martedì 29 dicembre 2015

Il marmo e le cave di Seravezza



Sulla catena montuosa delle Alpi Apuane si trova il più grande giacimento di marmi del mondo. Le rocce marmifere sono "spuntate" dalla barriera corallina durante il periodo di formazione della crosta terrestre. Mi piace pensare che tale bellezza abbagliò gli occhi di coloro che per la prima volta videro i marmi bianchi e policromi in uno sfavillio di luci riflesse nel cielo. Un bel documentario trasmesso dalla Rai spiega come si sono formate le montagne della Versilia (guarda il video). 

Purtroppo nelle zone dove fin dai tempi della Roma antica e degli Etruschi furono aperte le cave, a causa della lunga escavazione di blocchi di marmo sono state distrutte intere colline e versanti di monti. I danni maggiori ovviamente si sono avuti negli ultimi decenni, quando lo sfruttamento è diventato intensivo.

Chi scrive è nato a Seravezza nel 1930. Ricordo che quando frequentavo la scuola elementare tremavo quando, mentre stavo tranquillamente seduto sul panchetto, udivo le fortissime esplosioni delle mine poste sulle cave per staccare i blocchi di marmo (operazione chiamata varata), che poi venivano squadrati e fatti discendere a fondovalle sulle vie a lizza.

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Amo parlare di esse, in primis della cava di bardiglio, la prima che vidi, sulla cima della Cappella, appena sotto la Pieve, quando la scuola elementare che frequentavo organizzò una gita per visitare l'antica pieve di S. Martino alla Cappella, che l'intera scolaresca raggiunse attraversando anche tratti delle vie a lizza. Iniziammo a salire da Riomagno. Giunti davanti alla chiesa della Cappella, sotto la quale c'era una profonda tecchia, causata dall'estrazione del marmo in quel tratto della cava, tutti ammirammo la famosa scultura chiamata, secondo la leggenda, l'occhio di Michelangelo e i resti del portico da lui disegnato, che rimase distrutto durante la Seconda guerra mondiale. Ammirammo anche l'antica chiesa risalente all'anno 1000, tutta costruita in marmo.



Le cave di Ceragiola e della Costa le visitai la prima volta nel dopoguerra, quando la mia famiglia ritornò a Seravezza al termine di un lungo periodo di sfollamento occupando una casa ubicata all'Uccelliera con annesso piccolo oliveto e due vignette di proprietà di un imprenditore del marmo, che aveva assunto mio padre per lavorare in una cava del monte Costa.
A Compignano la mia famiglia trascorse un paio di anni dopo la fine della guerra. Nel primo periodo di sfollamento ci trovavamo al Pelliccino e poi a Giustagnana, Capezzano Pianore e Pietrasanta. Con il ritorno a Seravezza iniziai a visitare le cave del monte Costa, arrivando fin sulla cima dove raccolsi un fascio di stecchi da utilizzare per cuocere il cibo Mi arrampicai anche su alcune vecchie cave del monte di Ceragiola, dove il marmo non veniva più estratto da tempo.

Quando mi recai sulla cava più grande della Costa, incontrai il capo cava Speroni, che al Ponticello era mio vicino di casa. Sopra un'alta tecchia vidi salire, attaccati a delle corde, due cavatori, mentre altri operai erano intenti a squadrare i blocchi scavati dalla montagna. Altri operai scaricavano, lungo il ravaneto, i carrelli pieni di scaglie dei blocchi squadrati.

Quella volta che salii sulla cava, la più alta di tutte, notai che i cavatori avevano scavato una piccola galleria molto stretta per collocarci le mine per staccare dal monte i blocchi di marmo.
I cavatori si davano da fare per portare a fondovalle blocchi marmo scavati dalla montagna. Notai anche un fabbro accanto ad una forgia, con i carboni accesi, mentre batteva colpi di mazzolo su un'incudine per affilare le punte delle subbie e degli scalpelli occorrenti per la squadratura dei blocchi. Un giorno vidi i lizzatori mentre facevano scivolare lungo la via di lizza del Monte Costa un grosso blocco di marmo fino al poggio di caricamento che era a poca distanza dal palazzo Mediceo.

Non sono mai salito sulle cave del monte Altissimo, dove dal 1515 al 1518, come ha scritto in un libro don Florio Giannini (Michelangelo all'Altissimo - “Edizione Il Dialogo 1996), il grande artista scoprì il marmo statuario, il più candido del mondo, che utilizzò per scolpire i suoi capolavori. E non salii mai neanche sulle cava del Trambiserra, dove lavorò anche mio padre negli anni 30 e dove Michelangelo diresse i lavori per estrarre le colonne che gli dovevano servire per la progettata costruzione della facciata della cattedrale di San Lorenzo, a Firenze, che non fu mai realizzata.

Questo salto indietro di alcuni secoli mi dà l'occasione per accennare al Lodo di Papa Leone X del 28 settembre 1513, quando Seravezza passò a Firenze, sotto cui rimase fino a quando il Granducato di Toscana, in quel tempo sotto gli Asburgo Lorena, fu annesso al Regno d'Italia in seguito al plebiscito del 5 marzo 1860. Seravezza ricavò molti vantaggi e un po' di autonomia anche in seguito al già citato atto di donazione a Firenze delle cave di Ceragiola e del monte Altissimo. Si deve ai fiorentini l'impulso dato negli anni successivi all'escavazione di marmi cui erano interessati sia Michelangelo che Giorgio Vasari ed altri celebri scultori inviati da Leone X e da Cosimo I per seguire da vicino l'estrazione dei marmi di cui avevano bisogno per le loro opere.

Dopo un periodo di abbandono delle cave, che iniziò nel 1668, l'economia di Seravezza si riprese quando  J.A. Alessander Henraux nel 1821 fondò l'omonima società sotto la quale sia l'escavazione che la lavorazione del marmo ripresero a pieno ritmo, tanto da determinare la crescita di Seravezza a tal punto da essere considerata la capitale della Versilia.

Mi piace concludere questo mio scritto con una poesia (in dialetto) che ho dedicato a chi lavorava per trasportare il marmo.

I mitici lizzatori

In verità li viddì la prima volta
sopra Malbacco, aldilà del fiume,
la matina che ero ito
a ccoglie le more
duve finiva la via a lizza
de le cave del Trambiserra
che era il tratto più pericoloso
perchè il blocco di marmo
rimase, per pochi momenti,
penzoloni nel vuoto,
prima di arrivà nel fiume,
erino gli Anni Trenta.
La seconda volta li osservai
nel dopoguerra, sulla via a lizza,
de le cave del monte Costa,
facevino scivolà a fondo valle
un grosso blocco di marmo.
intorno al quale stacéino curvi
e inginocchiati
mentre si passavino
e mmovevino pali di ferro
e martini pesi più
di cento chili.
Erino tinti dal sole,
con la gola arsa e il corpo asciutto,
lmane aveino d’acciao
come i cavi tesi a llo stianto
ai margini de le scoscese vie,
da duve i mmarmi, lentamente,
sfucicavano a ffondovalle,
tra gli urli del capolizza e dei lizzatori.
Oh, Oh! A Unce...
Oh! Oh! Bel, Bel!
Molla il tiratore...”
Ora nella valle silenziosa
il merlo tecchiaiolo
ci fa il nido
e sulle vie a lizza,
ricoperte di piante e scepaloni,
aleggia lo spirito
dei mitici antichi lizzatori.




sabato 31 ottobre 2015

Lettera aperta al signor Sindaco di Pietrasanta

Ha destato in me una certa perplessità venire a sapere, dal Tirreno, che dalla piazza principale di Pietrasanta è stato allontanato il signor Roberto Palma, che da 35 anni prepara e vende le mondine, come ho sempre chiamato le caldarroste.
Di Pietrasanta ho ricordi incancellabili, fin dai tempi in cui ero bambino quando, insieme a mio padre, la raggiungevamo a piedi da Seravezza per acquistare un paio di scarpe di cui io avevo bisogno, e più di una volta, anche per andare alla fiera di San Biagio. Ho anche abitato a Pietrasanta, per poco tempo, subito dopo la fine della guerra in Versilia. E ci sono andato tante volte in gita in bicicletta, con la mia fidanzata seravezzina: eravamo soliti consumare piccole fette di cecina e anche di torta fatta con la farina di castagne, di cui eravamo ghiotti. Ricordo di aver visitato una importante mostra di belle sculture che anni fa si svolse nella bella piazza centrale di Pietrasanta. La mia attenzione verso le opere esposte non venne minimamente disturbata dall'uomo che faceva le mondine.
So bene che ad ogni Amministrazione comunale spetta il dovere di tutelare l'ambiente e discliplinare l'occupazione delle aree pubbliche. Ed è necessario che qualsiasi attività si svolga in modo ordinato e nel rispetto delle regole, a interesse dell'intera cittadinanza. Mi astengo, pertanto, dal proseguire il discorso in quanto, allo stato degli atti, non sono a conoscenza delle leggi che tutelano l'habitat cittadino.
Comunque sia mi permetto di chiedere al signor sindaco Massimo Mallegni, persona attenta e sensibile ai problemi della cittadinanza, se è possibile revocare l'allontamento del Palma dalla piazza centrale di Pietrasanta. Ovviamente l'amministrazione comunale non può redigere un regolamento ad personam. Ma si potrebbe quantomeno valutare l'opportunità di fare una deroga per chi esercita particolari tipi di attività legati alle tradizioni locali. E le castagne, come ho avuto modo di scrivere nel mio libro "Quando cadevano le castagne", sono nel Dna della Versilia.

giovedì 22 ottobre 2015

La bella stagione di mio nipote Tommaso in bici

A fine stagione ciclistica amo parlare dei risultati conseguiti da mio nipote, Tommaso Fiaschi, che quest'anno ha corso nella categoria Juniores con la maglia del Gruppo Sportivo Stabbia Ciclismo.
Tommaso iniziò a correre con la maglia del Pedale Certaldese Nuovo Abitare Cornici, ottenendo trenta vittorie tra i Giovanissini e 15 da Esordiente. Quando passò nella categoria Allievi con la maglia della Stabbia Iperfinish, fu colpito dalla mononucleosi, che gli tarpò le ali impedendogli di potersi esprimere al meglio. Rimessosi in piena salute riuscì a vincere alcune gare ed a ottenere alcuni buoni piazzamenti.

Quest'anno, diciottenne, grazie ai buoni risultati conseguiti il ct della Nazionale Rino de Candido lo ha ritenuto meritevole di partecipare alla Parigi-Roubaix. In questa grande classica si è distinto in una lunga fuga, insieme a tre corridori stranieri. Stremato dallo sforzo, è riuscito comunque a concludere la corsa classificandosi al 48° posto.
Lo scorso luglio ha partecipato agli Europei, in Estonia, senza purtroppo riuscire a concludere la gara a causa dei forti crampi che l'hanno costretto al ritiro.
Ha chiuso la sua bella stagione sportiva, a fine settembre, prendendo parte, sempre coi colori azzurri, ai Mondiali di Richmond, negli Stati Uniti. Ha fatto una bella gara e nell'ultimo giro era nel gruppo di testa, con un'ottima condizione fisica, insieme all'altro azzurro Nicola Conci (arrivato 6°). Incredibilmente però ha forato, non una ma due volte, prima alla ruota anteriore e poi a quella posteriore. Da suo grande tifoso sognavo che potesse concludere la gara iridata con il suo solito travolgente sprint finale, così come era riuscito a fare il 13 settembre 2015 a Montignoso (MS), dove aveva vinto il prestigioso Trofeo Buffoni.
Tommaso mi ha raccontato che ai Mondiali “aveva il morale alto e le gambe”, cioè stava bene fisicamente, e nel suo cuore sperava di poter vincere o almeno di provarci fino all'ultimo. Putroppo la sfortuna gliel'ha impedito: si è classificato al 72° posto.

Mio nipote riconosce che deve i suoi successi agli insegnamenti avuti dal suo ottimo allenatore, Tiziano Antonini, e all'aiuto ricevuto dai suoi compagni di squadra, in primis il suo fedele amico Daniele Masi.



Sono felice che Tommaso abbia deciso di continuare a correre in bicicletta, pur essendo molto impegnato con la scuola (quest'anno avrà l'esame di Maturità). Gareggerà per la GS Mastromarco e di sicuro farà sognare ancora sia me che l'altro suo nonno, Mauro. Entrambi siamo cresciuti sentendo parlare delle gesta, in bicicletta, di campioni del calibro di Alfredo Binda (vincitore di cinque Giri d'Italia e tre Mondiali) e Learco Guerra (un Giro e un Mondiale).

Ricordo di avere visto Tommaso, prima che iniziasse a correre per il Pedale Certaldese, pedalare ad un ritmo forsennato in sella ad una biciclettina: riuscì ad arrivare in cima ad una ripida salita lunga poco più di una decina di metri, in pochi secondi, tanto da lasciarmi a bocca aperta. Si vedeva già che aveva la bici nel sangue. 

Sono grato alla dirigenza del Gruppo sportivo Stabbia Iperfinish, per aver voluto con sé Tommaso, alcuni anni fa, facendolo crescere in un importante gruppo, e al c.t. Rino de Candido che l'ha spronato coi suoi insegnamenti aiutandolo ad esprimersi sempre al meglio in questo sport, che a me pare il più bello del mondo. E sono grato, ovviamente, anche al babbo di Tommaso, Massimo Fiaschi, che gli ha trasmesso l'amore per la bici. 


Risultati di Tommaso Fiaschi nel  2015
6 vittorie

- 15 marzo - Monsummano Terme – G.P. Società toscane, gara di km 75,600, vinta alla media di km/h 37,800;
- 10 maggio – 53 coppa di S.Michele – Umbria – cave di Foligno, gara di km 113, vinta alla media di km/h 39,240;
- 31 maggio – 53 coppa Paolo Batignani - Reggello loc. Donnini - gara di km 106, vinta alla media di km/ 41,032;
- 28 giugno - Vergaio -Toscana ) - (FI) - trofeo Fiaschi cav. Alfredo, gara di km 118,vinta alla media di km/h 38,741;
- 26 luglio - Toscana la Stella (FI) di km. 111,700, vinta alla media di km/h 38,965;
- 13 settembre – Montignoso (MS) 48° Trofeo Buffoni, gara nazionale di km 137, vinta alla media di km/h 40,026.

9 volte al secondo posto

- 8 marzo - Toscana - Prato - frazione S.Giusto (PO) - 57 Coppa Piero Mugnaioni – km 79,200;
- 22 marzo - Veneto - Silvella di Cordigliano (TV) - 56 giro delle Conche - km 105;
- 29 marzo - G.P. Toscana – Stabbia -Artigianato e Commercio Stabbiese - km 79,200;
- 6 aprile - Toscana - Settimello di Calenzano - 15° Trofeo degli Assi - km 80,500;
- 19 aprile - Toscana - Fucecchio - 5° Trofeo, frazione pro loco Torre, km 78;
- 25 aprile - Toscana - Turano (MS) – 41° Gran Premio Liberazione Città di Massa - km132;
- 26 aprile - Toscana – Casalguidi (PT) - Ricordando Franco Ballerini km78;
- 6 settembre - Liguria La Spezia - 40° Giro ciclistico Lunigiana - terza tappa /km 94,400;
- 4 settembre - Liguria Castelnuovo Magra - Ponzano Superiore - 40 giro Lunigiana – prima tappa km
  98,370.

Una volta al terzo posto
- 18 agosto - Toscana – Borgo a Buggiano (PT) – 50 coppa Pietro Linari – km 108.

4 volte al settimo posto
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- 19 luglio - Toscana Sillicagnana – 1° Gran premio Garfagnana km 109,600;
-   5 luglio - Liguria - Beverino (SP) 4° Trofeo memorial Aurelio Del Rio – km 128;
- 23 maggio - Brandiy Elven  (Francia )Trophee CentreMorbihan - prima tappa di km.116
-   5 settembre - seconda tappa giro Lunigiana . Fosdinovo - Fosdinovo;

 Con i due secondi posti ed il 7° posto in cui è arrivato durante il giro della Lunigiana, Tommaso Fiaschi è risultato essere il vincitore della classifica a punti del giro di cui trattasi.

Una volta al nono posto
- 21 giugno – Abano Terme - Campionato italiano su strada - km 136,380.





lunedì 14 settembre 2015

Il cibo lanciato ai maiali

L'opinione pubblica è rimasta fortemente colpita da alcune immagini provenienti dall'Ungheria, in cui si vedeva un folto gruppo di migranti, ammassati l'uno sull'altro in un centro di raccolta, con le mani protese alla ricerca disperata di un po' di cibo che veniva lanciato loro alla rinfusa. Molti giornali, sdegnati, hanno scritto che quelle persone venivano trattate come gli animali (guarda il video).

Non credo che alla base di quel gesto poco edificante (il lancio di cibo) ci fosse la mancanza di rispetto per la dignità umana. Credo tutto sia dipeso dalla disorganizzazione, o per meglio dire improvvisazione con cui viene gestita una situazione di proporzione enormi.

Quelle immagini, e quel paragone agli animali (qualcuno ha detto maiali), mi hanno fatto venire in mente un triste episodio che ho vissuto sulla mia pelle, risalente alla Seconda guerra mondiale, quando i soldati americani della divisione Buffalo arrivarono a combattere in Versilia (Lucca) per liberare il nostro paese dai nazisti.

Con le case fatte saltare in aria dai tedeschi, chi come me e la mia famiglia era fuggito da Seravezza, rifugiandosi a Capezzano Pianore, Viareggio o nelle zone limitrofe, non essendovi  alcuna forma di assistenza nei confronti degli sfollati, non sapeva proprio come fare a procurarsi il cibo per sopravvivere. Così, davanti alla cucina degli americani, stazionavano donne e bambini con dei recipienti in mano che venivano riempiti con il rancio avanzato ai militari. Anch'io più di una volta mi misi in fila e attesi che qualche soldato, dopo essersi saziato, mi cedesse qualcosa. Il tutto, mescolato, diveniva un impasto disgustoso che soltanto la fame riusciva a farci inghiottire. Un pastone che assomigliava tanto a quello che viene dato ai maiali.

venerdì 11 settembre 2015

Un ricordo del grande Manlio Cancogni


Desidero soffermarmi sul famoso giornalista e scrittore Manlio Cancogni, scomparso il 1° settembre 2015 all'età di 99. Lo faccio partendo dalle parole (che anche oggi considero attuali) che pronunciò il 13 dicembre 1987, quando fu eletto presidente dell'Unione Versiliese, formazione politica che aveva contribuito a far nascere: "La democrazia politica nel suo stato moderno non si esercita direttamente ma per delega. Cioè i partiti sono il tramite tra i cittadini e lo Stato, ma allora ci chiediamo per quale motivo si debba ricorrere a loro anche per la vita locale che è sotto i nostri occhi, E così per i problemi che abbiamo quotidianamente davanti e che conosciamo certamente non meno dei politici, non vediamo per quale motivo si debba sempre ricorrere al sistema delle elezioni per lista di partiti che mandano poi nei consigli comunali i loro rappresentanti e non quelli dei cittadini comuni".

Per l'Unione Versiliese fu eletto nel Consiglio comunale di Seravezza (1990), a fianco di Giorgio Giannelli. Cancogni era stato tra i fondatori di quel movimento apartitico che desiderava impegnarsi per la buona amministrazione del territorio, contro le logiche centralistiche della partitocrazia. Quando nacque l'Unione Versiliese pensai subito alla Repubblica dell'Apua, sognata da uomini eccezionali alla fine dell'800.

Cancogni amò profondamente le montagne dell'alta Versilia, in particolare la Pania, che considerava la più bella che avesse mai visto. E amava ricordare il gelato fatto con la neve raccolta dalle buche sulla Pania e trasportata a Seravezza dentro a un sacco. Anch'io, da bambino, ebbi modo di mangiare quel gelato di neve, venduto per pochi centesimi. Più che il gusto di quel gelato ricordo l'enorme senso di freschezza che provai dopo averlo mangiato.

Nel 1997 dedicò un racconto all'alta Versilia, “Caro Tonino”, indirizzato ad una suo carissimo amico. Parlò della terribile alluvione che nel 1996 si era abbattuta sui monti di Stazzema, procurando morti e devastazioni. Alla luce delle profonde parole di amore per la Versilia che espresse nel suo scritto, il Comune di Stazzema volle conferirgli la cittadinanza onoraria. Cancogni sognava sempre i bei monti della Versilia, e lo dimostrava spesso nei suoi scritti. L'opera Pia Mazzucchi gli consegnò le chiavi del paese di Pruno per dimostragli quanto gli fosse riconoscente.

Cancogni era nato a Bologna il 16 luglio 1916, ma i suoi genitori erano entrambi versiliesi: Maria Pistolesi e Giuseppe. Si erano trasferiti in Emilia per un breve periodo durante la Prima guerra mondiale. Dopo qualche mese dalla nascita di Manlio la famiglia fece ritorno in Toscana. Manlio crebbe poi a Roma, dove si formò a scuola. Conseguita la maturità classica si iscrisse all'Università La Sapienza. Fu durante gli studi universitari che iniziò il servizio militare nel Corpo degli Alpini a Bassano del Grappa (1936), ma non ottenne l'idoneità fisica perché, ammalatosi, era stato ricoverato in ospedale.

Si laureò in Legge nel 1938 e successivamente in Filosofia. A Roma conobbe Carlo Cassola (scrittore e saggista) con il quale strinse un legame che durò fino alla morte di questo suo carissimo amico. Conobbe anche altre importanti personalità del mondo della cultura: Carlo Levi, pittore e scrittore; i poeti Mario Luzi ed Eugenio Montale; lo scrittore e critico letterario Luigi Silori, combattente nella campagna di Grecia e poi sul fronte albanese.

Dopo la liberazione si stabilì a Firenze, dove iniziò l'attività giornalistica scrivendo su "La Nazione del Popolo". In seguito fu chiamato a Milano per collaborare con quotidiani e riviste nazionali. Molto importante la sua inchiesta sulla corruzione a Roma, pubblicata sull'Espresso l'11/12/1955 con il titolo a tutta pagina: “Capitale corrotta-Nazione Infetta”.

Firma sagace, oltre al giornalismo si dedicò con successo anche alla letteratura, scrivendo oltre sessanta opere, che gli valsero diversi premi (Bagutta nel 1966, Strega nel 1973, Viareggio nel 1985, Grinzane Cavour nel 1987, Pen club Italia nel 2010). Si dedicò anche alla sceneggiatura di Giuseppe Verdi (per la Rai).

Incontrai Cancogni per la prima volta quando, al Palazzo Mediceo di Seravezza, Giorgio Giannelli presentò il bellissimo libro scritto da Giulio Salvatori, intitolato “Oltre la Siepe di Bussilo, - un paese nei racconti (edizioni Versilia Oggi 1986). In quell'occasione Giannelli aveva seduti accanto a sé due pilastri della cultura, Cancogni e Salvatori.

Nel periodo in cui ebbi modo di collaborare col il periodico “Il Dialogo”, fondato e diretto dall'indimenticabile don Florio Giannini, chiamai al telefono Cancogni (il cui numero mi aveva dato proprio Giannini, che ben conosceva lo scrittore) per chiedergli alcuni consigli sulla carriera giornalistica che mio figlio desiderava intraprendere. Cancogni fu molto cortese e mi raccontò che, rispetto ai suoi tempi, le cose nel giornalismo erano molto cambiate. Si riferiva al fatto che, un tempo, a decidere le assunzioni era solo il direttore di una testata. Oggi non più. E per questo, per inserirsi oggi nella professione, non bastava più saper scrivere bene e mettersi in mostra. Nel farmi questo onesto discorso, improntato a un sano realismo, mi parve molto amareggiato.

Mi ha profondamente addolorato la scomparsa di Cancogni, anche se è avvenuta a un'età ragguardevole, 99 anni. Mi è di conforto pensare che questo grande figlio della Versilia possa aver raggiunto la casa del nostro Padre celeste.

sabato 29 agosto 2015

Correre (e vincere) a piedi scalzi


Ho letto con interesse un articolo de La Stampa che parla degli atleti che, nel 2015, corrono scalzi le gare di atletica ai mondiali di Pechino (leggi l'articolo). L'autrice, Giulia Zonca, osserva che, al giorno d'oggi, è impossibile gareggiare e vincere senza scarpe. Personalmente non sono del tutto d'accordo, anche se, ovviamente, un buon paio di scarpe aiuta gli atleti.
Da ragazzo per anni ho camminato a piedi scalzi nelle vie, nei fiumi e nei sentieri boscosi dei monti del luogo dove sono nato, in Versilia. Nonostante la fame patita in tempo di guerra ero allenato alla fatica e i miei piedi erano "abituati" a calcare, per ore ed ore, superfici dure di ogni tipo.

Qualche volta ho pensato che, se debitamente allenato, non avrei sfigurato accanto al grande Abebe Bikila, vincitore della maratona all'Olimpiade di Roma del 1960. Una corsa che fece a piedi scalzi.


martedì 25 agosto 2015

Gigetto del Bicchiere all'Abetone


Che bella sorpresa assistere, all'Abetone, ad uno spettacolo che mi ha fatto rivivere i giorni belli vissuti a Seravezza quando ero un bambino degli anni '30.

Un caldo insopportabile avvertito nella località dove abito in provincia di Pisa, la "fagonza” in dialetto versiliese, ha costretto me e mia moglie a scappare all'Abetone, sulla montagna pistoiese, dove per qualche giorno abbiamo respirato, con gioia, un'aria fresca e senza umidità.

Lassù una sera si è esibito, in località Le Regine, un gruppo di bravi artisti popolari noto col nome di "Gigetto del Bicchiere", dando vita ad uno spettacolo davvero coinvolgente. Nell'udire gli stornelli delle canzoni ho ripensato ai canti del Dopolavoro di Ripa, in Versilia. Non ho mai dimenticato la bellissima canzone che ascoltai a Seravezza intitolata "Reginella campagnola", e altre canzoni di quel tempo lontano, rimaste stampate nel mio cuore. Anch'io ogni tanto amo canticchiarle alla veneranda età cui sono arrivato (85 anni).

Sul palcoscenico delle Regine mi è parso di risentire anche le note del Maggio, in relazione al quale il bravissimo scrittore seravezzino Enrico Pea scrisse alcuni importanti libri. Ricordo di averne visto uno di questi spettacoli, negli anni del dopoguerra, quando fu rappresentato sotto la pergola che si trovava davanti allo spaccio di vini al banco gestito, a Riomagno, a due passi da Seravezza, dalla signora Vienna, molto frequentato dai cavatori.

Gli spettacoli dei "maggianti" dovevano piacere anche al mio babbo, fatto che compresi avendolo udito cantare, più di una volta, i versi dell'opera intitolata "Pia dei Tolomei".

Ho provato molto piacere nell'assistere allo spettacolo del gruppo Gigetto del Bicchiere, fondato 20 anni fa a Rivoreta, frazione di Cutigliano, ora sotto il comune dell'Abetone. La formazione ha partecipato a varie rassegne nazionali ed internazionali oltre ad essersi esibita in diversi studi televisivi, tra i quali TV 2000, Canale Italia e persino sul prestigioso Palco del Teatro Ariston di Sanremo.

Il "Gigetto del Bicchiere" manifesta le espressioni viventi del museo della gente costituiti dai tesori di un tempo passato, utilizzati per il lavoro e il vivere quotidiano: valori da non dimenticare bensì da tramandare alle generazioni future. In particolare i fondatori del gruppo si sono ispirati alla vita di Luigi Ferrari, nato nella borgata del Bicchiere nel 1841 e morto nel 1930, noto appunto come Gigetto, un uomo poco acculturato ma che aveva nel cuore una poesia che ammaliava la gente dei salotti buoni del tempo da lui frequentati.

Voglio sottolineare la bellezza delle danze eseguite da ballerini e ballerine del gruppo, a passi misurati e volteggianti. In particolare si è distinta anche una graziosa fanciulla, piccola di età ma molto attenta a ben figurare nei balli che venivano sempre terminati con un deferente saluto rivolto al pubblico presente.

Al termine della bella manifestazione a ciascuna delle protagoniste dello spettacolo è stata consegnata una rosa rossa. A ricordo di quella bella serata trascorsa all'Abetone mi rimane il DVD, acquistato al termine dello spettacolo, con il quale riascolterò tanti bei pezzi cantati con voci bellissime dagli uomini e donne di questo fantasmagorico gruppo.

martedì 21 luglio 2015

GLI EROI DELLA PACE

Con questo racconto ho vinto il primo premio al 13° Concorso di Narrativa 2015 intitolato all’Ammiraglio d’Armata “Enrico Millo”, organizzato dalla sezione Unuci (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia) di Chiavari.

La chiesa di San Nicola, nel pieno centro di Pisa, non è mai stata così piena di Autorità militari e civili, Associazioni combattentistiche e d'Arma, e moltissimi fedeli. Un numero così imponente di persone ha reso necessario installare, nella vicina piazza Carrara, un maxi schermo per consentire a coloro che sono rimasti fuori di assistere alla funzione religiosa, celebrata dall'arcivescovo di Pisa, monsignor Alessandro Plotti, e da dodici sacerdoti concelebranti. Una città intera dà l'ultimo saluto al maggiore dei paracadutisti Nicola Ciardelli, chiuso in una bara avvolta dal tricolore.

“Questa mattina ha vinto la vita - dice monsignor Plotti nell'omelia - ha vinto l'amore. Il piccolo Niccolò (figlio di Nicola, nda) e il cuginetto Matteo, con il battesimo celebrato poco fa hanno sconfitto la morte, l'odio, la violenza e il terrrorismo”. Dopo il battesimo l'arcivescovo mette al collo del bambino una medaglia d'oro donata dall'Esercito italiano, che per la tragica fine in missione ha promosso di grado suo padre.

C'ero anch'io quella triste mattina nella chiesa di San Nicola, nella rappresentanza, con la bandiera, della Sezione dei Finanzieri in congedo di Pisa. Era presente anche mio figlio e con lui tanti ex Piccoli cantori che in anni lontani, insieme a Nicola, fecero parte del coro di voci bianche guidato da Padre Renzo Spadoni. Una corale conosciuta e apprezzata anche all'estero.

Nicola era nato a Pisa l'11 settembre 1972. A Pisa è tornato, per l'ultima volta, il 2 maggio 2006, dopo aver perso la vita pochi giorni prima in un attentato terroristico avvenuto a Nassiriya (Iraq). Lo ricordo bambino, quando con la sua voce, insieme agli altri piccoli del coro accompagnava le messe domenicali. E nei bellissimi concerti che i “Pueri cantores” tenevano in Italia e all'estero. Dopo la cresima Nicola iniziò un percorso di fede tra i giovani agostiniani. Poi, dopo essersi diplomato, lasciò la sua città per raggiungere l'Accademia di Modena, dove nel 1991 iniziò la carriera militare, a cui aveva sempre pensato fin dal liceo. Frequentò il 173° corso allievi ufficiali e il 131° corso di Stato maggiore. Laureatosi in Scienze Strategiche, sposò la signora Giovanna Netta. Dal loro matrimonio nacque il piccolo Niccolò, venuto alla luce nel febbraio 2006.

Ufficiale in forza alla divisione Folgore, acquisì una notevole esperienza partecipando a diverse missioni all'estero: nel 1999 in Bosnia, nel 2002 in Kosovo, nel 2003 in Afghanistan ed in Iraq nel 2004 e 2006. Frequentò i corsi di paracadutismo, pattugliatore scelto, acquisizione di obiettivi, alpinismo e istruttore di ranger. Nell'ambito dell'operazione Antica Babilonia, il capitano Ciardelli svolse l'incarico di ufficiale di collegamento al Pjoc (Provincial joint operation center). L'ultimo reparto in cui prestò servizio fu il 185° reggimento acquisizioni obiettivi, con sede a Livorno, un reparto d'élite dell'Esercito.

Nel 2006 Nicola era tornato in missione in Afghanistan. La mattina del 27 aprile dalla base di Camp Mittica partì, a bordo di uno dei quattro blindati dei carabinieri, per raggiungere l'ufficio provinciale di polizia irachena, per svolgere i consueti servizi di vigilanza e di coordinamento dei pattugliamenti, come già aveva fatto tante altre volte.

Sfortunatamente alle ore 8.50 locali (in Italia le 6.50) il mezzo su cui era salito passa sopra un ordigno posto al centro della carreggiata che, esplodendo, a causa dell'impatto, squarcia il punto più debole della struttura del blindato, che è quello posto dove c'é la sottoscocca vicina al lato della ruota sinistra La fiammata provocata dall'esplosione penetra all'interno del mezzo con un'altissima temperatura trasformandolo in un forno. Così, per choc termico, il capitano Ciardelli muore all'istante, mentre in Italia la sua sposa lo aspettava per battezzare insieme il loro bambino nato da pochi mesi. Muore subito anche il caporale rumeno Hancu Bogdan. Poco dopo, prima di raggiungere l'ospedale, muore anche il maresciallo aiutante dei carabinieri Franco Lattanzio e il suo parigrado Carlo De Trizio. Il 7 maggio si spegne anche il maresciallo aiutante Enrico Frassanito, rimasto gravemente ferito e trasportato a Verona dopo aver ricevuto le prime cure a Madinat al – Kuwait (Kuwait City).

Ma cosa poteva essere ad aver spinto Nicola a impegnarsi in queste difficili missioni all'estero? Sicuramente il senso del dovere per le istituzioni e la divisa che indossava, con amore e fedeltà. E senza alcun dubbio anche il coraggio, quel grande coraggio che lo spronò a portare avanti la sua azione nelle zone più pericolose del mondo, dedicando le proprie energie affinché le popolazioni martoriate dalle guerre potessero tornare a vivere in pace.

Il terrorismo purtroppo ancora oggi continua a compiere delitti efferati e tanti, troppi soldati impegnati in missioni di pace, purtroppo perdono la vita. L'enorme sacrificio di sangue dei militari impegnati all'estero in missioni di peace keeping e di contrasto al terrorismo mi fa pensare, a una iniziativa simbolica che potrebbe essere presa per far sentire loro l'affetto e il rispetto da parte di tutti i cittadini e le istituzioni: dovrebbero essere insigniti del titolo onorifico di “Cavalieri della Pace”. Un'iniziativa di mero valore simbolico ma di estrema importanza che vorrei sottoporre all'attenzione del Presidente della Repubblica.

La signora Netta,avvocatessa Giovanna, straziata da un dolore immenso nel parlare del defunto marito, pronunciò parole di grande profondità: “Nicola era convinto di tutto quello che faceva e per me è sempre stato una colonna e un aiuto nelle decisioni più difficili”. Pur consapevole del pericolo che suo marito correva, lei aveva sempre appoggiato le sue scelte professionali. E soffermandosi sul suo bambino appena nato Giovanna ebbe a dire: “Se un giorno volesse intraprendere la carriera militare avrà sempre il mio appoggio incondizionato e sarò felice di questa sua scelta, come ne sarebbe felice anche suo padre”. Quella giovane vedova affrontò il dolore con grande compostezza e forza, perché teneva molto soprattutto a una cosa: far conoscere la personalità di suo marito, i suoi valori, la sua dedizione per la famiglia e il servizio svolto nelle nostre gloriose Forze Armate.

Ho gli occhi pieni di lacrime e non mi vergogno a scriverlo, mentre mi accingo a parlare delle missioni di pace in diversi angoli del mondo, per le quali sono morti molti soldati. Il nostro Paese “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli ed anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11 della Carta costituzionale), ma nel corso degli anni giustamente ha supportato diverse missioni internazionali, gran parte delle quali sotto l'egida delle Nazioni Unite, per cercare di riportare la pace nei teatri di guerra o per contrastare il terrorismo. Già cinquantaquattro nostri connazionali sono morti, molti altri sono rimasti gravemente feriti. Eppure, nonostante questo enorme tributo di sangue, mi sento di dire che il sacrificio dei nostri giovani militari non è stato vano e, proprio per questo, va apprezzato. Ci siamo mobilitati per un valore altissimo, la pace e la sicurezza dei popoli, non per motivi di conquista territoriale o egemonia. E in nome di questi valori umani abbiamo perso tanti nostri figli, fratelli o amici.

Rivedo ancora nei miei occhi le immagini terrificanti degli uomini lanciatisi nel vuoto dall'alto delle Torri gemelle di New York, contro le quali aerei guidati da terroristi kamikaze si infransero l'11 settembre 2001. Persero la vita 2.752 persone, altre 125 furono uccise a causa dell'attentato compiuto al Pentagono nello stesso giorno, altre 40 per lo schianto del volo dirottato della United Airlines, che nei piani dei terroristi avrebbe dovuto abbattersi, probabilmente, contro la Casa Bianca.

Dopo questa incredibile escalation terroristica diverse nazioni del mondo, in primis gli Stati Uniti d'America, inviarono in Afghanistan i propri contingenti militari per porre fine al regime talebano che dava ospitalità al leader della rete di al Qaeda, Osama bin Laden. La guerra al terrorismo è andata avanti per anni e, purtroppo, non ha portato grandi risultati. Si tratta, infatti, di una guerra asimmetrica, dove non vi sono due eserciti contrapposti che cercano di predominare l'uno sull'altro. Questo, ovviamente, rende tutto più difficile, anche nel modo di gestire e portare avanti un'efficace strategia militare. Con tutte le conseguenze del caso, sotto il profilo dei danni collaterali e dei gravissimi disagi e lutti patiti dai civili. Uno strazio che si protrae da troppo tempo. Purtroppo neanche il ritiro anticipato delle truppe americane dall'Iraq ha portato grossi vantaggi, visto il rigurgito del fondamentalismo islamico che, approfittando della debolezza di Baghdad, e della guerra civile in Siria, ha pensato bene di dare vita al famigerato Stato islamico, che si propone di seminare terrore nel mondo, con la scusa della religione. Che in realtà è solo un pretesto. Un obiettivo, quello dell'Isis, politico e terroristico al tempo stesso. Contro il quale, ancora una volta, si rende necessario uno sforzo militare organizzato da parte della comunità internazionale. A meno che non si voglia lasciare campo libero ai pericolosi tagliagole, termine che uso per ricordare il gran numero di persone sequestrate e, purtroppo, sgozzate dai criminali che inneggiano allo Stato islamico.

Ripenso al vile attentato compiuto il 12 novembre 2003 contro il contingente militare italiano a Nassirya, in Iraq, giunto fin lì per svolgere una missione di pace a favore della popolazione civile alla fine della seconda guerra del Golfo. Persero la vita 19 carabinieri, quattro soldati dell'Esercito e due civili.

Uomini eroici. Sì, senza inutile retorica si tratta di eroi della pace, che lottarono e continuano a lottare, fino al sacrificio più alto, quello della vita, per portare la pace, il benessere e la libertà, bene più importante per ogni uomo. La certezza che il loro grande sacrificio non è stato vano lenisce, ma solo in parte, l'enorme dolore che ha pervaso i cuori della mamme, delle spose, dei figli, dei nonni e di tutti gli amici di questi nostri piccoli grandi eroi. Molti dei quali senza medaglia. A loro va e andrà sempre il nostro sincero e commosso ringraziamento.

Linea Gotica: osservatorio tedesco sul monte Folgorito

Ho letto l'interessante libro, ricco di tante belle fotografie, intitolato "Viaggi nella Storia – La linea Gotica agosto 1944 –aprile 1945  I luoghi dell'ultimo fronte di guerra in Italia", edito da Il Giornale, che mi ha donato mio figlio Orlando, giornalista che scrive per tale testata giornalistica online. La prima cosa che mi appare davanti agli occhi è la fotografia dell'osservatorio sulla vetta del monte Folgorito, scattata da Davide Del Giudice, che d'un colpo mi ha fatto ricordare di avere visto quel luogo quel giorno che visitai, 70 anni fa, dopo lo sfondamento del fronte avvenuto nel mese di aprile del 1945. La Versilia fu l'estremo limite della Linea Gotica, in cui furono combattute per sette mesi aspre battaglie, con i tedeschi che riuscirono a fermare l'avanzata delle truppe alleate.
Appena ho aperto il libro mi è riapparsa davanti agli occhi l'immagine di quell'osservatorio tedesco dove notai, con sorpresa, che proprio sui sassi posti davanti all'ingresso erano stati abbandonati un paio di particolari calzature che noi ragazzi di Seravezza chiamavamo “sgroi”. Un paio me li fece fare anche mia mamma da un falegname, nostro vicino di casa, che si chiamava Carducci. Si trattava di una tomaia di vecchie scarpe, attaccata con piccoli chiodi sugli zoccoli. Ho scritto tanti racconti relativi al periodo tragico vissuto durante lo sfollamento, pubblicati sul periodico "Versilia Oggi", diretto dal giornalista Giorgio Giannelli. Sfollamento imposto da un ordine criminale impartito dai tedeschi. Ho visto saltare in aria la mia casa insieme alle altre del mio rione. Alcuni ricordi li ho riportati nel mio libro intitolato “Quando cadevano le castagne”.
Ancora oggi non so come sia riuscito a sopravvivere durante i sette mesi in cui la guerra insanguinò la nostra Versilia, alla fame e ai tanti atroci stenti. Non avevo mai parlato di questi "sgroi" coi quali il soldato tedesco teneva i piedi al riparo dal freddo invernale, perché non la ritenni una notizia importante.
Ringrazio mio figlio Orlando per il libro donatomi che mi ha fatto ricordare il tedesco ignoto che sui monti della Versilia (i più belli del mondo, come scrisse un corrispondente di guerra americano nell'inverno 1944/1945) soffrì tanto freddo ai piedi, notizia che ora mi fa bonariamente sorridere.

Alla Desiata mossi i primi passi

Ho letto con particolare interesse l'articolo scritto da Tiziano Baldi Galleni intitolato "Deturpato il Paradiso della Versilia", pubblicato su il Tirreno del 7 luglio u.s.. Mi ha colpito perché proprio alla Desiata mossi i miei primi passi di bambino, nato nel settembre del 1930. I fratelli Pellizzari, noti industriali versiliesi del marmo e proprietari di cave di marmi bianchi in Trambiserra, avevano dato lavoro a mio padre nella loro segheria della Desiata, dopo il grave infortuno che gli era capitato nel rigido inverno del 1928-1929, quando la neve imbiancò l'intera Versilia e gran parte d'Italia. Nel percorrere il sentiero per raggiungere o discendere dalla cava sulle Apuane del Vestito, gestita dai fratelli Pellizzari (alle cui dipendenze mio padre già si trovava) non riuscendo a vedere il sentiero a causa della neve troppo alta, scivolò, facendo un salto nel vuoto per cento metri. La neve che lo aveva fatto cadere nello strapiombo l'aveva anche salvato, perché questo suo volo fini su un'alta e morbida coltre di neve. anche se ho sempre pensato che a salvarlo sia stata la Madonna del Cavatore.

Rimase sei mesi disteso su una tavola di marmo dell'ospedale di Massa, dopo un periodo di convalescenza si sposò, ma i dolori di questo casco, come lui spesso me lo ricordava, li risentì, molto gravemente, soprattutto, durante gli anni della sua vecchiaia. Ricordo, ancora il bagno che mio padre stringendomi forte fra le sue braccia, mi faceva fare, mentre anch'io mi stringevo forte a lui per la paura che sentivo di avere nel trovarmi su un tratto del fiume profondo, proprio all'imbocco dell'acqua dove girava il rotore, nel quale c'erano tanti pesci.

Un giorno quando vidi una grossa bodda sul fondo delle scale vicino alla porta d'ingresso di casa, mi spaventai da morire da tanto che era brutta. Quante emozioni provai da piccolo alla Desiata, come avvenne quel giorno che mio padre salì e si distese sul grosso carrello della teleferica il cui impianto terminale era vicino alla segheria, per arrivare sulla cava del Trambiserra per poi proseguire il cammino, tra gli irti sentieri, per andare a trovare i suoi genitori che abitavano in località Strinato vicina a Strettoia dove coltivavano una vigna e un oliveto di proprietà di una ricca famiglia di Seravezza. La teleferica partì dopo che un cavatore colpi con un paletto di ferro il suo filo.

Ho un vago ricordo quando mi aggirai tra i macchinari che facevano girare i telai, procurando molte preoccupazioni alla mia mamma che non si era accorta del mio allontanamento da lei: ma ero stato bravo, non avendo toccato nulla. 

Ricordo di essermi più volte dissetato presso la fontana dove era solita rifornirsi di acqua la locomotiva della tranvia dell'Alta Versilia che era solita caricare e portare a valle i blocchi di marmo a bordo dei vagoni che venivano messi brevemente sul poggio di caricamento ubicato vicino alla segheria. 

Nel piazzale della segheria c'erano tanti giovani raffilatori di Seravezza, tra i quali ricordo Armandino Bandelloni che poi rividi, per anni, al Ponticello di Seravezza, dove la mia famiglia si trasferì in una casa per farmi frequentare l'asilo infantile Delatre. Lì restammo fino al giorno tragico dello sfollamento ordinato dai tedeschi nell'estate del 1944.

Da bimbo mai fui portato a vedere la cascata della Desiata e il Pozzo della Madonna, un luogo che vidi soltanto negli anni del dopoguerra, quando trascorrevo le licenze nella casa dei miei suoceri Pucci Giuseppe e Guerrini Bruna. Per anni notai che era un luogo dove masse di giovani trovavano refrigerio tuffandosi nelle sue fresche acque che uscivano e continuano ad uscire nei mesi asciutti dell'estate davvero da sotto il monte Altissimo, la montagna di Michelangelo.

Nei primi anni 80 nella cascata della Desiata affogò Cristina, la figlia di mia sorella Renata. Ragazzina volle raggiungere quel luogo per rinfrescarsi insieme ad altri coetanei. La sua morte fece sprofondare nel dolore la sua mamma, le sue sorelle e tutti i suoi cari. Mi è di conforto pensare che la sua anima giri negli spazi infiniti del Cielo fra gli Angeli e gli Arcangeli, sotto gli occhi del nostro Dio Misericordioso che ci ha creato.

Concludo dedicando un pensiero a coloro che hanno deturpato un luogo cosi bello e fresco come la Desiata, da anni punto d'incontro per tantissimi ragazzi. Li vorrei invitare a non imbrattare più questo luogo con scritti o segni privi di senso. Provino a dipingere su tela, su carta o altri materiali, oppure si cimentino con un mazzuolo e una subbia per provare a scolpire il marmo (io in età già adulta l'ho fatto, traendone grande soddisfazione, pur non avendo frequentato scuole o corsi). Chissà se fra di loro, salterà fuori un bravo pittore o scultore. Auguri a tutti! Anche alla nostra bella Desiata.