Sulla catena montuosa delle Alpi Apuane si trova il più grande giacimento di marmi del mondo. Le rocce marmifere sono "spuntate" dalla barriera corallina durante il periodo di formazione della crosta terrestre. Mi piace pensare che tale bellezza abbagliò gli occhi di coloro che per la prima volta videro i marmi bianchi e policromi in uno sfavillio di luci riflesse nel cielo. Un bel documentario trasmesso dalla Rai spiega come si sono formate le montagne della Versilia (guarda il video).
Purtroppo nelle zone dove fin dai tempi della Roma antica e degli Etruschi furono aperte le cave, a causa della lunga escavazione di blocchi di marmo sono state distrutte intere colline e versanti di monti. I danni maggiori ovviamente si sono avuti negli ultimi decenni, quando lo sfruttamento è diventato intensivo.
Chi scrive è nato a Seravezza
nel 1930. Ricordo che quando frequentavo la scuola
elementare tremavo quando, mentre stavo tranquillamente seduto sul panchetto, udivo le fortissime esplosioni delle mine poste sulle cave per staccare i
blocchi di marmo (operazione chiamata varata), che poi venivano
squadrati e fatti discendere a fondovalle sulle vie a lizza.
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Amo parlare di esse,
in primis della cava di bardiglio, la prima che vidi, sulla cima
della Cappella, appena sotto la Pieve, quando la scuola elementare
che frequentavo organizzò
una gita per visitare l'antica pieve di S. Martino alla Cappella, che l'intera scolaresca raggiunse attraversando anche tratti delle vie a lizza. Iniziammo a salire da
Riomagno. Giunti davanti alla chiesa della Cappella, sotto la quale
c'era una profonda tecchia, causata dall'estrazione del marmo in quel
tratto della cava, tutti ammirammo la famosa scultura chiamata,
secondo la leggenda, l'occhio di Michelangelo e i resti del portico
da lui disegnato, che rimase distrutto durante la Seconda guerra mondiale. Ammirammo anche l'antica chiesa risalente
all'anno 1000, tutta costruita in marmo.
Le cave di Ceragiola e della Costa le
visitai la prima volta nel dopoguerra, quando la mia famiglia ritornò
a Seravezza al termine di un lungo periodo di sfollamento occupando
una casa ubicata all'Uccelliera con annesso piccolo oliveto e due
vignette di proprietà di un imprenditore del marmo, che aveva assunto
mio padre per lavorare in una cava del monte Costa.
A Compignano la
mia famiglia trascorse un paio di anni dopo la fine della guerra. Nel primo periodo di sfollamento ci trovavamo al Pelliccino e poi a
Giustagnana, Capezzano Pianore e Pietrasanta. Con il ritorno a
Seravezza iniziai a visitare le cave del monte Costa, arrivando fin
sulla cima dove raccolsi un fascio di stecchi da utilizzare per cuocere il cibo Mi arrampicai anche su alcune vecchie
cave del monte di Ceragiola, dove il marmo non veniva più estratto da tempo.
Quando mi recai sulla cava più grande
della Costa, incontrai il capo cava Speroni, che al Ponticello era mio
vicino di casa. Sopra un'alta tecchia vidi salire,
attaccati a delle corde, due cavatori, mentre altri operai erano
intenti a squadrare i blocchi scavati dalla montagna. Altri
operai scaricavano, lungo il ravaneto, i carrelli pieni di scaglie
dei blocchi squadrati.
Quella volta che salii sulla cava, la
più alta di tutte, notai che i cavatori avevano scavato una piccola
galleria molto stretta per collocarci le mine per staccare dal monte
i blocchi di marmo.
I cavatori si davano da fare per
portare a fondovalle blocchi marmo scavati dalla montagna. Notai anche un fabbro accanto ad una forgia, con i carboni accesi, mentre
batteva colpi di mazzolo su un'incudine per affilare le punte
delle subbie e degli scalpelli occorrenti per la squadratura dei
blocchi. Un giorno vidi i lizzatori mentre
facevano scivolare lungo la via di lizza del Monte Costa un grosso
blocco di marmo fino al poggio di caricamento che era a poca distanza
dal palazzo Mediceo.
Non sono mai salito
sulle cave del monte Altissimo, dove dal 1515
al 1518, come ha scritto in un libro don Florio Giannini (Michelangelo all'Altissimo -
“Edizione Il Dialogo 1996), il grande artista scoprì il marmo statuario, il più candido
del mondo, che utilizzò per scolpire i suoi capolavori. E non salii mai neanche sulle cava del Trambiserra, dove lavorò anche mio padre negli anni 30
e dove Michelangelo diresse i lavori per estrarre le colonne che gli
dovevano servire per la progettata costruzione della
facciata della cattedrale di San Lorenzo, a Firenze, che non fu mai
realizzata.
Questo salto indietro di alcuni secoli mi dà l'occasione per accennare al Lodo di Papa Leone X del
28 settembre 1513, quando Seravezza passò a Firenze, sotto cui rimase
fino a quando il Granducato di Toscana, in quel tempo sotto gli
Asburgo Lorena, fu annesso al Regno d'Italia in seguito al plebiscito
del 5 marzo 1860. Seravezza ricavò molti vantaggi e un po' di autonomia anche in seguito al già citato atto di donazione a
Firenze delle cave di Ceragiola e del monte Altissimo. Si deve ai
fiorentini l'impulso dato negli anni successivi all'escavazione di
marmi cui erano interessati sia Michelangelo che Giorgio Vasari ed
altri celebri scultori inviati da Leone X e da Cosimo I per seguire
da vicino l'estrazione dei marmi di cui avevano bisogno per le loro
opere.
Dopo un periodo di abbandono delle cave, che iniziò nel 1668, l'economia di Seravezza si riprese quando J.A. Alessander Henraux nel 1821 fondò l'omonima società sotto
la quale sia l'escavazione che la lavorazione del marmo ripresero a
pieno ritmo, tanto da determinare la crescita di Seravezza a tal punto
da essere considerata la capitale della Versilia.
Mi piace concludere questo mio scritto con una poesia (in dialetto) che ho dedicato a chi lavorava per trasportare il marmo.
In verità li viddì la prima volta
sopra Malbacco, aldilà del fiume,
la matina che ero ito
a ccoglie le more
duve finiva la via a
lizza
de le cave del Trambiserra
che era il tratto più pericoloso
perchè il blocco di marmo
rimase, per pochi momenti,
penzoloni nel vuoto,
prima di arrivà nel fiume,
erino gli Anni Trenta.
La seconda volta li osservai
nel dopoguerra, sulla via a lizza,
de le cave del monte Costa,
facevino scivolà a fondo valle
un grosso blocco di marmo.
intorno al quale stacéino curvi
e inginocchiati
mentre si passavino
e mmovevino pali di ferro
e martini pesi più
di cento chili.
Erino tinti dal sole,
con la gola arsa e il corpo asciutto,
le mane aveino
d’acciao
come i cavi tesi a llo stianto
ai margini de le scoscese vie,
da duve i mmarmi, lentamente,
sfucicavano a ffondovalle,
tra gli urli del capolizza e
dei lizzatori.
“Oh, Oh! A Unce...
Oh! Oh! Bel, Bel!
Molla il tiratore...”
Ora nella valle silenziosa
il merlo tecchiaiolo
ci fa il nido
e sulle vie a lizza,
ricoperte di piante e scepaloni,
aleggia lo spirito
dei mitici antichi lizzatori.