mercoledì 13 marzo 2024

L'attualità di Francesco Viti, il poeta-cavatore di Seravezza

 

Dopo aver ricordato l’onorevole Leonetto Amadei, l’avvocato che plasmò la Costituzione, mi fa piacere soffermarmi su un altro grande seravezzino del passato, Francesco Viti, poeta-cavatore. Nei suoi scritti ci ha lasciato importanti testimonianze che riguardano le difficili condizioni di chi viveva sui monti intorno a Seravezza all'inizio del 1900. Come il padre Francesco Viti lavorò sulla cava fin da ragazzo. Nella poesia “Il Cavatore” (1902) scrisse: “Con il latte succhiai, cosa non lieta / la polvere dei marmi e cavatore divenni invece di venir poeta”.

Viti denuncia la durezza del mestiere, che pure svolgeva con impegno e dedizione fino a diventare un esperto capo cava. “Improba troppo e faticosa è l'arte dei cavator / che con disagio e pena/ di sua vita ogni fibra ed ogni parte / risente il peso di si ria catena”. Senza dimenticare il dramma che scaturiva dalle frequenti disgrazie che anche in quel tempo si verificavano. “Ed ahi sventura ed ahi crudel dolore / purtroppo spesso avviene che all'improvviso / un masso cade, lo colpisce e muore”. Nella poesia intitolata “I lamenti del popolo della frazione Cappella”, scritta nel 1905, appare l’incredibile arretratezza delle condizioni in cui viveva la comunità montana, sprovvista dei più elementari servizi di utilità generale. Dopo più 120 anni alcuni temi sono ancora attuali.

Viti scriveva che era giusto pagare le tasse, “anche se siano per noi si gravi / che non hanno più confronto / con quelle dei nostri avi”. Desiderava però, e con piena ragione, che il denaro pubblico fosse speso bene, come lo sarebbe stato se le istituzioni l’avessero destinato alla realizzazione di opere atte a migliorare la vita di tanta gente costretta ad abitare in luoghi isolati e impervi e “privi di levatrice e di medico / e abbiam solo la luna per lampione / e mancaci una scuola / siamo tremila e certo / a chi non sa gli è strana / il medico non vedesi / un dì per settimana”.

E ancora: “Sappiam di certe donne / che giunte a mal partito / avevan per levatrice il povero marito. / E perciò di lagnarci abbiam nostre ragioni: nascer come agnelli morir come montoni”. Con questa semplice poesia, cruda ma vera, nei primi del Novecento Viti poneva sotto accusa le istituzioni che si disinteressavano completamente dei diritti e dei bisogni essenziali della comunità montana. È un documento storico molto importante che descrive, con minuzia di particolare, la difficile vita di tanti versiliesi di quell'epoca. 

In alcuni versi che da Filettole (Lucca) inviò alla moglie nel marzo del 1908, Viti descrive quella località della valle del Serchio dove, per un certo periodo di tempo, diresse una cava di marmo rosso, utilizzato per la costruzione del palazzo della Borsa di Genova. Dopo aver manifestato apprezzamento per gli abitanti del posto, ricchi di fede cristiana, ribadisce la sua fedeltà coniugale: “Se mi dovrò molto trattenere / sposa stai certa che ci porto il letto, un comportamento che da sempre accresce l'amore e mantiene unita una coppia”.

Curiosi i versi con i quali ordinò al titolare di una nota ditta milanese una mezza dozzina di bottiglie di un liquore, ancora oggi in commercio, che “bevo ogni giorno / ed ora son docile / come un agnello / dice mia moglie a questo e quello”. L’aveva provato la prima volta una sera a Seravezza, mentre si accingeva a fare ritorno a casa, consigliato dal droghiere Benti al quale aveva detto di avere dei disturbi allo stomaco. Sentitosi meglio, Viti pensò di scrivere alla ditta milanese per ordinare delle bottiglie, ricevendo gratis un'intera cassetta del liquore, che aveva proprietà digestive. Il dono lo indusse a scrivere un'altra poesia di ringraziamento: “Io quando ordino, lo tenga a mente / che non le voglio così per niente”. Assicurò, inoltre, sempre in quella circostanza, che il liquore l'avrebbe fatto bere anche ai suoi operai. “Essendo da molti anni capo cava / ancor non ho pensato ai miei operai / che faticano molto / È gente brava / ma bevon ponci e vino e spesso assai / per l'ubriachezza sono molto fiacchi / sì che il lavoro ne risente guai”.


In una poesia scritta nel 1912 al figlio Pasquale, in viaggio verso la Tripolitania - dove avrebbe partecipato alla guerra contro i Turchi - Viti dimostrò di avere un alto senso del dovere e della disciplina, esortando il suo ragazzo a non badare alla fatica, ad obbedire agli ordini dei superiori di qualsiasi grado.

È bello che questo linguaggio sia sgorgato dal cuore di un uomo impegnato in lavori durissimi sulla cava per 12 ore al giorno, dove in due settimane venivano “riquadrati circa 100 tonnellate di blocchi di marmo”, come scrisse in calce ad una poesia inviata ad un suo amico il 14 luglio 1908. Una fatica immane che tuttavia non gli impedì, nel tempo libero, di stringere la penna fra le dita della sua callosa mano, per scrivere quanto gli dettava la sua anima di poeta.

Nei suoi versi non si abbandonò alla contemplazione delle bellezze della natura coi fiori, i colori ed i paesaggi incantevoli bagnati dal mare, che in Versilia sono costantemente sotto gli occhi di tutti, ma si concentrò sugli aspetti della vita di tutti i giorni, le sofferenze e le fatiche delle persone umili e forti che, con i loro sacrifici, nobilitarono la nostra amata Versilia.


Filettole

Io sto bene. Filettole mi piace
per la sua posizione, per le persone.
Star lontano da te certo mi spiace.
Ma sai ben che ubbidir bramo il padrone,
lui comanda, ubbidisco, in questo caso
di non sbagliare son ben persuaso.
 
Siede il paese ai piè d’una collina
del Serchio a destra il quale vita prende
dei monti cui l’altissimo confina
e bello e calmo alla marina scende
contornato di borghi e di Villetti
e di fertil campi e di vigneti.
 
Gentili docili oneste le persone,
vivon tranquille, in questa valle amena
e di natura diligenti e buone e buona
l’aria che il bel Serchio mena.
Qui predomina molto per natura
più che l’industria la bella agricoltura.
 
Ed il secondo venerdì del mese
terzo dell’anno, vieni che qui ti aspetto
che in procession vedrai per il paese
Croce e Cristo portar con gran rispetto.
Si bestemmia ma in cor credi si vede
vive la Religion vive la Fede.
 
E benché per comizi e conferenze
e prediche di preti e pistolotti
vengan suggestionate le coscienze
degli ingenui assai più che non dei dotti
vive la pace ossia regna la quiete
benché molti, si sa, non sian col prete.
 
Qui è libero ciascun e il suo pensiero
esponer puote e la sua propria idea
favorevole o contro il ministero.
Di fede religiosa oppur atea
discute ogniun secondo sua opinione
e discutendo non si va in questione.
 
 
Francesco Viti  (1902)

Le nostre radici cristiane

 

Di recente in Francia c’è stata un’aspra polemica perché l’artista che ha disegnato il manifesto per le prossime Olimpiadi, Ugo Gattoni, ha eliminato la croce dalla cupola dell’Hotel des Invalides. Lui ha detto che non aveva alcun secondo fine ma per molti questo è solo l’ultimo esempio della rimozione delle nostre radici cristiane.

Nei lontani anni Trenta frequentavo la scuola elementare di Seravezza (Lucca), quando un giorno il maestro ci parlò delle Crociate. Qualche giorno dopo si soffermò sullo scontro navale del 7 ottobre 1571 nelle acque antistanti Lepanto, conclusosi con la vittoria dell’armata navale cristiana. Benché siano trascorsi tanti anni da quel giorno lontano della mia fanciullezza, ricordo ancora la commozione che mi pervase mentre ascoltavo il mio insegnante, con gli occhi che si inumidivano dalle lacrime. Nel mio cuore di bambino rimase impressa la figura di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, che insieme a Baldovino di Fiandra, Tancredi e Boemondo d’Altavilla, partecipò alla prima spedizione (1096-1099), invocata da Papa Urbano II durante il Concilio di Clermont, che si concluse con la conquista di Gerusalemme. Mi colpì che Goffredo di Buglione rifiutò la corona di re della Terrasanta, accettando per sé solo il titolo di “difensore del Santo Sepolcro”.

Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata descrisse Goffredo di Buglione come il prototipo dell’eroe cristiano. Ho sempre pensato che la fede cristiana possa condurre tutti gli uomini a vivere in un mondo migliore, più giusto e umano, senza frontiere e lotte di classe. In un mondo complesso come quello attuale necessariamente bisogna avere rispetto per tutte le religioni, anche se quella islamica appare per certi versi in antitesi rispetto al cristianesimo. Così come noi rispettiamo chi professa altre religioni, analogo riguardo deve essere rivolto ai cristiani in tutto il mondo. Il rispetto esige rispetto. Diversamente si arriva al caos.

In Italia vivono molti stranieri che professano religioni diverse da quella cristiana. Alcuni purtroppo non accettano di adeguarsi alle leggi del Paese che li ospita. Toufic Fahd e Alessandro Bausani nel libro “Storia dell’islamismo” (Editori Laterza, 1986) hanno scritto che “l’Islam, non ammettendo la conoscenza razionale,  fonda le sue conoscenze solo sulla fede come valore assoluto, cioè su un fideismo cieco in nome del Corano”.

Il Corano non può essere compreso facilmente da un cristiano perché in esso è prescritta la guerra (Cor.2.216). “Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite . Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete”.

“Uccidete gli idolatri ovunque li troviate” (Cor.9.5). “Profeta! Lotta contro gli infedeli e gli ipocriti e sii duro con loro” (Cor. 66.9). Lo scrittore Carlo Sgorlon in un articolo su Il Tempo evidenziò che “il Corano è l’unica legge religiosa e civile, immutabile e intoccabile, il vero musulmano non conosce la tolleranza e non cede mai, ‘o fai ciò che lui vuole, oppure si arriva alla guerra’”.

Il cristiano di oggi non è chiamato a fare le Crociate come nell’antichità. La nostra religione ci impone il dialogo, l’ascolto, la carità, il perdono e il camminare insieme. Tutte virtù esaltate dall’esempio di Gesù, che ci chiede di portare la sua parola in tutto il mondo ma non di imporla né di schiacciare il pensiero o le usanze altrui. Rispetto, prima di tutto. Quello stesso rispetto che dobbiamo oggi esigere per i cristiani nel mondo. Non è più ammissibile che avvengano crimini efferati, come di recente avvenuto in Burkina Faso, dove un gruppo di terroristi è entrato in una chiesa uccidendo decine di fedeli riuniti in preghiera. Non sarà facile raggiungere questo risultato. Che Dio ci aiuti. A noi resta la preghiera.

mercoledì 13 dicembre 2023

L’oro alla Patria, tra propaganda, miseria e consenso




Ricordo quella mattina del 18 dicembre 1935, una settimana prima di Natale, in cui mia madre uscì di casa e tornò, tutta emozionata, senza più la fede d'oro ma con un cerchietto di ferro al dito. “Ha fatto il suo dovere! L'ha donato alla Patria”, lessi sulla ricevuta che le fu rilasciata. Avevo solo cinque anni ma sapevo leggere avendolo imparato frequentando l’asilo infantile Delatre di Seravezza.

Mia mamma donò la sua fede nuziale, il solo oggetto d’oro che possedeva, come fecero moltissimi italiani aderendo alla mobilitazione nazionale promossa dal governo fascista per rispondere alle sanzioni varate dalla Società delle Nazioni contro l'Italia, perché il nostro Paese aveva attaccato e invaso l'Etiopia. Erano gli “anni del consenso”, come più tardi li definì lo storico Renzo De Felice. L’Italia era tutt’uno col suo capo, Benito Mussolini. Rinunciare a qualcosa di così intimo e caro come una fede nuziale era un sacrificio, certo, ma al contempo un gesto di amore verso la propria Patria. Questo almeno era il pensiero indotto dalla propaganda fascista.

La “Giornata della fede” fu un successo. In tutta l’Italia furono raccolti milioni di fedi nuziali e un quantitativo complessivo d'oro pari 33.622 chili e 93.473 di argento. Solo a Roma furono raccolti più di 250.000 anelli, a Milano circa 180.000.

Illustri personalità del tempo aderirono all’iniziativa donando i loro oggetti preziosi. La regina Elena del Montenegro donò la propria fede e quella del marito, re Vittorio Emanuele III, il sovrano successivamente aggiunse dei lingotti d’oro; il principe Umberto donò il Collare dell’Annunziata; Rachele Mussolini, moglie del Duce, la propria fede nuziale; Luigi Pirandello donò la medaglia del premio Nobel; Guglielmo Marconi (la fede e la medaglia da senatore); Luigi Albertini e Benedetto Croce la medaglia da senatore; Gabriele D’Annunzio consegnò una spada d’oro, sette medaglie d’oro e la Military Cross ricevuta dal re d’Inghilterra.

La cerimonia principale si svolse, a Roma, all’Altare della Patria. Con queste parole Mussolini sintetizzò il senso della giornata: “Oggi l’Italia è fascista e il cuore di tutti gli italiani batte all’unisono col vostro, e tutta la nazione è pronta a qualunque sacrificio per il trionfo della pace e della civiltà romana e cristiana”.

È bene ricordare quale fosse il sentimento degli italiani rispetto alla conquista di “un posto al sole” annunciata da Mussolini. Il fascismo era riuscito a rinvigorire lo spirito nazionalista e l’idea di conquistare un territorio in Africa, così come avevano fatto altri paesi europei, era considerata non solo giusta ma necessaria. In più la propaganda usava il tasto della civilizzazione. L’Italia, in pratica, non andava solo a conquistare una terra ma anche a portare la civiltà e la libertà. Persino la Chiesa era a favore. Queste le parole pronunciate dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster durante un’omelia: “Pace e protezione all’esercito valoroso che in ubbidienza e intrepido al comando della Patria, a prezzo di sangue apre le porte di Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana”.

Come ha scritto la storica tedesca Petra Terhoeven nel libro “Oro alla Patria. Donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista” (ed. Il Mulino, 2006), l’iniziativa “Oro alla Patria” ebbe risultati notevoli, anche se non paragonabili ai costi di una guerra. Ma la raccolta dei beni preziosi fu soprattutto un grande evento di propaganda e di mobilitazione di tutto il popolo italiano, a partire dalle spose, coinvolte in prima persona nel sacrificio per la Patria.

La guerra in Africa si concluse nel 1936 con la conquista dell'Impero. Nel giro di pochi anni dichiarammo guerra alla Francia, all'Inghilterra, e poi alla Russia, schierandoci nel secondo conflitto mondiale a fianco della Germania di Hitler, scelta che ci portò sofferenze, fame e distruzioni. In nome della Patria a scuola ci dissero: “Portate un po' di lana dei materassi. È necessaria per fare i calzettoni per i nostri soldati in Russia, altrimenti rimarranno con gli arti congelati”. Ancora in nome della Patria ci tolsero le inferriate e si presero le pentole di rame per fabbricare armi. Subimmo bombardamenti e immani distruzioni e ci furono moltissime vittime innocenti. Lungo è l'elenco dei soldati, marinai e aviatori italiani che non fecero più ritorno nelle loro case in quanto uccisi in combattimento. 

La mia casa del Ponticello di Seravezza (Lucca) nella tragica estate del 1944 fu fatta saltare in aria dai tedeschi, insieme a molte case sia del capoluogo seravezzino che di altre località della Versilia, che divenne l'estremo limite della Linea Gotica. Le antiche frazioni di Corvaia e Ripa furono completamente rase al suolo. 

Negli ultimi giorni del tragico conflitto, a Dongo, i partigiani trovarono ai gerarchi fascisti in fuga con Mussolini due brocche piene di fedi nuziali che le spose italiane avevano donato alla Patria. Ma quale Patria?

giovedì 31 maggio 2018

Non ho mai più bevuto un'acqua così buona


Ero un bambino sui sei o sette anni quando la mia cara mamma era solita portare me e mio fratello Sergio al mare a Forte dei Marmi. Ricordo che a Seravezza faceva molto caldo ed era bello per noi ragazzi poter fare dei bei bagni vicino alla riva del mare, dove l’acqua non era profonda, e quindi non correvamo alcun pericolo.

Il mio babbo in quel tempo era andato, con altri dieci cavatori di Seravezza, tra i quali ricordo Sandrino Neri, marito dell’Adalgisa, a lavorare in Africa come operaio addetto alla costruzione delle nuove vie di quel territorio, conquistato dopo la guerra italo etiopica (1935-36) combattuta in Abissinia contro il negus Hailé Selassié e la "conquista dell’impero" voluto da Benito Mussolini.

Forte de Marmi la raggiungevamo a piedi. Quando finalmente arrivavamo, ci toglievamo gli zoccoletti o i sandalini e camminavamo sulla spiaggia, la rena scaldata dal sole scottava i nostri piedi. Sostavamo sotto il pontile per un po' di tempo per riparaci dal sole. A mezzogiorno ci spostavamo nella vicina pineta, dove mangiavamo delle ​polpette eccezionalmente saporite che la sera prima mia mamma aveva preparato per mangiarle al mare. Erano davvero molto buone. Con sorpresa lo stesso sapore lo risentii e ancora lo risento nelle polpette che mi cucinò (e ancora oggi lo fa) mia moglie Angela Pucci, seravezzina come me.

Non siamo mai entrati in un bagno dotato di cabine, con gli ombrelloni e sedie a sdraio, in quanto mio padre in Africa percepiva un paga lorda giornaliera di lire 40, detratte lire 3,80 per il vitto giornaliero, e comprate le sigarette e qualche bicchiere di vino, gli rimanevano poco più di 30 lire al giorno. Si stentava a tirare avanti.

Quando sostavamo in piazza Garibaldi di Forte dei Marmi, prima di iniziare il viaggio per tornare la sera a casa, ci ristoravamo bevendo un bel bicchiere di acqua all'anice, servita con il ghiaccio. La vendevano due donne, una anziana e l’altra molto giovane. Appena la bevevamo ci pareva di rinascere. Le due donne come attrezzatura di lavoro avevano fatto costruire un banco a forma di barchetta, dove tenevano i bicchieri e i recipienti contenenti l’acqua aromatizzata.

Sul libro "La Versilia Rivendica l’Impero" di Giorgio Giannelli a pag. 263 è riprodotta  la foto delle due donne intente a vendere ​l’acqua, che veniva preparata  dalla più anziana, Lorenza Paolicchi, detta la "Lorè dell’acquetta". Con lei c'era sua nipote, Raffaella Gianfranceschi.

L’acqua era a base di limone e anice e veniva servita con il ghiaccio. Era una bevanda dissetante e prelibata. I tanti versiliesi del fiume che scendevano dalla montagna per farsi un tuffo al mare, si fermavano al banchetto della Lorè per combattere l'arsura dell'estate con un bel bicchiere di questa buonissima acqua. Quel sapore fresco e piacevole mi è parso di risentirlo quando mio figlio mi ha regalato, non molto tempo fa, delle caramelle all'anice.

Renato Sacchelli

mercoledì 23 maggio 2018

Due angeli nel pozzo


Un uomo, col volto
da lacrime bagnato
dall’orlo del pozzo
col microfono in mano
attaccato a un filo
penzoloni nel vuoto
parlava al bambino:
“Stai calmo, tranquillo,
non disperarti Alfredino.
Una macchina bella
splendente come una stella
è partita e ti raggiungerà,
tra poco ritornerai
tra le braccia
di mamma e papà.
Sì, è davvero fantastica,
a te parrà irreale...
sai, perfora la terra,
raggiunge la luna
lambisce le stelle
e tocca il fondo del mare.
Stai calmo Alfredino".

Per ore e ore
il buon Nando parlava
e il piccino lo sentiva vicino.
Erano le parole che udiva
a scaldare il suo corpicino.

E con le cose belle
che il vigile del fuoco diceva
Alfredino, nel buio profondo,
rivedeva la luce, il sole,
i prati fioriti e i giochi felici.

Il tempo però passava
e come la tv ci mostrava
la macchina non arrivava.

Era l’udire il pianto straziante,
a farci sentire il suo soffrire,
il lento morire sprofondato
a decine di metri più giù.

C’è stato un momento
in cui s’è davvero sperato
che venisse salvato
dai coraggiosi giovani
che legati alle corde
nel pozzo si son calati
e hanno raggiunto
il piccolo Alfredino,
ma invano hanno lottato,
il fango la loro stretta
ha allentato
e con poco fiato
non hanno più riprovato.

Dio che tanto abbiam pregato
perché vivo dai suoi cari 
potesse ritornare
solo non l’ha lasciato.
Un angelo gli ha mandato
che ha accarezzato,
asciugato e baciato
quel caro e piccolo
volto infangato
finché sul suo viso
è riaffiorato il sorriso
e dolcemente
si è addormentato
per sempre in Paradiso.

Renato Sacchelli



Dedico questa poesia all'amico don Giorgio Servi, che purtroppo ci ha lasciati diversi anni fa. Fu lui, dopo avergliela letta, a suggerirmi di concludere con le parole "in Paradiso".

giovedì 19 aprile 2018

Anche a Seravezza prediche inutili

Ripropongo un articolo che scrissi per Versilia Oggi il 4 novembre 1985. Sono passati molti anni e diversi lavori sono stati fatti. L'acqua del fiume non è più torbida e inquinata come una volta, e il cimitero non è nelle condizioni disastrose in cui si trovava all'epoca. Molte cose però restano da fare. E i cittadini non devono mai smettere di far sentire, forte, la propria voce. 

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La politica più incisiva è quella che parte dalle piccole cose. Proviamo ad elencarle. In Versilia ci sono ancora persone che scaricano nel fiume rifiuti di ogni genere. Sovente vedo l’acqua torbida scorrere su un letto pieno di melma e fango, che a lungo andare causerà la cessazione di ogni forma di vita esistente in tale mondo acquatico. Poi, quando cadrà molta pioggia, ci penserà la piena a riversare nel mare tutti i rifiuti e così l’inquinamento continuerà ad allargarsi.

Per la salvaguardia della vita del fiume, vitale per la continuazione di quella degli uomini, occorrono adeguate e continue misure di sorveglianza. Se le attuali leggi non sono sufficienti, il legislatore dovrà impegnarsi ad emanare nuove norme più efficaci per far sì che nel fiume scorra sempre acqua limpida. Insomma ogni sforzo dovrà essere fatto perché non venga trasformato in una fogna di scarico di liquami velenosi: certamente il fenomeno è esteso. Ne sono interessate diverse regioni d’Italia ed anche altre nazioni. Ma io desidererei che nella nostra bella Versilia tutto ciò non accadesse.

Tempo fa alla periferia di Forte dei Marmi, ai margini di strade interne, ed anche in mezzo di alcune pinete, ho visto rottami di un televisore, bottiglie vuote, sacchetti di immondizia, persino materiale di scarico derivante dalla ristrutturazione di immobili. Non è questo il modo di comportarsi. Non si può pretendere che gli addetti al ritiro di tali rifiuti arrivino dovunque. Non ce la potrebbero mai fare. Dobbiamo dare loro una mano. Come? Basterebbe concentrare i rifiuti nei punti di raccolta e scaricare gli altri materiali nei luoghi consentiti. Che bello sarebbe vedere tutto il territorio della Versilia accuratamente pulito e che ricordo indimenticabile della nostra terra si porterebbero a casa i turisti al rientro dalle vacanze. Nel 1959 mi recai un giorno a Lugano. Oltre alla bellezza di quel paesaggio lacustre, mi colpì il fatto di non avere notato, nelle strade, neppure un pezzettino di carta: erano tutte estremamente pulite.

Ogni tanto mi reco al cimitero di Seravezza dove sono sepolti cari parenti, amici e tante persone che ho avuto modo di conoscere. Per ciò che furono in vita e per tutto quello che seppero tramandare ed insegnarci coloro che ora vi riposano, il cimitero è un luogo sacro e come tale deve essere ben tenuto mentre le condizioni in cui si trova quello di Seravezza lasciano molto a desiderare. I morti vengono sepolti, ma poi? Un tratto del muro di cinta (parte alta a destra salendo) è sostenuto da paletti di legno che sono ridotti in pessimo stato d’uso a causa della lunga esposizione alle intemperie. Quindi sta per crollare. Dietro il muro pericolante sono stati ammucchiati, detriti, forse prodotti dai lavori di costruzione di nuove tombe. Il crollo provocherebbe anche la rovina dei marmi scolpiti che adornano le vecchia tombe, sarebbe un peccato perché si tratta pur sempre di opere d’arte. Infiltrazione dal tetto di acqua piovana hanno ridotto le pareti interne della cappellina, ubicata al centro più in alto del cimitero, in uno stato pietoso.

Vetri rotti alle finestre completano il quadro desolante. Urgono quindi urgenti lavori di riparazione e di imbiancatura dell’immobile. I servizi igienici , pieni di sporcizia e di residui di materiali per la costruzione di tombe (cemento contenuto in sacchetti di carta) sono visibilmente in disuso da molto tempo. Dal rubinetto dell’acqua all'interno del cimitero in certi giorni non esce una goccia d’acqua. Bisognerebbe quindi installarvi un deposito. Sono stato informato che alcune persone in visita ai loro cari defunti, a causa dell’inefficienza dei servizi igienici, sono stati costrette a ritornare frettolosamente a casa per soddisfare impellenti necessità personali.

Qualche volta fra la terra accumulata ai bordi delle tombe appena scavate ho visto brandelli di stoffa e pezzi di legno delle casse che contenevano i morti. Certe visioni anche se ci inducono a meditate riflessioni non sta bene vederle. Ritengo che quando le persone visitano il cimitero tutto dovrebbe essere in ordine. Alcuni scalini di marmo sono sconnessi (lato destro salendo) e qualche persona potrebbe inciamparvi e farsi del male. Il senso di smarrimento maggiore l’ho provato quando domenica mattina il 14 luglio 1985 ho notato nel locale adibito alle eventuali “autopsie” delle salme , diversi sacchetti di plastica contenente le ossa dei morti dissepolti per consentire la tumulazione nella terra delle persone decedute negli ultimi tempi. Forse non è più possibile accedere all'ossario, visto che la porta d’ingresso è legata con fili metallici ad alcuni paletti di legno messi all'esterno in modo orizzontale. Forse è necessario costruire un nuovo ossario?

Di fronte ai resti dei nostri simili tutti dovremmo inchinarci in linea generale. E quando non ci sono richieste dei familiari per deporli in apposite cassette da sistemare in altre tombe, dovrebbero essere messi tutti insieme in una stanza ampia ed illuminata da fasci di tenua luce, in modo da farli apparire come elementi di una costruzione a forma piramidale, una sorta di monumento alla ritrovata fratellanza, troppo spesso in questo mondo dimenticata. Ecco come sistemerei le ossa di coloro che non si possono permettere di avere un’altra sistemazione, oppure desiderano essere sepolti nella terra. Una sistemazione siffatta mi sembra suggestiva e bella, tale da onorare degnamente i defunti. Invece a Seravezza li ho visti in sacchetti di plastica e se le cose non cambieranno, un giorno la stessa sorte toccherà ad altri e nessuno potrà lamentarsi.

Tramite Versilia Oggi, su cui si riflettono tutte le facce della realtà versiliese, vorrei invitare il signor Sindaco di Seravezza e le altre Autorità comunali ad adoperarsi nel modo migliore possibile sia per impedire l’inquinamento delle acque del fiume e sia per dar corso al lavori necessari affinché il cimitero divenga il più bello e funzionale della Versilia. Lo chiedo anche a nome di diversi lettori del suddetto periodico, perché sono stati loro a pregarmi di descrivere le condizioni attuali del fiume e del cimitero.
Renato Sacchelli

mercoledì 7 marzo 2018

Chierichetto a Seravezza i primi anni del 1940


All’inizio degli anni 40 iniziai a frequentare la  parrocchia  di Seravezza, facente parte della Diocesi di Pisa, nella cui canonica si riunivano festosi  molti ragazzi. Ricordo che  c‘erano tanti chierichetti che dedicavano il loro tempo libero ad assistere  i sacerdoti quando celebravano le Sante Messe e le altre funzioni religiose che erano i   Vespri cantati, le  Processioni, i  Battesimi, la scopertura del  quadro della Madonna del Soccorso, i Matrimoni  ed i  Funerali dei nostri parrocchiani defunti.
 Siccome vidi che fra noi ragazzi c’era amore,  rispetto e gioia di vivere, decisi anch’io di divenire un chierichetto iniziando, prima di ogni altra cosa, a servire la Santa Messa che allora si celebrava in  latino.
In quel tempo ero già grandicello, forse  frequentavo la terza o quarta classe elementare. Ricordo che nel giorno della festa delle Palme sin da quando ero più piccolo di età, noi bambini andavamo in chiesa portando ognuno di noi i palmizi  dentro i quali c’era una piccolissima figura del neonato bambino Gesù,  formato da un impasto zuccherino  secco, che, terminata   la festa,   lo succhiavamo, provando anche  un certa emozione facendolo disciogliere  nella nostra bocca.  Quindi pensandoci bene , non fui mosso dalla ricerca di un qualcosa di nuovo per passare le giornate, ma perché sentivo di essere attratto dalla fede nel Cristo Redentore, che era stato inchiodato sulla Croce per salvare l’Umanità dal peccato originale. Durante la sua vita terrena Gesù compì miracoli  incredibili, quali furono la moltiplicazione dei pani, far risuscitare Lazzaro , infine salì in cielo dopo la sua morte inchiodato sulla Croce per vivere accanto al suo ed anche nostro Padre celeste. Sentii da piccolo che Gesù aveva conquistato il mio cuore, perché lui predicava amore, carità e perdono,   il suo emblema è rappresentato dalla Croce.
L’attrazione verso la nostra chiesa aumentò quando sentii parlare di don Giovanni Bosco, il santo  e apostolo  della carità cristiana, nato in contrada Becchis c. di Castelnuovo d’Asti  il 16. 8.1815, deceduto a Torino il 31.1.1888. Si dedicò alla cura dei fanciulli poveri o abbandonati per dare ad essi una educazione ed un mestiere. Per realizzare tutti i suoi ottimi progetti anche  a livello mondiale fondò nel 1859  la Congregazione dei Salesiani, per l’educazione e l’istruzione della gioventù  più bisognosa  e delle figlie  di Maria Ausiliatrice  per le ragazze abbandonate, tant’è che i suoi principi educativi ebbero una grande diffusione nelle parrocchie italiane,  in tutta l’ Europa  e nel Sud America. Fu beatificato il 19 marzo 1929 e proclamato Santo il 1° aprile  1934 da Pio XI.
Ricordo quando d‘inverno mi alzavo molto presto  dal letto  tutto infreddolito e con le mani che mi duolevano perché intirizzite dal freddo (un malessere  chiamato in dialetto versiliese “gronchio”) , mentre raggiungevo,   con gli zoccoletti ai piedi  protetti dai calzettoni di lana di pecora che mi faceva la mia mamma, il Duomo di Seravezza intitolato ai Santissimi Lorenzo e Barbara il cui parroco era monsignor  Angelo Riccomini coadiuvato dal Cappellano  Don Giuseppe Bertini, nato a Barbaricina zona periferica di Pisa, trucidato dalle SS tedesche nel 1944,  medaglia d’oro al valor militare,  di cui ne ha già parlato su Vita Nova del  28.5.2017  Antonio F. Gimignano.
Più di una volta anziché attraversare le strade di un paese ancora non completamente illuminate dalle luci del giorno, mi pareva di percorrere un paesaggio lunare col ghiaccio a forma di candele  formatesi sotto le gronde dei tetti a seguito dello sgocciolio delle ultime gocce della pioggia caduta sulle case di  Seravezza, oppure dallo scioglimento della neve  la cui coltre aveva imbiancato Seravezza.
 Ricordo di avere servito la Santa Messa anche all’ anziano sacerdote Don Binelli che era un cugino della mia mamma,  che spesso vedevo uscire all’ora del pranzo insieme a tutti gli altri impiegati della  filiale  del Monte dei Paschi di Siena di Seravezza , tanto da farmi immaginare  che fosse anche lui un impiegato di questa nostra antica banca Toscana. Sicuramente Don Binelli   doveva conoscere i bisogni della mia famiglia, col babbo cavatore che quando si scatenava il bruttissimo tempo (forte pioggia e caduta della neve)  non poteva raggiungere la cava e quindi  in casa  non avendo altre entrate di   denaro all’infuori di quelle derivanti dal  lavoro di mio padre,  eravamo nell’impossibilità di pagare la spesa che ogni giorno si doveva fare per sopravvivere. Meno male che c’erano i bottegai che segnavano a loro credito le vendite  dei generi alimentari, dando,  la possibilità ai cavatori di saldare i debiti  quando venivano pagati per il loro lavoro. La sopravvivenza di  molte famiglie si deve quindi a questa benemerita categoria di commercianti.

Una mattina don Binelli,  dopo avergli servito la Santa Messa si avvicinò a me mettendo nelle mie mani mezza lira,  dicendomi:  “Mettila in  tasca e non ci rumare. Non la devi  spendere, devi darla alla tua mamma. “ Appena arrivai a casa diedi,  con molta gioia,  quella mezza lira alla mia cara mamma.
I recenti gravissimi episodi che vedono coinvolti la cosiddette baby gang mi hanno  fatto ripensare  agli anni in cui  anch’io  ero un piccolo fanciullo  che però voleva crescere e vivere nella fede in santa pace con tutti i miei coetanei e non nel disordine  e nella violenza.


                                                                                                                                      Renato Sacchelli