di rovere di 60 -70 hl e tante altre più piccole. Ci ha descritto le tecniche per la eliminazione, con speciali macchine, delle sostanze meno nobili del vino che appena messo nelle botti viene subito venduto ad acquirenti di tutto il mondo. In quel grande stabilimento fra infinite bottiglie di vino, botti speciali e tini di rovere e acciaio, c’era da smarrirsi.

Il pranzo, cucinato dalle donne della locale Pro Loco, per tutti i 500 partecipanti alla gita, molti provenienti anche da Terni e da altre località della Toscana, è stato consumato su grandi tavolate poste sotto un ampio tendone. Ottima sia la ribollita che le salsicce alla brace davvero molto saporite e gustose.ed ottimo anche il vino bevuto. Ringrazio ancora la presidentessa della regione Toscana della Milizia dell’Immacolata, signora Nara Tani, residente a Casciavola per avere organizzato questa bellissima gita nelle terre di Siena (sin da quand’ero piccino sentivo spesso dire dalla mia mamma che Siena era la madre lingua italiana) ed averci allietato il tempo trascorso a bordo del pullman recitando con molta bravura divertenti poesie di Trilussa, raccogliendo scroscianti applausi anche per la sua capacità scenica artistica di grande spessore...

martedì 19 ottobre 2010

A PROPOSITO... della caduta del regime fascista

Ricordo ancora una volta che la fine del regime fascista, avvenuta nel luglio 1943, troncò la mia “carriera” di ragazzo indrottinato, unitamente a tutti bimbi d’Italia, nati negli anni in cui il Duce era al potere, dalla sua politica volta alla formazione dell’Uomo nuovo, cioè completamente fascistizzato sin dalla nascita; infatti non arrivai ad indossare la divisa di avanguardista. All’inizio dell’anno scolastico 1943/1944 l’intera classe II B dell’Avviamento di Seravezza (Lucca) che chi scrive allora frequentava, si rifiutò di iscriversi al ricostituito partito fascista della Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Imperatore. Non avemmo bisogno di chiedere il parere dei nostri genitori per respingere gli inviti che ci furono rivolti da coloro che credevano ancora nel Duce; si capì da soli che il regime fascista aveva eliminato ogni forma legittima di opposizione al suo governo, togliendo al popolo la libertà, fino ad arrivare a trascinare la nostra nazione in una guerra sanguinosa a fianco della Germana nazista di Adolf Hitler che causò un numero infinito di morti, feriti e cumuli di rovine.
Questi ricordi non li ho mai dimenticati.

lunedì 18 ottobre 2010

Albé Benti, il mi' amico fin dagli anni dell'asilo

Sento forte ‘l bisognò di parlà del mi’ amico Alberto Benti, da me chiamato sempre Albé,scomparso verso la fine del 2006, di cui conservo ancora nel mi’ còre un ricordo vivissimo. Dal 1930 e fino all’istate del 1944 in cui fu ordinato dai tedeschi lo sfollamento degli abitanti di Seravezza e dintorni, abitò davanti a la mi case ubicata nell’antico rione del Ponticello, fatto saltare in aria dagli operai dela Todh, comandati da un sergente dei guastatori dela Wehrmacht. E’ stato ‘l mì compagno fin dall’asilo e degli anni dela scòla. Erimo molto uniti. Insieme a lu, ho vuto tanti amichi, tra i più cari ricordo: Lido Calistri, morto nel 1958 dopo un grave incidente sul lavoro, Matteo Bonci, Aldo Tessa, Andrea Bandelloni, Gianfranco Pea e Gianfranco Tommasi, anco se quest’ultimi quattro nun staceino di case al Ponticello. Per i ragà del mì rione i monti, erino i luoghi dube si andaa a giracchià. Il fiume fu na nossa pescina. Spesso andaimo su le rocce sotto la Mezzaluna dube costruivamo na trincea sula quale issavamo ‘l nosso vessillo tricolore. Il nosso campo di giòco al pallone fu la strada.

Ricordo che nela via piena di polverone, che passava accanto al molino del Bonci, giocaimo molte partite sovente con ‘na palla di carta e stracci, perché nun si avea na lira in tasca per compranne ‘na vera. Lido Calistri che facea ‘l terzino, con un fazzoletto che tenea sempre allacciato sula fronte venia chiamato Caligaris , nome di un famoso giocatore della Juventus e della nazionale. Quando piovea, spesso con Albè e altri compagni, ci incontravamo nela su piana dube accanto al pollaio c’era anco ‘na tettoia. Lì tenea ‘na piccola scultura di marmo raffigurante lo sfondo del Monte Procinto, scolpita da qualche su antenato. Albè era ‘l meglio di tutti no’, fu un trascinatore infaticabile. Un giorno, mentre staceimo a parlà nel salotto, dela su case, visibilmente felice e orgoglioso, tirò fora da un cassetto na foto del su babbo Donato, òmo mite, schivo e bravissimo, scattatagli quando era giòveno mentre stacéa per atterrà attaccato a un paracadute.

Negli anni dela guèra in cui ‘n Versilia si patì molto la fame, Albé, più d’una volta, abbrì la cassetta che su mà, la buona e cara Antonia, tenea in cucina, per donarmi alcuni grossi gràcioli di farina di castagne prodotta dal nò di Albé che duvea possedé sotto Giustagnana, oltre ad una vigna, anco ‘na piccola selvé. Mentre divorao quela farina mi sembraa d’avé in bocca dela cioccolata. In occasione dell’utima colonia estiva organizzata dale scuole nel campo sportivo, prima dela caduta del regime fascista, ci fé visita il federale dela provincia di Lucca. Questi fu accolto dai tutti noì che di corsa gli andammo incontro, gridando: “Viva il Duce… Duce! Duce! Duce!”. Fu in quel momento che sentii la voce di Albè mentre dicea:”Duce, Duce a la fame ci conduce”.

Durante i combattimenti che si svolsero tra il 1944/45, sui monti di Seravezza, la famiglia di Albè che scappò in un primo tempo nella zona di Camaiore, ritornò sòbbre Seravè, nela case del babbo di su’ mà che da lì un s’era mai mosso. In quela località la famiglia di Albè trascorse tutti i lunghi sette mesi in cui durò ‘l conflitto in Versilia. In occasione d’un nosso incontro che avvenne a Seravezza agli inizi degli anni ’90, Albè mi riccontò cosa faceino i ragà come
 lu e anco più grandi che vissero per diversi mesi,a ridosso del fronte. Costoro tutti ‘ giorni, anco col brutto tempo, trasportavino, caricate sule spalle, pesanti cassette di munizioni e anco del mangià in scatola a le più avanzate trincee dei soldati americani. Partivino, dai magazzini situati in Torcicoda, dube stazionava sempre ‘na fila di essi, in attesa di esse chiamati per fà qualche trasporto. Mi raccontò la triste storia del trasporto del corpo del soldato mericano ucciso in località Bovalica in seguito ad uno scontro coi soldati tedeschi. Quel giorno calzava un paio di scarpe di cencio con la suola di gomma, malridotte, tanto che pati un freddo forte ai piedi causato dal mevischio che calpestava, fatto questo che lo indusse a desiderare di poter usare gli stivaletti del cadavere del militare per non soffrire più. Violenta fu la reazione del capo della squadra dei militari alleati, al quale aveva molto timidamte manifestato questo suo desiderio. Forse questo è uno dei miei migliori racconti da me scritti su Versilia Oggi sulle vicende vissute dai versiliesi durante i sette mesi della guerra che fu combattuta in Versilia nel 1944/45. Fenita la guerra questi valorosi ragà vennero subbito dimenticati; nessun attestato di benemerenza, come ho già scritto in altre occasioni, fu loro concesso per l’attività umile ma molto importante, da essi svolta, grazie a la quale fu mantenuto sempre costante e regolare ‘l rifornimento dele munizioni e dei viveri ai soldati mericani. In cambio di quelle loro durissime prestazioni ebbero soltanto piccole scatolette di carne congelata e/o altri generi alimentari; ciò che ricevettero permise, comunque, a que’ giovinetti e ale proprie famiglie di sopravvive. Ricordo che anco io portai, da Valventosa a Giustagnana, sùbbito dòppo l’arivo a Giustagnana dei soldati di colore della divisione Buffalo, du cassette di munizioni. Sotto quel peso sentii un forte e continuo dolore. Albé fu il mì testimonio di nozze. Lu’ più che un amico, fu per me, un fratello, così come lo fu anco Lido Calistri.

Ora che un c’è più fra no’, mi pare belo pensà che, qualo grando sonatore di trombone ch’è stato durante la sua vita terrena, col su' strumento venghi ora impiegato lassù nel célo, per sonà, insieme agli Angeli, la musica che accompagna in Paradiso le anime degli òmeni pii e giusti.

sabato 16 ottobre 2010

Perché occorre riformare le Nazioni Unite. La sicurezza e la pace del mondo a rischio per i limiti strutturali dell’Onu

Quando nel lontano 1950 i caschi blu dell’Onu intervennero nella guerra scatenata dalla Corea del Nord contro quella del Sud, per ripristinare lo “status quo ante” in quella nazione, allora e ancora oggi divisa in due Stati, pensai che questa organizzazione soltanto con l’uso della forza militare potesse assicurare la pace a tutti i popoli della terra. Purtroppo, le tante guerre che ci sono state successivamente fino ad arrivare a quelle dei nostri giorni, mi hanno fatto capire di essermi sbagliato.
Le mie convinzioni crollarono definitivamente ai tempi della guerra nel Libano, nel momento in cui il contingente dell’ONU, costituito da centinaia di marines Usa, inviato in quella nazione con compiti di pace, appena sbarcò e prese alloggio in una caserma, fu vittima di un feroce atto di terrorismo; contro l’edificio fu lanciato un automezzo carico di alto esplosivo. Perirono dilaniati quei “soldati di pace”, com’è accaduto a Nassiriya l’11 novembre scorso ai militari dell’Arma dei Carabinieri e dell’Esercito inviati in Iraq per aiutare quella nazione a ritrovare la pace e la libertà.
Sono anni che mi domando a cosa serve l’Onu visto che non è mai riuscita ad impedire lo scoppio di sanguinosi conflitti nel mondo e di barbari atti di terrorismo che uccidono in continuazione tante creature innocenti L’Onu fu istituita il 25 giugno 1945 sia per salvaguardare la pace e la sicurezza mondiale, sia per favorire la cooperazione economica, sociale e culturale fra i vari Stati della terra, col fine ultimo di addivenire alla costruzione di un mondo migliore, una metà agognata dagli uomini di buon senso, raggiungibile soltanto col superamento degli egoismi nazionali e delle ideologie totalitarie di qualsiasi colorazione.
Questa organizzazione mondiale subentrò alla Società delle Nazioni con sede a Ginevra (costituita dopo la prima guerra mondiale su iniziativa del presidente americano Woodrow Wilson) che si estinse il 18 aprile 1946 quando già funzionava l’ONU, a causa della sua incapacità e impotenza, per limiti strutturali a impedire lo scoppio della seconda guerra mondiale. Segni di debolezza della Società delle Nazioni, si ebbero fin da quando avvenne la mancata adesione alla stessa degli Usa, il recesso del Giappone, della Germania ed anche dell’Italia che ne uscì l’11 dicembre 1937 dopo le “sanzioni” prese a suo carico da questo organismo in seguito alla conquista dell’Etiopia.
Quindi l’organizzazione si costituì per la volontà manifestata dalle grandi potenze alleate durante la seconda guerra mondiale. A Yalta (1945) fu deciso di convocare la conferenza dei paesi alleati che si svolse a a San Francisco dal 25-4 al 26-6-1945 e fu in quella sede che venne sottoscritta la carta delle N.U..
Dopo 58 anni trascorsi dalla sua fondazione, dobbiamo, purtroppo, riconoscere che anche l’Onu è priva di mezzi idonei ad imporre agli Stati membri le sue risoluzioni, che rappresentano i soli strumenti di cui dispone per la salvaguardia della pace e della sicurezza mondiale, in quanto non ha proprie forze armate di cui avrebbe bisogno per intervenire immediatamente laddove esplodono i conflitti e vengono calpestati, da dittatori spietati e sanguinari, i diritti sacri e inalienabili dell’uomo. Ricordo ancora quanto avvenne nei paesi della ex Jugoslavia. Nel decennio 1988-1998, il dittatore criminale serbo Milosevic, prima comunista e poi nazionalista, diede inizio, con una violenza efferata, alla pulizia etnica, da Vukovar, a Dubrovnik e nel Kosovo, dai campi di concentramento di Prjedor a Omarska, all’eccidio di Srebenica, seminando ovunque morte e distruzioni. L’Onu non riuscì ad opporsi a questo uomo sanguinario, come nulla può fare adesso per porre termine alle guerre che vengono combattute tra gli Israeliani e Palestinesi nella terra dove nacque Gesù, in Cecenia ed in tanti altri paesi africani, nonché alla guerriglia tuttora combattuta in Iraq.
Sono ancora sotto i nostri occhi le immagini, trasmesse dalla tv, delle alte Autorità, anche dell’Onu, che si mossero per impedire, senza riuscirci, lo scoppio della guerra in Iraq.
Due parole le devo dire sull’Onu che ha sede nel palazzo di vetro di New York. Il suo parlamento è costituito dall’Assemblea composta dai rappresentanti degli Stati aderenti; essa è governata dal Consiglio di Sicurezza. Oltre ai membri eletti dall’assemblea generale, il Consiglio di sicurezza si compone di cinque membri permanenti che sono gli Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina. Queste nazioni, potenze vincitrici dell’ultima guerra mondiale, si sono attribuite il diritto di veto con il quale bloccano qualsiasi deliberazione, quando, ognuna di loro, per propri interessi, non si trova d’accordo sulle decisioni da prendere in ordine alle controversie in discussione. L’ONU spesso non ha un effettivo potere decisionale nel merito delle controversie; le sue raccomandazioni o risoluzioni possono essere seguite o meno dai singoli Stati. Si avverte, quindi, la necessità di una riforma istituzionale per togliere immediatamente questo “diritto di veto”, al fine di porre sullo stesso piano decisionale tutti gli Stati membri dell’organizzazione, purché rispondano a requisiti di democrazia e rispetto delle libertà.
Ma non basta. Bisognerebbe che l’Onu disponesse di una propria Forza armata, costituita da un contingente speciale alla sua diretta dipendenza,formata da uomini di tutti i suoi Stati membri in grado di intervenire con immediatezza e riportare la pace laddove scoppiassero conflitti. In questa ottica ciascun Stato non avrebbe più bisogno di impiegare le proprie forze armate come avviene in atto in Afghanistan. L’Onu, nella sua Carta del 1948, sancisce i diritti fondamentali dell’uomo, a partire da quello della libertà.
Ė chiaramente ispirata a principi democratici, ma molti Stati che ne fanno parte li calpestano e, anche per questo, le guerre continuano ad insanguinare il mondo.

lunedì 11 ottobre 2010

Dolorosi ricordi di Monsignor Benvenuto Matteucci che fu arcivescovo di Pisa

Mi ha molto commosso la lettura delle pagine del saggio storico ed autobiografico intitolato la “Città senza mura”, scritto dallo scomparso e compianto monsignor Benvenuto Matteucci che fu arcivescovo di Pisa negli anni in cui il mio ultimo figlio faceva parte dei Piccoli Cantori di San Nicola, un gruppo di voci bianche, fondato e diretto dall'indimenticato Padre Renzo Spadoni; anche lui volato, già da diversi anni, nella casa del nostro Padre Celeste.
Sono pagine sconvolgenti che pongono in risalto gli anni della seconda guerra mondiale in cui tanti sacerdoti furono perseguitati ed uccisi dai nazisti. Anche durante il periodo successivo del dopoguerra, il prete Matteucci visse un sofferta solitudine perché fu abbandonato da tutti e, tra costoro, anche da chi, nella fase finale della guerra, aveva salvato la vita a rischio della propria. La paura fece allontanare tanti fedeli dalle chiese; come se i sacerdoti fossero “diventati dei lebbrosi che la società rinnega e degli appestati che il popolo rifugge.”
Bisogna leggerle queste pagine per comprendere in pieno le sofferenze patite dai ministri di Dio, mentre svolgevano il loro alto magistero sacerdotale durante gli anni più cruenti della nostra storia contemporanea.
Chi scrive fu testimone oculare di una violenta aggressione che nel 1945 subì il parroco dell'antica Pieve di San Martino alla Cappella, a guerra appena finita. Il fatto avvenne all'altezza del fabbricato, in anni più tardi occupato dalla stazione dei Carabinieri di Seravezza. Il prete che camminava a piedi lungo la strada, veniva inseguito da una donna con una borsa piena di “marmoline” raccolte nel fiume. Urlava parole irripetibili contro di lui che accusava di aver parlato coi tedeschi di suo marito partigiano, fatto che avrebbe causato,non compresi bene,la sua uccisione o la deportazione in Germania. L'anziano sacerdote barcollava, mentre tentava di evitare che le pietre lo colpissero. Nessuno della numerosa gente che circolava in quella via intervenne a sua difesa. Vidi questa aggressione mentre mi accingevo a ritornare a Pietrasanta, dove la mia famiglia si era sistemata alla meno peggio in un locale di proprietà del datore di lavoro di mio padre. Dopo la liberazione frequentavo la III classe, dell'Avviamento professionale al lavoro, di Seravezza che fu riaperto subito dopo lo sfondamento della linea Gotica., Raggiungevo Seravezza e ritornavo a Pietrasanta camminando a piedi. Anch'io, piccolo   ragazzo, assistetti a questa scena violenta, senza avere il coraggio di muovere un dito a favore del sacerdote. Non riuscii a comprendere come questo prete potesse aver fatto una cosa così grave, ancora oggi mi pongo questa domanda nonostante siano trascorsi ben 65 anni da quando avvenne questa aggressione. In quei giorni la mia famiglia, con la casa fatta saltare in aria dai tedeschi, per avere un tetto, si trasferì a Compignano di Massarosa, in una fattoria sopra il monte Quiesa, dove era sfollata la famiglia di Pietro, fratello di mio padre, motivo per cui non ho mai saputo come finì, questa sconvolgente e dolorosa vicenda.

Un altro giorno, vidi uomini afferrare una ex guardia giurata della ditta Henraux, costringendola ad entrare in un fabbricato vicino al Ponte Nuovo.Lungo le scale l'uomo fu fortemente picchiato.L'accusarono, mi pare di ricordare, di essere un fascista che non so cosa aveva fatto di male durante la guerra partigiana. L'uomo urlava disperatamente. Il rumore dei colpi infertigli, li udii nella via dove sostai brevemente, tanto da sembrare che provenissero da una grancassa in uso alle bande musicali colpita con forza da una mazza rivestita di cuoio. .
   

domenica 10 ottobre 2010

Una aggiunta da fare alla Carta Costituzionale dell'Ue

La politica italiana gradirei che fosse esercitata con molta sobrietà dagli eletti alla Camera ed al Senato. Indico che la vita da prendere ad esempio fu quella che condusse il grande italiano che fu l'indimenticato Alcide De Gasperi. Quando, nell’immediato dopoguerra si recò, se non ricordo male, a Parigi ed a New York, dove pronunciò forti discorsi a difesa della nostra nazione uscita distrutta dalla guerra,a fronte della quale ci furono richiesti forti danni da risarcire, indossò un cappotto rivoltato. Morì a Sella di Valsugana il 19.8.1954 in una casetta di proprietà della moglie. Durante la sua attività politica non accumulò ricchezze.
Alcide De Gasperi, fu uno dei padri fondatori dell'Ue, insieme a Konrad Adenaur, Robert Schuman, Alfredo Spinelli, Gaetano Martino ed a Jean Monnet.
Chi ha scritto la Carta Costituzionale dell'Ue, ritengo che abbia commesso una grave dimenticanza nel non avere evidenziato, in tale importante atto, la matrice cristiana del continente europeo. Questa carta non poteva non tenere conto delle lotte dei cristiani combattute contro gli arabi molti secoli fa che impedirono alle nazioni europee di essere dominate e governate, da califfi islamici.

martedì 5 ottobre 2010

I resti di aspre battaglie

Nella primavera del 1945, sulla Versilia storica ( Seravezza, Pietrasanta, Stazzema e Forte dei Marmi) ritornò a splendere il sole. Sfondata la linea Gotica i cui caposaldi li aveva sulle cime dei monti sopra Seravezza e Strettoia e nella zona intorno al Cinquale, le forze alleate non trovarono più ostacoli alla loro avanzata verso il nord Italia. La guerra volgeva al termine. La massa di profughi della Versilia e di Seravezza in particolare, ritornarono alle loro case allorquando cessò il servizio di vigilanza che i carabineri eseguirono per un breve tempo intorno alle vie che conducevano al capoluogo seravezzino, il cui territorio fu per sette mesi teatro di furiosi scontri, per impedire ai civili l'accesso in questi territori, non so per quali motivi, tanto da farmi pensare che questa misura di sorveglianza fosse stata attuata per impedire eventuali saccheggi. Purtroppo moltissime famiglie, compresa anche la mia, non vi poterono più ritornare, perchè le loro case erano state fatte saltare in aria da operai della Todt, sotto la direzione di sottufficiali della Wermacht o furono distrutte o molto danneggiate dalle cannonate. Molte persone che avevano perso tutto si misero quasi subito a scavare fra le macerie per recuperare qualcosa che potesse essere ancora utilizzato. Fra mille difficoltà iniziò l'opera di ricostruzione. Fu subito dopo lo sfondamento del fronte versiliese che la mia famiglia che si era rifugiata a Capezzano Pianore, si trasferì a Pietrasanta, in via dei Piastroni, dove occupò un fondo adibito a deposito, di propriteà dell'ing. Attilio Cerpelli che aveva riassunto mio padre al lavoro con il compito di recuperare materiali e macchinari rimasti sotto le macerie, quando la sua officina, situata alla Centrale, fu fatta saltare in aria sempre dagli uomini della Todt. A fianco dell'immobile di via dei Piastroni, l'ingegnere Cerpelli era proprietario di un piccolo capannone con il tetto quasi completamente distrutto dalle cannonate. E' lì che la mia povera mamma cuoceva il cibo su un fornello di fortuna, costituito da qualche mattone e alimentato dalla legna secca. Ricordo che quando pioveva doveva badare che il fuoco non si spegnesse, per questo teneva sempre aperto un ombrello. Intanto l'esplosione delle mine disseminate un pò ovunque causarono altri morti e feriti tra i giovani. Ricordo che nella Corvavia, rasa al suolo, vicino al laboratorio dei marmi della ditta Casini e Tessa due giovani di Seravezza, uno era il cugino del mio amico Gianfranco Pea mentre dell'altro non ricordo il suo nome, saltarono in aria nel vicino frutteto allora ivi esistente, che era stato minato dai tedeschi, rimanendo uccisi sul colpo. La paura delle mine non mi impedì di salire sui luoghi dove per sette mesi i tedeschi bloccarono l'avanzata delle truppe americane. Fu la curiosità e anche la speranza di riuscire a trovare qualche cimelio di guerra a farmi percorrere un giorno, insieme ad altri ragazzi di Seravezza e Corvaia, quest'ultimi sfollati a Pietrasanta, il crinale del Monte di Ripa, dalla Rocca, al Castellaccio e fin sulle rampe del Folgorito. Ci spingemmo anche sulla Mezzaluna e sopra il Pelliccino.Quel giorno che visitai i luoghi suddetti, marinai la scuola che in quel tempo frequentavo che era la terza classe dell'Avviamento al lavoro di Seravezza riaperto subito agli alunni dopo la lberazione. Quanto arrivai sul crinale del monte di Ripa, la prima cosa che mi colpì fu la constatazione dell'avvenuta distruzione di tutti gli alberi di pino che erano cresciuti fitti e alti su quel terreno prima che divenisse un teatro di guerra. La terra per effetto delle migliaia di cannonate esplose e dei colpi dei mortai era tutta smossa, non c'era più un filo d'erba, sembrava che fosse stata arata dai più trattori. In una trincea vicina alla mulattiera che toccava la cima del monte Canala vidi tra tanti fucili, cassette di bombe a mano e munizioni di ogni tipo anche un grosso bazooka. Dal giro che feci mi resi conto della guerra sanguinosa che fu combattuta sui nostri monti, subito l'arrivo in Versilia gli americani. Sul Pelliccino, proprio ai piedi di un olivo vidi i resti di un soldato americano che successivamente, segnalai ai soldati americani impegnati a staccare dai corpi dei loro colleghi uccisi la piastrina di riconoscimento. Sempre sopra il Pelliccino, poco sotto il Castellaccio tra i pini bruciati, vidi ossa umane, un mortaio, cassette di bombe a mano, alcuni fucili e elmetti americani. Diverse furono le tombe che contai sulle piane della Mezzaluna e da altre parti. Ricordo di essermi velocemente allontanato dal crinale del monte di Ripa, a causa del nausante odore della carne umana ancora in putrefazione, che proveniva da un cumulo di terra sotto il quale era stato sepolto un soldato americano, come immaginai visto che la fossa era stata scavata tra le loro trincee. Vidi sempre in qua e là ossa umane di militari americani, e alcuni corpi di soldati statunitensi uccisi ancora avvolti nelle divise logorate e ridotte a brandelli per la lunga esposizione alle intemperie. Nessuno dei resti dei soldati sia americani che tedeschi avevano ai piedi gli scarponcini o stivaletti perchè secondo quanto seppi, gli erano stati tolti da chi era salito sin lassù prima di noi per portarseli via per poi calzarli. Intorno alle postazioni che avevano occupato gli americni, c'erano mucchi di bossoli di mitragliatrice e dei fucili e cumuli di scatolette di latta arrugginite che all'origine contenevano i cibi conservati con il quali venivano alimentati i soldati americani. Numerosi fili elettrici di vari colori che servìrono ai collegamenti tra i vari reparti, erano ancora distesi su tutto l'ampio crinale. Sullo spiazzo del Castellaccio che fu un formidabile caposaldo della linea difensiva tedesca, dove s'infransero i ripetuti assalti delle truppe americane, giacevano i cadaveri di due soldati tedeschi sicuramente uccisi durante l'attacco finale portato dai soldati americani che sfondarono il fronte. Avevano i capelli biondi e lunghissimi, come lunghe mi sembrarono le dita delle loro mani. Ricordo che un mio amico di Corvaia, la cui famiglia aveva trovato rifugio a Pietrasanta, tolse le cinture ancora allacciate ai pantaloni dei due tedeschi uccisi. Soltanto una parte di quella fortificazione fu messa fuori uso, probabilmente dal lancio di bombe a mano, effettuato durante l'assalto finale. Infatti i deposito delle munizioni era ancora intatto, pallottole per i fucili, nastri per le mitragliatrici e bombe a mano erano sistemate ordinatamente.
Attraverso il varco già aperto tra i tronchi degli alberi utilizzati per la costruzione dell'opera difensiva, mi calai nella buca profonda scavata nella roccia. Non era grande, al massimo vi potevano stare riparati cinque o sei soldati. Proprio dalla cima del Castellacio dove trovammo altri ragazzi più grandi che avevano dimestichezza con le armi, ci fu qualcuno che sparò ripetutamente raffiche di mitraglia. Il loro gesto. che mi parve sconsiderato. comunque non fece danni di sorta. Il terreno, attraversato dal sentiero che dalla cima del Monte Canala conduce a Cerreta San Nicola, poco sotto il Castellaccio, era pieno di mine antiuomo tedesche, molte della quali già disinnescate dagli americani. L'esplosivo e tutti meccasismi contenuti in queste minuscole scatole era stato tirato all'aria e abbandonato sul posto. A fianco del muro perimetrale della Casaccia Nera, un diroccato piccolo edificio così chiamato,c'erano i resti di un ufficiale americano, come rilevai dal distintivo del grado visibile sul suo elmetto. Sotto la divisa consunta notai, con orrore, che il suo scheletro, all'altezza della cassa toracica, era pieno di escrementi di topo. Fra le rocce del Folgorito, vidi un paio di zoccoli, sul quale avevano attaccato le tomaie di uno stivaletto di cuoio, che permise a chi li calzò nell'inverno 1944/45 di avere i piedi caldi. Quando si sparse la voce che c'era chi acquistava i bossoli,materiale ferroso e quant'altro, tutto il Crinale del Monte di Ripa fu ripulito in pochissimi giorni, nonostante il sussistere del pericolo delle mine. Sul monte rimasero soltanto mucchi di scatole di latta arrugginite e i colpi di cannoni inesplosi conficcatisi sul terreno.
Purtroppo non riuscii a trovare alcun cimelio di guerra. Lassù, come ho già detto in precedenza,vidi soltanto moltissime armi e munizioni e resti di soldati americani e tedeschi uccisi durante le sanguinose battaglia.