giovedì 31 marzo 2011

A passo Croce in automobile. Lassù ti senti il mondo in mano

Il pomeriggio del 16 agosto 1987, dal passo Croce ammirai, per la prima volta, il grandioso scenario dei monti dell'alta Versilia, anche se la visibilità era ridotta a causa di una fitta foschia che aveva avvolto, fino a nasconderle ed a confonderle nel cielo, le cime più alte e parte delle valli sottostanti. Devo all'invito rivoltomi da quegli autentici versiliesi purosangue che sono i miei cognati Anna e Giuliano Biagi, il piacere di avere partecipato a tale escursione, in verità comodamente seduto a bordo della loro autovettura.

Non nascondo di avere provato, dopo essere sceso dall'automezzo, un po' di emozione mentre camminavo lungo gli antichi sentieri in mezzo a piante di mirtillo, timo dal profumo penetrante e delicati fiori di specie rara, i cui petali venivano mossi da un leggero vento.. Fatta eccezione per la bella strada asfaltata che conduce l'automobilista fin oltre tale passo, nulla sembrava cambiato da quando i sentieri tracciati sugli irti pendii venivano percorsi,nei secoli passati, dai pastori durante il peiodo della transumanza e dagli uomini che dovevano recarsi a lavorare nelle cave.
Talune rocce erose e modellate dalle intemperie nel corso di millenni lhanno assunto forme particolare tanto da apparire come sculture moderne, mentre la visione di forre piene di vegetazione e di profondi silenzi mi fecero pensare a quanto sarebbe stato bello e salutare poter trascorrere le ferie nelle zone circostanti. L'aria fresca e pure che respirai mi diede più vigore, mentre un senso di benessere lo provai per non avere sentito, sia pure per poche ore, l'asfalto bruciante sotto i piedi..
Più in basso, dove alta cresce la flora, vidi volare stormi di rondine, come accadeva a Seravezza quand'ero ragazzo e che da tanti anni non mi era più capitato di vedere da nessuna altra parte, Ciò a dimostrazione dello stato ottimale delle condizioni ambientali, sotto ogni aspetto, dei monti della nostra Versilia. Di contrasto , in mezzo a tutto lo splendore della natura, avvertii un senso di rabbia quando vidi, in più parti, i rifiuti lasciati in loco dai soliti ignoti, a testimonianza sia della loro immaturità che della totale mancanza di rispetto nei confronti della montagna. E' possibile che si sia trattato, tutto sommato, di fatti isolati, in ogni caso da condannare perché non si ripetano più nell'avvenire.
La bellezza dei monti della Versilia è veramente unica. Lo posso affermare con tutta sincerità facendo il raffronto con diverse località dell'arco alpino, anche oltre i duemila metri, , dove ho vissuto per un certo periodo quando ero giovane. E vero anche quei monti hanno il loro fascino con i manti nevosi e ghiacciai eterni, ma le nostre montagne sono diverse, a cominciare dalla tonalità dei colori, dalla varietà della flora, per non parlare della propria storia tuttora viva nel nostro cuore, dalla quale spicca la figura dell'uomo antico arrampicato su questi monti, dove riusciva a raccogliere quanto necessario per sopravvivere. Sicuramente la bellezza dei nostri monti è più accentuata dal fatto di avere il mare davanti, nelle cui acque azzurre, splendenti sotto i raggi del sole, si specchiano, si tuffano e sprofondano le loro immagini fino ad arrivare alle radici di questa mitica terra di Versilia . Ed è bene che un patrimonio di quest specie sia ammirato da turisti e villeggianti perché, nel suo insieme, a me sembra che si possa considerare il capolavoro di Colui che oltre a noi, ha creato tutto ciò che ci circonda.

mercoledì 30 marzo 2011

Nimo pole treppicà la dignità del'omo

Tante cose ho imparato nel fiume
'l corso d'acqua de la mmi' fanciullezza
vissuta ne la mi dolce Seravezza.

Palcoscenico di giòchi e di bagni
per le secolari tribolazioni de la vita
sul fiume ebbi 'pprimi affanni.

'Nsieme al mio fratello, agliutavo mi mà
a portà su la strada barrocci di sassi.
“Ci voglino 'soldi per comprà 'l pane!”.

'L laboro è duro. È pesante , è fadiga,
ma fin dagli anni trascorsi nel fiume
sempre credetti che fusse fonte di vita.

Le anguille le chiappavo da solo
con la forchetta che ci mangiao
'na, du' poghe si, ma mi contentao.

Ho sempre sognato 'n mondo migliore,
senza sfruttati, più giusto, più umano,
senza più guerè, ma ricco d'amore.

Nimo pole treppicà la dignità del'òmo!
E gguai a chi gli toglie quanto ha guadagnato
col su onesto e fatigoso labòro.

Mai ho scordato quel corso di acqua perenne
che, ne le sere d' istate spesso viddì luccicà
sotto 'l lume de la splendente luna e de le stelle.

Doppo tanti anni sento sempre nel còre
per il fiume duve fui adducato a la vita,
un vivo e grandissimo amore

martedì 15 marzo 2011

La strage di S.Anna

All’alba del 12 agosto 1944 numerosi autocarri con a bordo centinaia di S.S. (dalle 300 alle 500 unità) in tuta nera, armate fino ai denti, arrivarono a Valdicastello nel comune di Pietrasanta, e da lì i soldati, in lunghe file, a distanza di quattro-cinque metri l’uno dall’altro, s’arrampicarono per raggiungere Sant’Anna, un gruppo di case sparse sui monti dell’alta Versilia, dove si erano rifugiati molti sfollati provenienti da Pietrasanta, Forte dei Marmi e altre località della Versilia. C’era anche gente di Livorno e di La Spezia. Un'altra colonna di S.S. che aveva iniziato a salire verso Sant’Anna dalla valle del Vezza arrivata a Farnocchia si divise in due squadre. In questo modo i tedeschi, attuando una manovra di accerchiamento, giunsero lassù da due punti diversi, uno dalla Foce di Còmpito e l’altro appunto da Farnocchia. Per stringere la morsa da Monte Ornato si mosse un’altra colonna di soldati.

Fin qui è l’inizio del criminale attacco contro la popolazione di S.Anna, raccontata sui libri pubblicati prima della celebrazione del processo avvenuto contro 10 SS che parteciparono alla strage. Dalla dichiarazione dell’imputato ex S.S. Ignaz Alois Lipper emerse che, la mattina del 12 agosto 1944, gli fu ordinato di andare a prendere le munizioni per la mitragliatrice sull’automezzo che distava circa 500 metri dai soldati. Poiché in quell’epoca non esisteva alcuna strada carrozzabile per raggiungere sia Farnocchia che S.Anna, appare evidente che la località dove fu lasciato l’autocarrro non poteva che essere la frazione di Mulina di Stazzema.

Ed è proprio da Mulina di Stazzema che iniziò la strage degli innocenti ben descritta da Giuseppe Vezzoni nel suo primo libro “Croci uncinate nel canale” e nel secondo intitolato”Un prete indifeso in una storia a metà - Don Giuseppe Vangelisti e il suo memoriale”.
Quella mattina, mentre i tedeschi transitavano da Mulina per raggiungere Sant'Anna, furono notati dal parroco don Fiore Menguzzo. Nel vedere i soldati tedeschi che si avvicinavano alla sua chiesa, il sacerdote pensò di essere lui il ricercato, tentò quindi di richiamare l’attenzione dei militari. Saltò da una finestra per fuggire nel bosco. Raggiunto fu ucciso lungo la mulattiera da una scarica di colpi di arma da fuoco. Subito dopo fu incendiata anche la canonica, dopo che era stato ucciso anche il padre di don Menguzzo, Antonio, di anni 65, la sorella Teresa (36 anni), la cognata Claudina Sirocchi (28 anni), le nipotine Colombina Graziella Colombini ed Elena Menguzzo, rispettivamente di 13 anni e di un anno e sei mesi. Dopo aver compiuto questa carneficina i soldati tedeschi continuarono la loro marcia per arrivare a Sant'Anna.

Ma perché fu ucciso don Fiore Menguzzo e insieme a lui tutti i suoi familiari? Chi era don Fiore? Il sacerdote era sospettato di tenere rapporti coi partigiani. Si parlò anche di un tentativo da lui effettuato per arrivare a stabilire una pace fra i partigiani e tedeschi. Di certo fu mosso dall’alto magistero sacerdotale che lo portò anche ad accogliere, nella sua parrocchia, i componenti della pattuglia tedesca attaccata dai partigiani quando questa salì il 31 luglio 1944 a Farnocchia per notificare l'ordine di sfollamento alla gente del paese emesso dal comando delle truppe tedesche operanti in Versilia. Prodigò il sacerdote le prime cure ai feriti, tanto da ricevere da essi una dichiarazione scritta in tedesco, con la quale veniva invitato chi la leggeva a rispettare il parroco e la sua famiglia ritenuta benemerita dell’esercito germanico. Nato a San Benedetto di Cascina (PI), quando fu ucciso aveva ventotto anni. La sua famiglia proveniva dal Trentino Alto Adige. Nel 1942 fu richiamato alle armi e arruolato come cappellano militare. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi che lo avviarono in un campo di concentramento in Germania; da lì era riuscito a tornare a casa.
Nei dintorni di Sant’Anna per un po’ di tempo avevano stazionato i partigiani, astenendosi dal compiere azioni di guerriglia in quella località, per non compromettere la popolazione, che avrebbe potuto subire, senza colpe, le violente rappresaglie dei nazisti. Non è da escludere che costoro avessero pensato che la gente del posto e anche gli sfollati (che pativano la fame e stentavano per sopravvivere) potessero essere in qualche modo di aiuto ai partigiani. Sta di fatto che quando i tedeschi intimarono agli abitanti di Sant’Anna di sfollare a Sala Baganza, in provincia di Parma, tutti lasciarono le loro abitazioni per rifugiarsi nelle zone vicine per poi ritornare a casa quando si diffuse la notizia che il pericolo era scongiurato. Anziché raggiungere Sala Baganza preferirono rimanere abbarbicati su quel monte, anche se la vita d’ogni giorno era durissima.

Prima dell’eccidio tutti i giorni i ragazzi più grandi volgevano i loro sguardi in direzione di Pisa, dove i tedeschi avevano fermato l’avanzata delle truppe alleate; dalle cortine fumogene e dall’esplosione delle cannonate cercavano di capire i movimenti del fronte. Ma proprio in quei giorni i tedeschi si prepararono a compiere un’azione d’inaudita violenza contro la pacifica popolazione di Sant’Anna, forse convinti, a torto, che la zona fosse piena di partigiani. Intanto, il 29 luglio 1944, dopo l’ordine di sfollamento dei tedeschi, il Comando delle “Brigate d’assalto Garibaldi” con un foglio dattiloscritto, visto da molte persone affisso sulla porta della bottega esistente sul piazzale della chiesa di Sant’Anna, sprovvisto di qualsiasi firma, invitò le donne, i vecchi e i bambini a non obbedire all’ordine dei tedeschi, incitandoli a effettuare una sorta di resistenza passiva. Gli uomini erano esortati ad armarsi sia col fucile da caccia che con il forcone.
Questo foglio, poi conservato per lungo tempo da don Giuseppe Vangelisti, fu mostrato, alcuni anni dopo, da Alderano Vecoli da Capezzano, che nell’eccidio aveva perduto due figli, a Renato Bonuccelli, autore del libro “Cinquanta anni fa in Versilia” , un libro che narra le gesta criminali dei tedeschi, di cui il piccolo Bonuccelli il 12 agosto 1944 fu testimone oculare, vedendo come fu trucidata anche la sua mamma e altri suoi cari e stretti familiari.
Fu così che si arrivò all’alba tragica del 12 agosto 1944. Quando i soldati con le croci uncinate arrivarono lassù, i partigiani avevano lasciato S. Anna già da diversi giorni. A Valdicastello, la prima cosa che fecero i tedeschi prima di iniziare a salire a S.Anna, fu quella d’imporre con la forza a diversi uomini di seguirli per trasportare, caricate sulle spalle, pesanti cassette di munizioni. Con il calcio dei fucili i tedeschi bussavano alle porte delle case, facendo capire di essere pronti anche a uccidere se qualcuno si fosse rifiutato di prestare loro l’aiuto richiesto.

Appena arrivati a Sant’Anna un soldato sparò con la pistola un razzo rosso. Dalla foce di Mosceta e da quella di Compito s’alzarono nel cielo altri due razzi; era il segnale stabilito per sferrare l’attacco. Quando la gente vide arrivare le S.S. così numerose, gli uomini ebbero appena il tempo di fuggire nei boschi vicini; nel paese rimasero soltanto le donne, i vecchi e i bambini. Furono le donne a mettere dei tavoli fuori dalle loro case, imbandendoli con pane, acqua e vino da offrire ai tedeschi al momento del loro arrivo.

I familiari del piccolo Renato Bonuccelli e lui stesso furono fatti uscire di casa e a forza furono sospinti, insieme ad altre persone, in una stanza al piano terra di una casa vicina che fu chiusa all’esterno. In preda ad un forte terrore quei poveretti non sapevano cosa fare. Ad un tratto un soldato ruppe i vetri della finestra e lanciò in mezzo alla stanza due bombe a mano. Improvvisamente la porta fu aperta e così quei poveri sventurati videro una mitragliatrice pronta a sparare contro di loro. La mamma del piccolo Renato prese subito per mano il suo bambino e gli fece salire la scala di legno per portarlo al piano superiore. Così facendo gli salvò la vita. Queste furono le sue ultime parole che disse al figlioletto. “Vado a prendere anche la nonna Ida e torno”, ma il bimbo non la vide più apparire.
Il piccolo sentì ripetute scariche e forti scoppi di bombe a mano che fecero sobbalzare il vecchio pavimento, mentre l’aria divenne irrespirabile per la polvere e per l'acre odore del fumo. Fu un vero e proprio massacro compiuto anche con l’impiego di lanciafiamme.

Nel vedere accendere questi micidiali ordigni nelle immediate vicinanze di altre case le donne che vi abitavano pensarono che volessero soltanto bruciare le abitazioni, come avevano fatto a Farnocchia dodici giorni prima, tant’è che iniziarono a tirare fuori i mobili e le masserizie, nel tentativo di salvarle. Ma subito le S.S. mostrarono le loro vere intenzioni, mettendosi a sparare all’impazzata contro la gente incredula che, senza parole, cadeva a terra senza vita. Spararono anche contro le bestie che si trovavano nelle stalle. Non ebbero pietà per nessuno. Un gruppo di persone fu spinto coi calci dei fucili all’interno della chiesa. Su quei poveretti vennero lanciate bombe a mano e scaricati colpi di mitragliatrice. “Kaputt! Kaputt! Tutti kaputt!”, urlavano le S.S., mentre i corpi delle vittime venivano investiti dal fuoco dei lanciafiamme. Ad una donna incinta sorpresa nella sua casa, fu squartato il ventre e al feto (quasi completo) venne sparato un colpo di fucile alla tempia. Questa visione apparve davanti agli occhi di Elio Toaff che fu l'unico rabbino partigiano in Versilia, quando, il giorno dopo la strage, sali a S.Anna di Stazzema.
Nella camera dove dove la mamma avev a accompagnato il suo piccolo figlio, questi vide che c’era anche il suo parente, Alfredo Graziani e tre donne che stavano rannicchiate in un angolo per evitare di essere raggiunte dai proiettili provenienti dall’esterno. Sul letto giacevano due donne morte, una era lasua nonna Zaira che probabilmente, dopo essere rimasta ferita all’inizio dell’attacco dei soldati, era riuscita a salire al piano superiore. Alcuni proiettili mandarono in frantumi i vetri della finestra. Quando non si udì più il crepitio delle armi Alfredo Graziani si avvicinò al bambino dicendogli: “Dobbiamo uscire. Sai dove andare?”. “Sì lo so, devo scendere giù nel canalone, dove c’è il mio babbo che si è rifugiato in una grotta insieme a mio zio. A questo punto l’uomo tolse i mobili che aveva messo sopra la botola e l’aprì. Fece le ultime raccomandazioni. “Qualunque cosa tu veda, anche la mamma morta, non ti devi fermare, non devi piangere, devi correre in silenzio da tuo padre”. Sceso al piano terra il piccolo Renato vide la stanza piena di tanti corpi senza vita. Riconobbe suo nonno Angelo, in fondo alla scala giaceva quello di sua madre. Il bambino la chiamò e la tocco inutilmente, vista la sua borsa la prese e fuggì verso il canalone. Fuori trovò la strada sbarrata da un lanciafiamme, ritornò indietro e giro e rigirò intorno per passare. Entrò anche nella case vicine per trovare una via di uscita. Morti e sangue dovunque. Non c’era altra soluzione, da lì doveva passare. Si fece coraggio, a fatica passò dietro il lanciafiamme e finalmente corse giù nel canalone. Nel farsi largo fra le alte felci smarrì il sentiero.
A quel punto cominciò a chiamare forte suo padre. Alcuni soldati lo sentirono e si misero a sparare nella sua direzione. Sentì fischiare sulla sua testa le pallottole mentre piccoli ramoscelli spezzati dai proiettili caddero intorno a lui. Finalmente vide tra gli arbusti spuntare suo padre che gli fece cenno di tacere e di andare da lui. I soldati non udendolo più pensarono di averlo colpito, quindi se ne andarono.

Nella grotta ritrovò suo zio Amerigo. Il bambino continuava a piangere. Suo padre credendo che il piccolo avesse fame tentò di confortarlo dicendogli che fra poco sarebbe arrivata la mamma col mangiare. Udite queste parole dagli occhi del bambino uscirono fiumi di lacrime, non riuscì più a parlare. Dopo diverso tempo sentirono la voce del nonno Nello che chiamava suo padre. Usciti fuori dalla grotta lo videro con la camicia tutta macchiata di sangue. Rinchiuso nella stanza dov'era stata fatta la carneficina era finito sotto un mucchio di cadaveri e, miracolosamente, era rimasto illeso. Alla vista dei superstiti della strage il nonno Nello allargò le braccia e con un filo di voce disse: “Tutti morti. Sono tutti morti.” Il 12 agosto 1944 il bambino Renato Bonuccelli vide uccidere sua madre Rosa Cesarini Guidi in Bonuccelli, il nonno materno Angelo Guidi; la nonna materna Ida Pierotti nei Guidi, e l’altra nonna Zaira Pierotti nei Bonuccelli.

Furono cento i bambini uccisi; una femminuccia, la creatura più piccola, aveva appena venti giorni. Molte persone finirono bruciate vive insieme ai loro cari. Don Innocenzo Lazzeri, il parroco di Farnocchia che era sfollato nella canonica di Sant’Anna, la mattina del 12 agosto aveva appena finito di celebrare la Santa Messa, quando s’accorse che stavano per arrivare i tedeschi. Al padre che lo supplicava di fuggire con lui nel bosco, non volle dare ascolto. Forte della fede cristiana che lo animava, si mise in giro per confortare la popolazione. Il fatto di essere sacerdote lo induceva a credere che i tedeschi lo avrebbero rispettato; pensava forse, con la sua presenza, di poter scongiurare il massacro, ma non fu ascoltato e venne anche lui martirizzato. Mentre in piedi stava benedicendo i corpi della gente uccisa, fu afferrato da due S.S. che lo trascinarono intorno alla chiesa e al campanile. Quando venne riportato nella piazza, si chinò per benedire il corpicino straziato di un bambino di pochi mesi. Mentre faceva il segno della croce fu crivellato da una scarica di colpi; il suo corpo fu gettato sul rogo, dove bruciò insieme a quelli delle altre vittime trucidate in chiesa. Dietro l’edificio sacro di S. Anna i tedeschi uccisero anche gli otto uomini che avevano portato, fin lassù, le cassette piene di munizioni.

Nel giorno della festa di S. Chiara alcuni soldati delle S.S. preferirono non rendersi complici di tale barbarie; per questo, anziché partecipare alla carneficina, senza farsi vedere dai commilitoni, scaricarono i colpi delle loro mitragliatrici contro alcuni animali, facendo credere di aver partecipato al massacro. In questo modo qualche abitante di Sant’Anna riuscì a salvarsi.

Una donna, Genny Bibolotti Marsili, rinchiusa in una stalla insieme a tanta altra gente disperata e urlante, nascose il suo bambino di sei anni tra due grossi massi di pietra che si trovavano dietro la porta dell’ingresso. Morirono tutti, colpiti dalle raffiche dei fucili mitragliatori e dal fuoco dei lanciafiamme. Soltanto il piccino si salvò. Dal suo nascondiglio la creatura vide la madre, ferita alla testa e grondante sangue, nell’attimo in cui, per distrarre una S.S. al fine di non farle scoprire il figlioletto, lanciò uno zoccolo in faccia al soldato che continuava a sparare contro quelle povere persone già agonizzanti. Il tedesco, sorpreso dalla reazione della donna, reagì sparando contro di essa l’ultima scarica di colpi, poi si allontanò.

Con questo gesto eroico la madre riuscì a salvare la sua creatura che, soltanto dopo otto ore trascorse dalla strage, un uomo tirò fuori dalla stalla. Il bambino, annerito dal fumo, aveva sul corpo ustioni di terzo grado, riportate per essere rimasto vicino alla porta mentre questa bruciava. Per guarire ebbe bisogno di cure mediche che durarono diciotto mesi. Scamparono dalla strage anche poche persone che, rimaste illese sotto i corpi dei familiari uccisi, finsero di essere morte insieme a loro. Quando le S.S. ridiscesero a valle, a Sant’Anna rimasero i resti di 560 persone, tra bambini, anziani e donne, spietatamente massacrati da belve feroci con sembianze umane.

Il primo a raggiungere S. Anna, forse il pomeriggio dello stesso giorno in cui avvenne la strage, con il fumo che ancora si alzava dalle case incendiate, nel vano tentativo di portare aiuto, fu il parroco di La Culla, don Giuseppe Vangelisti, accompagnato da alcuni parrocchiani.
Arrivato sulla piazza della chiesa il gruppetto vide davanti ai loro i resti di ossa umane bruciate. Dalla conta dei teschi risultò che le vittime lì trucidate furono 132. Altri 17 resti furono contati al Colle; 22 a Coletti, 17 lungo il sentiero che da Coletti va al Molino e 3 nel bosco. Per le persone bruciate dentro le case non fu possibile neppure conoscere il numero approssimativo. Fu don Giuseppe Vangelisti a recarsi presso il Comando tedesco da cui ottenne l’autorizzazione per la sepoltura dei resti delle vittime.
Quella del 12 agosto 1944 fu, salvo smentite, la più grande strage degli innocenti compiuta dalle S.S. in Italia durante la seconda guerra mondiale.
La strage di Sant’Anna, raccontata sui libri di Giorgio Giannelli, Lodovico Gierut, Renato Bonuccelli e Giuseppe Vezzoni, e su diversi articoli pubblicati sul periodico Versilia Oggi e su altri quotidiani nazionali, dove si parla anche delle testimonianze dei pochi sopravvissuti alla spaventosa strage degli innocenti, a distanza di più di 60 anni fa ancora rabbrividire. L’orrore che ancora suscita è immenso.
Dopo diversi decenni, quando finalmente si aprirono gli “armadi della vergogna” e fu possibile prendere visione dei documenti relativi alla strage di Sant’Anna, si apprese che essa fu compiuta dalla 5 ^ Compagnia del II Btl del 35° Rgt. della 16^ S.S. Grenadier Division, composta da giovanissimi volontari, dai 16 ai 20 anni, al comando del capitano austriaco Anton Galler e non dal maggiore Walter Reder, sospettato per lungo tempo di avere partecipato e diretto quell’azione criminale. Il 31 ottobre 1951 il Tribunale militare di Bologna condannava all’ergastolo e alla degradazione militare il maggiore Walter Reder, per le stragi compiute nella provincia di Bologna ed in altre località, e per l’uccisione, a Bardine di S. Terenzo (Lunigiana) dei 53 civili rastrellati nella zona di Valdicastello il 12 agosto 1944, mentre lo assolveva “per insufficienza di prove” dall’accusa di aver preso parte alla strage di Sant’Anna. Il famigerato capitano Galler, che dopo la guerra andò a lavorare in una miniera d’uranio in Canada, morì in Spagna nel 1995, impunito. Fu questo criminale di guerra che ebbe il barbaro coraggio di comunicare ai propri superiori che il 12 agosto 1944, a Sant’Anna, il suo reparto aveva ucciso 270 partigiani.
Con la sentenza del Tribunale Militare di La Spezia del 22 giugno 2005 fu comminata la pena dell’ergastolo a 10 ex S.S. colpevoli di avere partecipato alla strage. Dalla sentenza emerge che nessuna causa concorse a determinare un’azione di rappresaglia nei confronti della popolazione di Sant’Anna. In buona sostanza si trattò di un pianificato sterminio di cittadini inermi. Non emersero prove che qualche italiano aderente alla Rsi possa avervi partecipato indossando la divisa delle S. S. anche se, nell’immediato dopoguerra, circolarono alcune testimonianze degli scampati alla strage secondo cui tra i carnefici vi sarebbero stati addirittura qualche fascista della zona. Circolarono anche dei nomi, ma nel corso del processo gli imputati ascoltati in aula o per rogatoria non hanno mai confermato tale ipotesi.
Purtroppo anche più italiani, con indosso le tute mimetiche delle SS e con il volto mascherato, parteciparono alla orrenda strage.
Per lunghi anni, per amor di Patria, ho sempre pensato che alla orrenda strage di S.Anna, commessa dalle S.S. tedesche il 12.8.1944 non avessero partecipato fascisti italiani mascherati, che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana fondata da Benito Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Liberatore, camuffati con indosso una tuta mimetica, uguale a quelle delle S.S tedesche e con il volto coperto da retine, per non farsi riconoscere. In mancanza di elementi certi relativi alla partecipazione a questa strage anche di fascisti italiani, mi astenni, nel mio primo racconto, dal parlarne.
Riconosco di avere commesso un grave errore a non avere approfondito questo argomento. Davvero mi sembrava impensabile che a questa orrenda strage avessero partecipato anche degli italiani.
Purtroppo dalla lettura dei seguenti libri:

- Versilia la strage degli innocenti di Giorgio Giannelli

In questo libro si legge la testimonianza di Ennio Navarri che fu messo dai nazisti nel gruppo dei bimbi che furono rinchiusi in una stalla. Quando la porta fu riaperta, delle S.S. presero delle mucche. Fu proprio quando un componente di questo gruppo trascinava fuori una mucca che il piccolo Navarri lo sentì gridare “ Dai mora “. Il Navarri rimase colpito da questa frase detta in chiaro dialetto versiliese. Quando per l'ultima volta la stalla fu riaperta, i tedeschi gettarono in mezzo a quei ragazzi bombe a mano, Ennio Navarri, che stava in fondo alla stalla vicino alla greppia, riusci a spiccare dei salti sopra le bombe prima che esplodessero, riuscendo così a salvarsi.

- Un prete indifeso in una storia a metà- Don Giuseppe Vangelisti e il suo memoriale , scritto da Giuseppe Vezzoni e finito di stampare nel mese di novemre 2006..

In relazione alla presenza a S.Anna il giorno della strage di italiani e fascisti, Giuseppe Vezzoni ha parlato del memoriale scritto da don Giuseppe che ha raccontato che un certo Giuseppe Pardini, udì un soldato dire mentre stava uccidendo una vacca “ non sei ancora morta mostra, in termini prettamente locali”.
Sempre nel suo memoriale don Vangelisti ha annotato quanto gli disse il giorno dopo la strage il padre di don Innocenzo Lazzerri: ”Sa chi c'era anche? Il tal dei tali, l' ha riconosciuto mio fratello a Valdicastello mentre si toglieva la maschera credendosi ormai lontano dai conoscenti”.

La santannina Cesira Pardini durante il processo alle S.S. ha confermato in aula che a sparare a sua madre fu sicuramente un italiano.

Dall'intervista rilasciata alla La Nazione il 13.4.2002, Ennio Bazzichi che aveva tre anni quando avvenne la strage, e che era con la nonna a Sennari, ha raccontato quanto ella gli aveva detto quando in quella località arrivarono tedeschi tra i quali c'erano anche degli italiani, I primi arrivati erano in divisa mentre i secondi gruppo giunt sul posto avevano il volto mascherato. I tedeschi appena arrivati inziarono a portare fuori la gente dalle loro case. In quel momento uno disse a sua nonna “muoviti che ti prendo a calci.”. Poi un ufficiale giunto sul posto, in lingua tedesca ordinò di portare la gente di Sennari a Valdicastello.
In sostanza da questa intervista risulta che gli abitanti di Sennari furono graziati perché sembrerebbe che in quella località c'era qualcuno che aveva lavorato coi tedeschi.

In merito alla denuncia della strage, ci sono le testimonianze rese in sede dibattimentale di Lidia Pardini,Renato Bonuccelli, Angelo Berretti. Marietta Mancini, Arnaldo Bertolucci e Ettore Salvatori, quest'ultimo riconobbe , che tra i tre italiani che con i tedeschi uccisero la gente in località Colle, c'era un un tale Giuseppe Ricci, che in un confronto presso la pretura di Pietrasanta avvenuto nel dopoguerra ammise di aver partecipato alla strage perché fu minacciato di mortedai tedeschi
Due pietrasantini, Francesco Gatti ed Egisto Cipriani, furono riconosciuti dal fratello dell'ex partigiano Nicola Badalacchi tra le SS italiane che scortarono a Lucca la colonna dei civili rastrellati a Valdicastello il 12.8.1944. Quì mi fermo, perchè il discorso sugli italiani che parteciparono alla orrenda strage è ancora lungo, motivo per cui chi volesse approfondire questo tragico momento potrà farlo leggendo il libro del Vezzoni.

Una strage nel tempo di Lodovico Gierut

Anche Gierut ha riportato nel suo libro la testimoniana di Nicola Badalacchi , di cui ha parlato anche il Vezzoni, Inoltre Geirut nella sua opera ha pubblicato tutte le numerose testimonianze ricevute per iscritto rese da ex partigiani, da 5 scampati alla strage,e da uomini politici arrivati ad occupare anche le più alte cariche dello Stato, di pittori e scultori e di famosi scrittori e giornalisti.

Concludo col citare il libro sulla strage di S.Anna, scritto dallo storico professore Paolo Pezzino ( nominato dal PM consulente tecnico del processo celebrato contro le SS) dell'università di Pisa, il quale riporta numerose testimonianze dalle quali risulta evidente che fra le SS che commisero la strage c'erano anche diversi italiani che furono uditi parlare nella nostra parlata durante l'orrenda strage. Le frasi udite sono state tutte riportate nel libro dello storico professor Pezzino..

domenica 13 marzo 2011

Voglio ancora parlare di don Mario Mencaraglia

Lessi con gioia e commozione quanto scrisse sulla Cronaca libera (foglio telematico) i primi giorni del mese di gennaio del 2010 Giuseppe Vezzoni su don Mario Mencaraglia, sacerdote che conobbi quando tenne nel salone della Misericordia, di Seravezza, ai tempi in cui era governata dall' indimenticabile Dr. Luigi Santini, brillanti conferenze sull'arte sacra, a cui si dedicarono, ottenendo magistrali opere, grandi artisti nati nel passato nel comune di Stazzema. In verità la prima volta lo vidi a Volegno quando, nel mese di agosto 1988, fu festeggiato il centenario della torre campanaria di quel paesino dell'alta Versilia. La sera del 24 agosto la trascorsi lassù con i miei familiari e fu una serata fantastica, come lasciava intravedere il programma delle manifestazioni intitolato "Musica come parola", Cantò il tenore Giancarlo Deri, si esibirono il musicista Massimiliano Grazzini, ed anche un giovane chitarrista di cui non ricordo il nome. Poi danzò da sogno Enrica Salvatori e furono lette liriche dagli stessi poeti presenti, tra i quali ricordo il presidente pro-tempore dell'accademia della Rocca Vittoriano Orlando e le brillantissime Aurora Bresciani ed Edoarda Banchieri.
Il pubblico presente fu accolto con grande affettuosità e generosità Furono offerti biscotti fatti in casa e del buon vino. Ricordo l'espressione felice dell'uomo che mi versò un pò di vino nel bicchierino che poco prima mi aveva dato. "Lo servo io , lo servo io", ripeteva, mentre tentavo di fare tutto da me. Questa accoglienza cordiale signorile e generosa , se anche si pensa al fatto che tutti gli spettacoli furono offerti gratuitamente mi colpirono, tanto da farmi pensare che a Volegno, accanto al loro parroco don Mario c'era gente davvero eccezionale. Di quella bella serata di festa oltre a conservare nel mio cuore un bel ricordo, mi è rimasta la preziosa medaglia, che acquistai in quell'occasione, che fu coniata per ricordare ai posteri i cento anni della torre campanaria. Furono gli uomini dei nostri monti a volere questa torre e molto faticoso fu il lavoro che svolsero per edificarla. La vollero perché il suono dolce delle campane richiamassero l'attenzione dei fedeli a riunirsi per festeggiare le feste parrocchiali che allietano sempre i cuori della collettività paesana e per pregare nella casa di Dio durante le feste del Signore C'è anche il suono del tocco da morto emesso da una campana che invita i fedeli alla preghiera quando avverte la gente che nella loro chiesa sarà celebrata la santa messa a suffragio dell'anina di un uomo arrivato alla fine del suo cammino terreno.
Incontrai ancora don Mario Mencaraglia quando la banda di Seravezza,della quale facevano parte due miei cari amici, Alberto Benti e Mario Tarabella,davvero eccezionali suonatori si trombone il Benti e del sassofano e clarinetto il Tarabella,purtroppo scomparsi in questi ultimi anni, effettuò un concerto davanti alla chiesa di Pruno. Fu Don Mario a fare gli onori di casa. Terminato il concerto ai musicanti furono offerte gustose panzanelle, schiacciatine e pizzette e bibite analcooliche.
Dal mio parroco Don Nino Guidi, nato a Pruno ho saputo che don Mario vive tuttora sul monte di Ripa. Voglio ancora ringraziare don Mario per l'alto magistero sacerdotale svolto a beneficio della popolazione dell'Alta Versilia che sicuramente non lo dimenticherà mai.
Anche se don Maria Mencaraglia, non è più il loro parroco il cuore di questo sacerdote è e rimarrà sempre ricco dell'amore divino di Dio nostro Padre Misericordioso.

martedì 8 marzo 2011

Due cuccioli gettati in un cassonetto

La notizia di cui ora parlo, veramente molto brutta, l'ho appresa leggendo una locandina esposta davanti ad una edicola qualche giorno fa. I lamenti di questi due piccoli animali sono stati uditi da una passante che ha chiesto l'aiuto ad un uomo per tirarli fuori dal cassonetto. Cosi i due cuccioli sono stati salvati da una orribile morte. Questo fatto crudele commesso da una persona senza cuore, mi ha fatto ritornare alla luce della mia memoria, quanto constatai nel 1949 quando percorsi, di mattina, l'argine del fiume Versilia che dalla Centrale conduce al Poggione di Ripa di Seravezza. Mentre transitavo vicino ad una fitta siepe, sentii dei rumori anomali che mi fermarono il passo. Incuriosito mi avvicinai alla siepe. Fu così che rilevai che sulla stessa era stato gettato un sacchetto chiuso con dello spago, che si muoveva in continuazione in seguito agli scatti disperati e frenetici di un animale che pensai vi fosse stato messo dentro da qualcuno che voleva liberarsene. Con un coltellino tagliai lo spago e subito, con un balzo, salto fuori un grosso gatto che si allontanò immediatamente dalla zona. Si era nell'immediato dopoguerra e in Versilia c'era molta disoccupazione e si pativa ancora la fame. Molti uomini andavano a fare la rena nel fiume per sopravvivere. Questo mi viene sempre in mente nel ricordare quel gatto a cui salvai la vita. Non l'ho scritto ora per giustificare il comportamento miserevole commesso dall'uomo contro “il fratello gatto”, come l'avrebbe chiamato S. Francesco d'Assisi. Ho sempre sperato che l'animale miracolosamente scampato alla morte, non sia ritornato nella casa del suo padrone, ma che abbia trovato un uomo buono che lo abbia preso con sé, dandogli la necessaria assistenza e amore.
Lo stesso giorno in cui ho letto sulla locandina questo fatto doloroso, sono transitato davanti alla casa dove abitò Giuseppe Mazzini, il fondatore della Giovane Italia, che li si rifugiò sotto falso nome, quando era un perseguitato politico. Di questo grande uomo che nel 1827 si affiliò alla Carboneria, ricordo soltanto quanto ci raccontò di lui in classe, negli anni trenta, (più di 70 anni fa) il nostro maestro. Questi ci narrò che quando era ragazzo Giuseppe Mazzini nel prendere in mano un grillo, gli spezzò involontariamente una zampina, fatto che lo sconvolse fino a farlo piangere dal dispiacere Questo racconto ben descritto che commosse tutta la classe, è rimasto sempre vivo nel mio cuore.

8.3.2011