venerdì 1 aprile 2011

Gli anni della mia fanciullezza

Per noi ragazzi del Ponticello di Seravezza degli anni 30, i monti e in modo particolare i fiumi, furono i punti di incontro e di divertimento, specie durante i mesi caldi delle stagioni estive.
Quando in questi mesi il livello delle acque del Serra si abbassava, nei pressi del grande molino del Bonci, costruivamo degli sbarramenti con sassi e piote (in versiliese, erano ciuffi d'erba che strappavamo sulle spoinde del fiume, con tanto di radici) per innalzare il bozzo d'acqua dove nuotavamo e facevamo veleggiare le barchette con gli scafi ricavati dalla corteccia delle piante di pino.
Piccole ruote con palettine, fatte dai ragazzi più ingegnosi ed attrezzati, giravano in continuazione sotto il getto dell'acqua che qualche volta anch'io ne bevvi alcuni sorsi tanto scorreva limpida tra i sassi lungo la riva.

Visto come mi divertivo la mia buona mamma un giorno acquistò e mi donò un motoscafino che si muoveva sull'acqua, dopo avere acceso il motorino funzionante, con un congegno, che funzionava col calore della piccola fiammella che accendevo ogni volta che lo mettevo sull'acqua. Era comunque un giocattolo fragile che quasi subito si ruppe.

Nel fiume vi erano molti pesci scaglioni e anguille, tant'è che la pesca che praticavamo con canne rudimentali, costituiva un altro piacevole passatempo.
Il trasporto dei blocchi di marmo, di quelli lavorati e dei sassi, veniva eseguito dai mezzi della “Tranvia Alta Versilia”, da grossi carri , barrocci e cavalli e mambrucche , tirati da buoi (una volta ne contai tre o quattro coppie) e cavalli , lungo strade incredibilmente polverose d'estate e piene di “elto” fango d' inverno,

Il passaggio della sbuffante locomotiva a vapore con la lunga fila di vagoni agganciati attirava costantemente l'attenzione di noi bimbi (in particolare quando si fermava al Ponticello per il rifornimento di acqua), per lo spettacolo di potenza che sprigionava tale mezzo di trasporto rispetto a quelli tradizionali effettuati con l'impiego appunto di buoi e cavalli.
L'ambiente che ci circondava , caratterizzato da un fitta verde vegetazione, da stormi di rondini e da falchi che in coppia sovente volteggiavano sopra le nostre case, a me appariva meraviglioso.
La miseria, in quel periodo storico generalizzata, noi ragazzi, quando si stava insieme, non l'abbiamo mai sentita, tanto era grande la nostra gioia di vivere.
Si capivano però dalla scarsezza del cibo , dai calzoncini più volte rattoppati, dalle magliette rammendate, e dall' uso degli zoccoli, le difficoltà che dovevano affrontare i nostri genitori per farci crescere.
Ci eravamo abituati a camminare scalzi con molta naturalezza, sotto questo aspetto mi pare di essere cresciuto in un mondo primitivo.
La Befana arrivò sempre puntualmente nella mia casa, Ricordo ancora la gioia che provai le mattine quando, un anno, mi portò un tamburino di latta e l'anno successivo un fuciletto che sparava tappi di sughero. I chicchi, fichi secchi, e noccioline, non mancavano mai in fondo al mio letto il giorno della Befana.

Palline di terracotta colorate, vetroline e qualche marmolina, quest'ultime fatte da ciascun ragazzo limando piccoli sassetti raccolti nel fiume, non sono mai mancate nelle tasche dei nostri pantaloncini.
Non avevamo palloni e neppure palle, ma eravamo lo stesso contenti quando riuscivamo a giocare nella strada con una grossa palla fatta di stracci e di carta
Divertente era anche il gioco al “ Chinè cambrì, buttilo il pirulì”, effettuato con un bastone e un pezzetto di legno con le due estremità affusolate, Colpito il pezzetto di legno con la punta del bastone, mentre girava su se stesso ad una certa altezza, veniva nuovamente colpito con l'intento di farlo cadere dentro il cerchio tracciato sul terreno ad una determinata distanza.
Emozionanti erano anche i momenti dedicati alla cattura di fantastiche farfalle e di ”paranculi”. Ricordo che correvo felice sull'erba alta cresciuta sulle piane dell'orto della mia nonna materna. Fino a quando abbiamo creduto che le lucciole splendenti facessero i soldini, la sera ci fermavamo nelle strade buie del Ponticello per catturarle e metterle sotto un bicchiere.

Tante volte ci arrampicavamo sulle rocce sotto “La Mezzaluna”. Sulla trincea che costruivamo coi sassi, così per gioco, garriva al vento ls nostra bandiera. Spesso giocavamo nella frescosità dell'ombra dei castagni, con una maggiore vigoria fisica dovuta all'aria pura che respiravamo e molte erano le corse che facevamo nelle strade dietro vecchi cerchioni di bicicletta, fatti girare sotto la spinta di un filo di ferro stretto nella mano.

All'asilo indossavamo la divisa di ”Figlio della lupa" ed alla scuola quella di "Balilla”, per essere nominati “Balilla moschettieri” ci fecero giurare fedeltà alla “causa della rivoluzione fascista”.
Negli anni della guerra cantavamo “Vincere e vinceremo...” ed altri inni patriottici, ma i sogni di vittoria svanirono definitamente quando arrivarono i giorni drammatici dello sfollamento dell'estate del 1944, durante i quali le S.S tedesche commisero l'orrenda strage di S.Anna di Stazzema ed altri crimini efferati contro una pacifica ed inerme popolazione.

Continuammo a patire la fame anche dopo l'arrivo delle truppe americane. Per sopravvivere mangiavamo quanto rimaneva nei piatti di alluminio di ogni singolo soldato americano. Queste scene di estrema disperazione si ripeterono davanti alle loro cucine per sette mesi.
Ciascuno di essi anziché gettare gli avanzi nell'apposito bidone, pazientemente le riversava nei nostri bricchi.
Durante gli anni della mia infanzia , vidi le chiese di Seravezza sempre gremite di fedeli, a testimonianza di una antica e profonda religiosità cristiana.

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