giovedì 31 maggio 2018

Non ho mai più bevuto un'acqua così buona


Ero un bambino sui sei o sette anni quando la mia cara mamma era solita portare me e mio fratello Sergio al mare a Forte dei Marmi. Ricordo che a Seravezza faceva molto caldo ed era bello per noi ragazzi poter fare dei bei bagni vicino alla riva del mare, dove l’acqua non era profonda, e quindi non correvamo alcun pericolo.

Il mio babbo in quel tempo era andato, con altri dieci cavatori di Seravezza, tra i quali ricordo Sandrino Neri, marito dell’Adalgisa, a lavorare in Africa come operaio addetto alla costruzione delle nuove vie di quel territorio, conquistato dopo la guerra italo etiopica (1935-36) combattuta in Abissinia contro il negus Hailé Selassié e la "conquista dell’impero" voluto da Benito Mussolini.

Forte de Marmi la raggiungevamo a piedi. Quando finalmente arrivavamo, ci toglievamo gli zoccoletti o i sandalini e camminavamo sulla spiaggia, la rena scaldata dal sole scottava i nostri piedi. Sostavamo sotto il pontile per un po' di tempo per riparaci dal sole. A mezzogiorno ci spostavamo nella vicina pineta, dove mangiavamo delle ​polpette eccezionalmente saporite che la sera prima mia mamma aveva preparato per mangiarle al mare. Erano davvero molto buone. Con sorpresa lo stesso sapore lo risentii e ancora lo risento nelle polpette che mi cucinò (e ancora oggi lo fa) mia moglie Angela Pucci, seravezzina come me.

Non siamo mai entrati in un bagno dotato di cabine, con gli ombrelloni e sedie a sdraio, in quanto mio padre in Africa percepiva un paga lorda giornaliera di lire 40, detratte lire 3,80 per il vitto giornaliero, e comprate le sigarette e qualche bicchiere di vino, gli rimanevano poco più di 30 lire al giorno. Si stentava a tirare avanti.

Quando sostavamo in piazza Garibaldi di Forte dei Marmi, prima di iniziare il viaggio per tornare la sera a casa, ci ristoravamo bevendo un bel bicchiere di acqua all'anice, servita con il ghiaccio. La vendevano due donne, una anziana e l’altra molto giovane. Appena la bevevamo ci pareva di rinascere. Le due donne come attrezzatura di lavoro avevano fatto costruire un banco a forma di barchetta, dove tenevano i bicchieri e i recipienti contenenti l’acqua aromatizzata.

Sul libro "La Versilia Rivendica l’Impero" di Giorgio Giannelli a pag. 263 è riprodotta  la foto delle due donne intente a vendere ​l’acqua, che veniva preparata  dalla più anziana, Lorenza Paolicchi, detta la "Lorè dell’acquetta". Con lei c'era sua nipote, Raffaella Gianfranceschi.

L’acqua era a base di limone e anice e veniva servita con il ghiaccio. Era una bevanda dissetante e prelibata. I tanti versiliesi del fiume che scendevano dalla montagna per farsi un tuffo al mare, si fermavano al banchetto della Lorè per combattere l'arsura dell'estate con un bel bicchiere di questa buonissima acqua. Quel sapore fresco e piacevole mi è parso di risentirlo quando mio figlio mi ha regalato, non molto tempo fa, delle caramelle all'anice.

Renato Sacchelli

mercoledì 23 maggio 2018

Due angeli nel pozzo


Un uomo, col volto
da lacrime bagnato
dall’orlo del pozzo
col microfono in mano
attaccato a un filo
penzoloni nel vuoto
parlava al bambino:
“Stai calmo, tranquillo,
non disperarti Alfredino.
Una macchina bella
splendente come una stella
è partita e ti raggiungerà,
tra poco ritornerai
tra le braccia
di mamma e papà.
Sì, è davvero fantastica,
a te parrà irreale...
sai, perfora la terra,
raggiunge la luna
lambisce le stelle
e tocca il fondo del mare.
Stai calmo Alfredino".

Per ore e ore
il buon Nando parlava
e il piccino lo sentiva vicino.
Erano le parole che udiva
a scaldare il suo corpicino.

E con le cose belle
che il vigile del fuoco diceva
Alfredino, nel buio profondo,
rivedeva la luce, il sole,
i prati fioriti e i giochi felici.

Il tempo però passava
e come la tv ci mostrava
la macchina non arrivava.

Era l’udire il pianto straziante,
a farci sentire il suo soffrire,
il lento morire sprofondato
a decine di metri più giù.

C’è stato un momento
in cui s’è davvero sperato
che venisse salvato
dai coraggiosi giovani
che legati alle corde
nel pozzo si son calati
e hanno raggiunto
il piccolo Alfredino,
ma invano hanno lottato,
il fango la loro stretta
ha allentato
e con poco fiato
non hanno più riprovato.

Dio che tanto abbiam pregato
perché vivo dai suoi cari 
potesse ritornare
solo non l’ha lasciato.
Un angelo gli ha mandato
che ha accarezzato,
asciugato e baciato
quel caro e piccolo
volto infangato
finché sul suo viso
è riaffiorato il sorriso
e dolcemente
si è addormentato
per sempre in Paradiso.

Renato Sacchelli



Dedico questa poesia all'amico don Giorgio Servi, che purtroppo ci ha lasciati diversi anni fa. Fu lui, dopo avergliela letta, a suggerirmi di concludere con le parole "in Paradiso".

giovedì 19 aprile 2018

Anche a Seravezza prediche inutili

Ripropongo un articolo che scrissi per Versilia Oggi il 4 novembre 1985. Sono passati molti anni e diversi lavori sono stati fatti. L'acqua del fiume non è più torbida e inquinata come una volta, e il cimitero non è nelle condizioni disastrose in cui si trovava all'epoca. Molte cose però restano da fare. E i cittadini non devono mai smettere di far sentire, forte, la propria voce. 

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La politica più incisiva è quella che parte dalle piccole cose. Proviamo ad elencarle. In Versilia ci sono ancora persone che scaricano nel fiume rifiuti di ogni genere. Sovente vedo l’acqua torbida scorrere su un letto pieno di melma e fango, che a lungo andare causerà la cessazione di ogni forma di vita esistente in tale mondo acquatico. Poi, quando cadrà molta pioggia, ci penserà la piena a riversare nel mare tutti i rifiuti e così l’inquinamento continuerà ad allargarsi.

Per la salvaguardia della vita del fiume, vitale per la continuazione di quella degli uomini, occorrono adeguate e continue misure di sorveglianza. Se le attuali leggi non sono sufficienti, il legislatore dovrà impegnarsi ad emanare nuove norme più efficaci per far sì che nel fiume scorra sempre acqua limpida. Insomma ogni sforzo dovrà essere fatto perché non venga trasformato in una fogna di scarico di liquami velenosi: certamente il fenomeno è esteso. Ne sono interessate diverse regioni d’Italia ed anche altre nazioni. Ma io desidererei che nella nostra bella Versilia tutto ciò non accadesse.

Tempo fa alla periferia di Forte dei Marmi, ai margini di strade interne, ed anche in mezzo di alcune pinete, ho visto rottami di un televisore, bottiglie vuote, sacchetti di immondizia, persino materiale di scarico derivante dalla ristrutturazione di immobili. Non è questo il modo di comportarsi. Non si può pretendere che gli addetti al ritiro di tali rifiuti arrivino dovunque. Non ce la potrebbero mai fare. Dobbiamo dare loro una mano. Come? Basterebbe concentrare i rifiuti nei punti di raccolta e scaricare gli altri materiali nei luoghi consentiti. Che bello sarebbe vedere tutto il territorio della Versilia accuratamente pulito e che ricordo indimenticabile della nostra terra si porterebbero a casa i turisti al rientro dalle vacanze. Nel 1959 mi recai un giorno a Lugano. Oltre alla bellezza di quel paesaggio lacustre, mi colpì il fatto di non avere notato, nelle strade, neppure un pezzettino di carta: erano tutte estremamente pulite.

Ogni tanto mi reco al cimitero di Seravezza dove sono sepolti cari parenti, amici e tante persone che ho avuto modo di conoscere. Per ciò che furono in vita e per tutto quello che seppero tramandare ed insegnarci coloro che ora vi riposano, il cimitero è un luogo sacro e come tale deve essere ben tenuto mentre le condizioni in cui si trova quello di Seravezza lasciano molto a desiderare. I morti vengono sepolti, ma poi? Un tratto del muro di cinta (parte alta a destra salendo) è sostenuto da paletti di legno che sono ridotti in pessimo stato d’uso a causa della lunga esposizione alle intemperie. Quindi sta per crollare. Dietro il muro pericolante sono stati ammucchiati, detriti, forse prodotti dai lavori di costruzione di nuove tombe. Il crollo provocherebbe anche la rovina dei marmi scolpiti che adornano le vecchia tombe, sarebbe un peccato perché si tratta pur sempre di opere d’arte. Infiltrazione dal tetto di acqua piovana hanno ridotto le pareti interne della cappellina, ubicata al centro più in alto del cimitero, in uno stato pietoso.

Vetri rotti alle finestre completano il quadro desolante. Urgono quindi urgenti lavori di riparazione e di imbiancatura dell’immobile. I servizi igienici , pieni di sporcizia e di residui di materiali per la costruzione di tombe (cemento contenuto in sacchetti di carta) sono visibilmente in disuso da molto tempo. Dal rubinetto dell’acqua all'interno del cimitero in certi giorni non esce una goccia d’acqua. Bisognerebbe quindi installarvi un deposito. Sono stato informato che alcune persone in visita ai loro cari defunti, a causa dell’inefficienza dei servizi igienici, sono stati costrette a ritornare frettolosamente a casa per soddisfare impellenti necessità personali.

Qualche volta fra la terra accumulata ai bordi delle tombe appena scavate ho visto brandelli di stoffa e pezzi di legno delle casse che contenevano i morti. Certe visioni anche se ci inducono a meditate riflessioni non sta bene vederle. Ritengo che quando le persone visitano il cimitero tutto dovrebbe essere in ordine. Alcuni scalini di marmo sono sconnessi (lato destro salendo) e qualche persona potrebbe inciamparvi e farsi del male. Il senso di smarrimento maggiore l’ho provato quando domenica mattina il 14 luglio 1985 ho notato nel locale adibito alle eventuali “autopsie” delle salme , diversi sacchetti di plastica contenente le ossa dei morti dissepolti per consentire la tumulazione nella terra delle persone decedute negli ultimi tempi. Forse non è più possibile accedere all'ossario, visto che la porta d’ingresso è legata con fili metallici ad alcuni paletti di legno messi all'esterno in modo orizzontale. Forse è necessario costruire un nuovo ossario?

Di fronte ai resti dei nostri simili tutti dovremmo inchinarci in linea generale. E quando non ci sono richieste dei familiari per deporli in apposite cassette da sistemare in altre tombe, dovrebbero essere messi tutti insieme in una stanza ampia ed illuminata da fasci di tenua luce, in modo da farli apparire come elementi di una costruzione a forma piramidale, una sorta di monumento alla ritrovata fratellanza, troppo spesso in questo mondo dimenticata. Ecco come sistemerei le ossa di coloro che non si possono permettere di avere un’altra sistemazione, oppure desiderano essere sepolti nella terra. Una sistemazione siffatta mi sembra suggestiva e bella, tale da onorare degnamente i defunti. Invece a Seravezza li ho visti in sacchetti di plastica e se le cose non cambieranno, un giorno la stessa sorte toccherà ad altri e nessuno potrà lamentarsi.

Tramite Versilia Oggi, su cui si riflettono tutte le facce della realtà versiliese, vorrei invitare il signor Sindaco di Seravezza e le altre Autorità comunali ad adoperarsi nel modo migliore possibile sia per impedire l’inquinamento delle acque del fiume e sia per dar corso al lavori necessari affinché il cimitero divenga il più bello e funzionale della Versilia. Lo chiedo anche a nome di diversi lettori del suddetto periodico, perché sono stati loro a pregarmi di descrivere le condizioni attuali del fiume e del cimitero.
Renato Sacchelli

mercoledì 7 marzo 2018

Chierichetto a Seravezza i primi anni del 1940


All’inizio degli anni 40 iniziai a frequentare la  parrocchia  di Seravezza, facente parte della Diocesi di Pisa, nella cui canonica si riunivano festosi  molti ragazzi. Ricordo che  c‘erano tanti chierichetti che dedicavano il loro tempo libero ad assistere  i sacerdoti quando celebravano le Sante Messe e le altre funzioni religiose che erano i   Vespri cantati, le  Processioni, i  Battesimi, la scopertura del  quadro della Madonna del Soccorso, i Matrimoni  ed i  Funerali dei nostri parrocchiani defunti.
 Siccome vidi che fra noi ragazzi c’era amore,  rispetto e gioia di vivere, decisi anch’io di divenire un chierichetto iniziando, prima di ogni altra cosa, a servire la Santa Messa che allora si celebrava in  latino.
In quel tempo ero già grandicello, forse  frequentavo la terza o quarta classe elementare. Ricordo che nel giorno della festa delle Palme sin da quando ero più piccolo di età, noi bambini andavamo in chiesa portando ognuno di noi i palmizi  dentro i quali c’era una piccolissima figura del neonato bambino Gesù,  formato da un impasto zuccherino  secco, che, terminata   la festa,   lo succhiavamo, provando anche  un certa emozione facendolo disciogliere  nella nostra bocca.  Quindi pensandoci bene , non fui mosso dalla ricerca di un qualcosa di nuovo per passare le giornate, ma perché sentivo di essere attratto dalla fede nel Cristo Redentore, che era stato inchiodato sulla Croce per salvare l’Umanità dal peccato originale. Durante la sua vita terrena Gesù compì miracoli  incredibili, quali furono la moltiplicazione dei pani, far risuscitare Lazzaro , infine salì in cielo dopo la sua morte inchiodato sulla Croce per vivere accanto al suo ed anche nostro Padre celeste. Sentii da piccolo che Gesù aveva conquistato il mio cuore, perché lui predicava amore, carità e perdono,   il suo emblema è rappresentato dalla Croce.
L’attrazione verso la nostra chiesa aumentò quando sentii parlare di don Giovanni Bosco, il santo  e apostolo  della carità cristiana, nato in contrada Becchis c. di Castelnuovo d’Asti  il 16. 8.1815, deceduto a Torino il 31.1.1888. Si dedicò alla cura dei fanciulli poveri o abbandonati per dare ad essi una educazione ed un mestiere. Per realizzare tutti i suoi ottimi progetti anche  a livello mondiale fondò nel 1859  la Congregazione dei Salesiani, per l’educazione e l’istruzione della gioventù  più bisognosa  e delle figlie  di Maria Ausiliatrice  per le ragazze abbandonate, tant’è che i suoi principi educativi ebbero una grande diffusione nelle parrocchie italiane,  in tutta l’ Europa  e nel Sud America. Fu beatificato il 19 marzo 1929 e proclamato Santo il 1° aprile  1934 da Pio XI.
Ricordo quando d‘inverno mi alzavo molto presto  dal letto  tutto infreddolito e con le mani che mi duolevano perché intirizzite dal freddo (un malessere  chiamato in dialetto versiliese “gronchio”) , mentre raggiungevo,   con gli zoccoletti ai piedi  protetti dai calzettoni di lana di pecora che mi faceva la mia mamma, il Duomo di Seravezza intitolato ai Santissimi Lorenzo e Barbara il cui parroco era monsignor  Angelo Riccomini coadiuvato dal Cappellano  Don Giuseppe Bertini, nato a Barbaricina zona periferica di Pisa, trucidato dalle SS tedesche nel 1944,  medaglia d’oro al valor militare,  di cui ne ha già parlato su Vita Nova del  28.5.2017  Antonio F. Gimignano.
Più di una volta anziché attraversare le strade di un paese ancora non completamente illuminate dalle luci del giorno, mi pareva di percorrere un paesaggio lunare col ghiaccio a forma di candele  formatesi sotto le gronde dei tetti a seguito dello sgocciolio delle ultime gocce della pioggia caduta sulle case di  Seravezza, oppure dallo scioglimento della neve  la cui coltre aveva imbiancato Seravezza.
 Ricordo di avere servito la Santa Messa anche all’ anziano sacerdote Don Binelli che era un cugino della mia mamma,  che spesso vedevo uscire all’ora del pranzo insieme a tutti gli altri impiegati della  filiale  del Monte dei Paschi di Siena di Seravezza , tanto da farmi immaginare  che fosse anche lui un impiegato di questa nostra antica banca Toscana. Sicuramente Don Binelli   doveva conoscere i bisogni della mia famiglia, col babbo cavatore che quando si scatenava il bruttissimo tempo (forte pioggia e caduta della neve)  non poteva raggiungere la cava e quindi  in casa  non avendo altre entrate di   denaro all’infuori di quelle derivanti dal  lavoro di mio padre,  eravamo nell’impossibilità di pagare la spesa che ogni giorno si doveva fare per sopravvivere. Meno male che c’erano i bottegai che segnavano a loro credito le vendite  dei generi alimentari, dando,  la possibilità ai cavatori di saldare i debiti  quando venivano pagati per il loro lavoro. La sopravvivenza di  molte famiglie si deve quindi a questa benemerita categoria di commercianti.

Una mattina don Binelli,  dopo avergli servito la Santa Messa si avvicinò a me mettendo nelle mie mani mezza lira,  dicendomi:  “Mettila in  tasca e non ci rumare. Non la devi  spendere, devi darla alla tua mamma. “ Appena arrivai a casa diedi,  con molta gioia,  quella mezza lira alla mia cara mamma.
I recenti gravissimi episodi che vedono coinvolti la cosiddette baby gang mi hanno  fatto ripensare  agli anni in cui  anch’io  ero un piccolo fanciullo  che però voleva crescere e vivere nella fede in santa pace con tutti i miei coetanei e non nel disordine  e nella violenza.


                                                                                                                                      Renato Sacchelli

martedì 9 gennaio 2018

NEC RECISA RECEDIT

Ecco il motto araldico che si vide sullo sfondo della gigantesca fotografia dei leader che parteciparono al summit del G8 a l’Aquila presso la scuola Allievi Marescialli della Guardia di finanza di Coppito dove si svolse l’importante incontro tra i cosiddetti grandi della terra e che io avevo già scolpito nel mio cuore dal 15 luglio 1949, quando iniziai a frequentare a Roma, nella caserma Piave, il corso di allievo finanziere. 

Fu il poeta soldato, Gabriele d’Annunzio, cavaliere, marinaio ed aviatore, decorato di due medaglie d’oro, tre di argento ed una di bronzo che volle dedicare alla Guardia di Finanza, per iscritto, questo motto araldico divenuto patrimonio spirituale e viatico di fede per quanti hanno onorato ed onoreranno il Corpo compiendo fino in fondo, oltre ogni ostacolo, il loro dovere. 

I rapporti tra i militari della Guardia di Finanza e il poeta soldato iniziarono il 10 dicembre 1918, quando, dopo tre giorni di marce dure, giungeva a Fiume la XXX compagnia della Guardia di Finanza messa alla diretta dipendenza del corpo di occupazione interalleato con compiti di vigilanza nel porto e di polizia marittima lungo le coste e della costituzione di una dogana interalleata. Il 15 luglio 1919 il reparto fu rinforzato con la 9° compagnia del III battaglione mobilitato e successivamente da altri finanzieri, arrivando a costituire il battaglione che d’Annunzio ispezionò il 21 ottobre successivo. In quella occasione il, Poeta soldato pronunciò un grande discorso:

“Le Fiamme Gialle sono rimaste con me a difendere l’italianità di questo sacro lembo di terra nostra. I finanzieri d’Italia che possono gloriarsi di avere sparato al ponte di Brazzano il primo colpo di fucile della nostra guerra di riscossa, che in tutte le guerre che prepararono e compirono il nostro Risorgimento, dalle cinque giornate alla difesa di Roma, dall’assedio di Venezia fino all’attuale guerra dove nei più fieri combattimenti di Pal Piccolo, degli Altopiani, del Trentno, del Podgora, del Carso e del Piave compirono prodezze gloriose, tingendo di sangue le rocce scabre e le paludi fabbricose, non potevano far mancare il loro contributo alla causa di Fiume la più bella la più santa, la più divina della cause per le quali gli uomini abbiano combattuto. Che se la vostra opera è, non dico misconosciuta, ma troppo poco conosciuta, non per questo è meno nobile, meno apprezzabile, meno gloriosa e meno ispirata a nobilissime tradizioni , ch’io son fiero di esaltare.

Con lo stesso animo che vi assistette durante l’ultima guerra vittoriosa vi consacrate ora alla difesa di Fiume. Questa vostra dedizione mi è sommamente cara. Ed è assai strano e non senza significato che, di fronte all’avida finanza internazionale, al cospetto delle insidie senza scrupoli tentate dai finanzieri democraticamente privilegiati, si affermi sempre salda ed incorruttibile la schiera dei nostri finanzieri di ferro, che il buon diritto italico, il più perfetto dei diritti, contrappone ai finanzieri dell’oro sospinto da brame impure e a contrastarci il possesso della più italiana delle città”.

Il 4 dicembre 1919 d’Annunzio consegnò al battaglione il gagliardetto offerto dalla donne fiumane e il 25 giugno 1920, nel corso di una solenne cerimonia, volle personalmente fregiarlo della “ Medaglia di Ronchi”. Anche in questa circostanza il Poeta soldato parlò ai finanzieri:

“Fiamme Gialle - disse- è sempre con profonda commozione che io vi vedo, che io vi incontro. In ciascuno di voi ed in voi tutti noto un gesto affettuoso; ed io vi saluto vedendo sempre in voi l’esemplare del legionario fiumano: la dignità e la semplicità non mai interrotte. Io vi ho dimostrato più di una volta quale sia la riconoscenza della città, che voi avete salvata con gli altri legionari, per esempio che avete dato e date ogni giorno in disciplina, in sagacia, in coraggio ed in resistenza, voi lo sapete, e n’è testimonio il gagliardetto giallo che vi affidarono le donne fiumane. E’ alta ventura per me offrirvi oggi il segno di Ronchi, segno di legionari in questo mese di giugno che è per voi ricco di ricorrenze gloriose. A monte Pal Piccolo, nella primezza della guerra, lo ricordate un battaglione di fiamme Gialle fu assalito da più battaglioni austriaci, fu accerchiato, fu respinto, fu decimato, e nondimeno continuò a combattere senza aiuto di artiglierie, senza aiuto di rinforzi, chiesto insistentemente, e tenne la linea. Pal Piccolo, poi Piave Vecchio e il Piave Nuovo, sulla fine della battaglia che ieri si chiuse, detta del solstizio; e fu appunto il 21 giugno che le vostre bella Fiamme Gialle irruppero nelle posizioni del nemico e lo annientarono. Parlo del VII , VIII E XX battaglione che occuparono il Piave Nuovo e finalmente raggiunsero la sponda el Piave Vecchio. Come sul Pal Piccolo, sul Podgora, sullo Sperone, sul Carso, in Val d’Astco, sul Cimone, dove ricordo l’eroismo di ventotto finanzieri modello ed esempio di disciplina e di sacrificio, voi avete tenuto fermo, o Fiamme Gialle , voi avete compreso che noi siamo qui, come sul Piave, alla difesa suprema della Patria.​

Quindi a voi più che ad ogni altro legionario, a voi che ogni giorno respirate col vento la salsedine e la frescura del Carnaro, è dovuto il segno di Ronchi. Fiamme Gialle, debbo confermare che aggradisco di cuore il vostro pensiero di promuovermi appuntato della Guardia   di Finanza. Il vostro capitano mi aveva chiesto in precedenza di scegliermi un grado dei finanzieri: io mi glorio di essere appuntato...” Al termine del discorso d’Annunzio volle anche dedicare alla Guardia di Finanza, per iscritto, il motto araldico che è divenuto patrimonio spirituale e viatico di fede per quanti hanno onorato e onoreranno il Corpo compiendo fino in fondo, oltre ad ogni ostacolo, il proprio dovere: “ Nec recisa recedit".

Il poeta soldato mostrò sempre negli anni che seguirono, di ricordare con particolare sentimento la sua “ promozione ” ad appuntato della Guardia di Finanza; come attesta anche una lettera indirizzata il 9 settembre 1935 al Comandante Generale dell’Epoca; in cui fra l’altro scrisse:... “ le guardie di Finanza , le Fiamme Gialle; in Fiume d’ Italia furono soldati esemplari: ed io ebbi l’onore di essere iscritto nel Corpo. Cosicché a Lei scrive oggi un subordinato... ".

La lettera finiva con queste parole meravigliose: "Le Fiamme Gialle nella mia memoria splendono e ardono. Il 3 marzo 1938, a Gardone Riviera (Brescia), tra le numerose corone che precedevano il feretro del “ Comandante ” - accompagnato anche da un plotone di 25 finanzieri – ce n’era una bellissima, guarnita con un nastro verde orlato di giallo su cui spiccava in lettere d’oro la dedica “ La Guardia di Finanza al suo glorioso Appuntato d’onore".
Renato Sacchelli