sabato 16 novembre 2013

Mansueto Biagi, un Versilese nato povero

Presentazione del libro "Un Versilese nato povero. I ricordi dei miei primi quarantacinque anni"

Come sta Mansueto? Ecco cosa chiesi ai miei cognati Anna e Giuliano, quando un giorno, di tanti anni fa, andai a trovarli nella loro casa di Vittoria Apuana. “ Sta bene, è di là in camera, si è messo a scrivere le sue memorie...”. Rimasi piacevolmente sorpreso nell'apprendere tale notizia che subito mi indusse a pensare all'impegno che quest'uomo di oltre novant'anni poneva nello scavare e riportare alla luce della memoria i fatti che più lo avevano colpito durante la sua lunga vita. Quando Mansueto mi fece vedere ciò che aveva scritto sui fogli di un quaderno compresi quanto di straordinariamente bello e drammatico aveva raccontato , descrivendo l'estrema povertà in cui aveva vissuto per molti anni; e le sofferenze patite durante l'ultima guerra, soprattutto nel periodo tragico dello sfollamento del 1944- 45 ; per questo lo incoraggiai a continuare. E cosi che é arrivato a parlarci della vita vissuta nell' arco dei suoi primi quarantacinque anni. Arrivato a quel periodo non é stato più in grado di continuare a scrivere poiché le energie non l'hanno più sorretto come si rileva dalla sua stentata calligrafia. E toccato a me,come gli avevo promesso, il compito di elaborare questo libretto, traducendo fedelmente il manoscritto che mi consegnò nel mese di agosto del 2002.

Mansueto fu costretto a ripetere la prima e la seconda elementare, non andò oltre, poiché le istituzioni scolastiche non gli diedero alcun supporto e la sua famiglia non era in grado di aiutarlo; vista anche la condizione di analfabetismo di entrambi i genitori.Nonostante i negativi risultati scolastici, nella sua vita rivelò una viva intelligenza. Era felice quando consegnava tutti i soldi che guadagnava alla madre, che ne aveva bisogno per pagare la spesa alla bottega, vista la precarietà del lavoro svolto dal marito. Da giovanissimo riuscì a comprarsi una bicicletta da corsa pagandola ratealmente, due lire ogni volta che riscuoteva la quindicina per il suo lavoro svolto sulla cava. L'essere riuscito ad acquistare quello che per anni era stato l'oggetto dei suoi desideri lo inorgoglì molto , tanto da indurllo a pensare che “ essere poveri non conta nulla, basta godere di una buona stima da parte degli altri. E' questa la vera ricchezza dell'uomo”. Ciò che è riuscito a trasmetterci Mansueto coi suoi ricordi ci rappresenta uno spaccato della storia di tanta gente della Versilia , che visse in condizioni di estrema povertà.

Egli, ascoltando la voce del suo Angelo custode, ha trovato sempre la forza e il coraggio per andare avanti, senza mai arrendersi di fronte alle numerose avversità che ha incontrato durante il cammino della sua lunga esistenza.
                                                                     
Forte dei Marmi, Novembre 2002


giovedì 14 novembre 2013

I Cavatori del Ponticello

Neppur quando pioveva
i cavatori di Seravezza
a casa rimanevan. Con l'ombrello cerato
camminavan sotto la pioggia
col passo chiodato.
Sulle montagne scavate
arrivavan con altri di Riomagmo
del Monte di Ripa e del piano
che, secondo dove andavano
dal Ponticello transitavano
per raggiungere il Trambiserra
la Costa o la Cappella;
qualcuno fino alla Tacca
dell'Altissimo saliva.
Chi prima passava
i compagni in attesa chiamava:
Gori, Tabarrani, Lorenzi-
i due Bandelloni, l'uno Garibaldo
e l'altro detto Fortino – Santi
e Speroni : Andiamo!
Seppur molto bagnati, speravan sempre
che il tempo si calmasse,
che ritornasse il sole,
per non perdere la paga,
necessaria per comprare il pane.
E quando, finalmente,
il cielo si rasserenava,
la vita sulla cava continuava,
copioso dalla loro fronte
il sudore colava,
ed io dopo tantissimi anni,
li ricordo così
ora che son tutti morti.


mercoledì 13 novembre 2013

Silvano Alessandrini – biografia

Silvano Alessandrini, secondogenito figlio di Garibaldo (poeta insigne della Versilia) e di Elena Tonetti, nasce al Borgo dei Terrinchesi, frazione della piana del comune di Seravezza, il 6 maggio 1920. Interrotti gli studi è chiamato alla armi il 1° aprile 1940 e viene aggregato al 5° Reggimento di fanteria a Rieti. Su sua domanda ottiene l'assegnazione al Corpo degli alpini che lo prende in forza al 4° Reggimento Alpini di Aosta, per poi passare al 6° Reggimento Alpini Divisione Tridentina. Non ancora in zona di guerra nel novembre 1940, fruisce una licenza per esami durante la quale consegue il diploma di maestro elementare presso l'Istituto magistrale “Giovanni Pascoli” di Massa. Sulla fine dello stesso mese, gli viene notificato l'ordine di mobilitazione e viene avviato sul fronte Greco Albanese. A causa dell'assoluta inadeguatezza del vestiario, degli scarponi e dei calzettoni a disposizione, nella zona del lago Pogradec, una schiera di alpini sono colpiti dal congelamento degli arti inferiori. Molti suoi compagni morirono. Silvano ed altri commilitoni riuscirono a cavarsela. Putroppo i postumi del congelamento per Silvano furono molto seri , per evitare una gangrena all'arto inferiore sinistro, gli fu amputata la gamba, all'altezza della parte bassa del terzo medio. Il 25 ottobre 1941, ormai in congedo assoluto, si sposa a Viareggio con Veronica Barghetti e da allora inizia il suo insegnamento presso le scuole elementari di Querceta, Marzocchino e del Frasso.Terminerà nel 1975 dopo aver seduto dietro tantissime cattedre della Versilia, l'ultima della quale fu quella della scuola elementare di Strettoia.
Nel 1958 iniziò la sua collaborazione, assumendone poi anche la direzione, del festival “il Miccio canterino”
E molto prolifico per il festival del “Miccio canterino” scrisse 22 pezzi che io definisco bellissime scenette teatrali in dialetto versiliese. Nel contempo, sotto pseudonimo, scrisse 26 romanzi gialli, editi, i primi tre, dalla Tribuna Edizioni Piacenza, e, gli altri, dalla EPI Edizioni periodiche italiane di Roma.
Concludo con quanto scrisse nella parte finale della sua prefazione, il professore Danilo Orlandi, nel presentare il libro di Silvano “ La scartocciata” che ho nello scaffale dei miei libri, che fa riferimento al teatro popolare breve e rime sparse, e riporta anche divertenti bei racconti dell'Alessandrini e la poesia Un orto grande: “ Silvano con lavori di teatro, di narrativa e in versi per anni ha compiuto un'opera che già può dirsi di recupero, e fissa in documenti letterali il mondo autentico di una Versilia, di cui fra poco gli echi saranno spenti. Ferma infine un fatto linguistico, tramandando la parlata versiliese nella sua effettiva entità di discorso organico, cioè di reale linguaggio. La sua fatica, per questo verso è unica e meritoria. Per onorarne la sua memoria da anni è stato istituito in Versilia, dei quattro comuni storici, il premio di poesia dialettale, intestato, al suo nome.
Renato Sacchelli
IL MULO BRUNETTO


Amo ancora parlare del mulo, questo animale ibrido e infecondo, nato dall'unione di un asino e di una cavalla, sin dai tempi più antichi utilizzato dall'uomo per trasportare materiali e viveri nelle località montane, raggiungibili percorrendo, soltanto, difficili sentieri. Molto vigoroso, ha esigenze alimentari qualitativamente modeste. E' un simbolo di testardaggine e ostinazione. Con la costituzione del Corpo degli alpini avvenuta nel 1872, questo animale si rivelò un veicolo a motore a quattro zampe e fu impiegato nelle attività operative dagli alpini, in particolare durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, trasportando sulle impervie trincee, scavate fin sulle più alte vette alpine, dove si erano trincerati i nostri soldati, armi, munizioni e viveri. I muli furono impiegati anche durante la sanguinosa guerra combattuta in Russia per assicurare i necessari rifornimenti ai nostri soldati, operanti nelle zone dove furono combattute aspre battaglie.
Giorgio Giannelli sul libro “La Versilia ha vinto la guerra” oltre alle tante pagine di eroico valore scritte col sangue da tutti i nostri soldati che combatterono su ogni fronte, ha narrato anche il racconto che ci ha lasciato l' alpino Silvano Alessandrini, famoso scrittore e poeta dialettale versiliese, che fu schierato col suo reggimento sul fronte greco-albanese. Silvano racconta quel giorno che stava seduto su un muretto con un piede congelato. Teneva una coperta ripiegata sul suo corpo e le scarpe slacciate. Mentre si palpava i fori sotto i calzettoni di lana, udì una voce inconfondibile che gli fece alzare il capo. Vicino a lui, sul muricciolo di pietre, erano stati messi zaini affardellati. Accanto a quelli deposti sull'erba ricoperta dalla neve stavano seduti una decina di alpini che mangiavano delle gallette. Tra loro c' era un alpino che indossava il grado di tenente. L'ufficiale portava sulla testa il cappello nuovo di zecca con penna a 85 gradi. Lo sguardo del tenente fissato sulle montagne innevate si abbassò per un attimo su Silvano, poi si voltò per impartire ordini ai suoi soldati. Proprio in quel momento Silvano instintivamente lo chiamò ad alta voce: “O Tito!”. Il tenente, che stava un quindicina di metri di distanza, si volse di scatto e lo fissò. Quella voce l'aveva impietrito, perché l'accento gli risultava, familiare,  ma l'aspetto molto malconcio dell'alpino non gli aveva consentito di riconoscerlo. Silvano invece lo riconobbe. Chi gli stava di fronte era Tito Salvatori, di Strettoia (Pietrasanta).
“Chi sei?”, gli chiese il tenente dopo un attimo, senza muoversi, fissandolo intensamente. Silvano non gli rispose. Allora l'ufficiale , facendo alcuni passi, si mosse lentamente verso di lui.
“Chi sei, per Dio!”, esclamò con foga il tenente. “Sono Silvano. Silvano Alessandrini”. L'abbraccio che seguì fu forte, lungo e molto commovente. Entrambi rimasero abbracciati per un po' di tempo con le lacrime agli occhi. “Tu in questo stato... disse balbettando Tito. Poi tirò fuori dalle tasche un pacchetto di sigarette che donò a Silvano, rammaricandosi di non avere altre cose da offrirgli. Tito accompagnò Silvano, sorreggendolo, in una stanza sotto una casupola di bianche pietre dove c'era della paglia, poi uscì per andare a trovare qualcosa, mentre lui rimase in attesa del suo ritorno sdraiandosi sulla paglia. Tito ritornò poco dopo con alcune pagnotte.“Non ho trovato altro” gli disse, e aggiunse: “Se è vero che che l'argent fa la guerra, per Dio, noi non vinceremo”. Infine lo aiutò ad uscire da quella stanza in penombra perché voleva fotografarlo. Ci riuscì un po' malamente perché le mani di Tito ancora tremavano. Fu quella foto l'unico ricordo della travagliata guerra combattuta dall' alpino Silvano Alessandrini, che lui conservò sempre nel portafoglio finché visse.
Dopo aver scattato la fototografia Tito disse a Silvano che doveva allontanarsi per raggiungere il comando del reggimento, dove era passato anche Silvano, assicurandogli che al suo ritorno gli avrebbe portato qualcosa. Ma Silvano non lo rivide più.
Un'ora più tardi, sul calar della sera, Silvano sentì il passo di un mulo vicino alla porta e udì una voce che disse: “Caporale andiamo!”. L'Alessandrini si alzò. Essere rimasto disteso sulla paglia aveva riacutizzato i dolori ai piedi. Incespicò nel fare i primi passi, motivo per cui fu sorretto da mani robuste che lo afferrarono sotto le ascelle e lo issarono in groppa al mulo. Gli “sconci” (conduttori dei muli) che avevano condotto fin lassù i gli animali carichi di pagnotte, si apprestarono a ridiscendere il monte con Silvano in groppa ad uno di essi. “Tu - disse a Silvano l'uomo che teneva l'animale alla cavezza, - se vedi l'animale che ti disarcia digli: 'Brunetto', intesi? Lui è il più coglione della batteria, ma è intelligente”. Silvano capì le parole dello sconcio quando la colonna dei muli si incamminò giù nei passaggi più difficili, esponendo i suoi piedi al rischio di uno sfregamento quando la pancia del mulo sfiorava contro la roccia nei tratti più stretti dei passaggi sul ripido sentiero. Soltanto una volta sentì questo sfregamento, ma senza patire alcun dolore. Richiamò il mulo soltanto due volte. Fu così che notò che l'animale, dopo essere stato richiamato, rallentava il passo e procedeva più cautamente evitando di sfregare nelle rocce. “Bravo Brunetto”, diceva lo sconcio senza voltarsi, spostando solo il capo verso il muso del mulo.
Intanto era scesa la notte di luna piena. Attraversando la valle a mezza costa i muli camminarono ancora sui sentieri a strapiombo. Silvano si sentiva al sicuro in quanto il mulo poneva le zampe una davanti all'altra, tanto da sembrare che il mulo stesse danzando. Fu così che l'animale, evitò pericolosi sobbalzi non ponendo mai lo zoccolo in fallo.
Silvano sentiva il caldo del dorso del mulo sotto il suo deretano, e la flessione dei muscoli sui fianchi della bestia, che ogni talto accarezzava con la punta dei piedi.
Quando i muli arrivarono in una stretta valle la carovana si fermò. Dopo essere stato scaricato e trasportato in una vicina capanna, nella notte chiara il mulo raggiunse la distesa di un mare di erba dove, senza rispondere al saluto dell'alpino versiliese, Brunetto tuffò il muso per riempirsi la pancia.


Renato Sacchelli


P. S. Silvano ricevette le prime cure in Albania. Rientrato in Italia fu curato a Roma, all'ospedale militare del Celio, dove gli furono amputati un piede e una gamba. Per gli interventi subiti fu degente anche all'ospedale Italo Balbo del Cinquale (Massa Carrara).