domenica 12 novembre 2017

Giacomo Puccini, appuntato ad honorem della Guardia di Finanza

Novantatre anni fa, il 29 novembre 1924, cinque giorni dopo essere stato sottoposto ad un intervento chirurgico alla gola, moriva a Bruxelles l’appuntato ad honorem della Regia Guardia di Finanza Giacomo Puccini, celebre autore di opere immortali che tuttora vengono rappresentate nei più importanti teatri del mondo. 

Discendente di una famiglia di musicisti, era nato a Lucca il 22 dicembre 1858. Studiò al conservatorio di Milano, con il violinista Antonio Bazzini e Amilcare Ponchielli come maestri. Nella città della Madonnina visse con la sua compagna Elvira, che per seguirlo abbandonò il marito. La coppia attraversò un periodo di stenti. Con il successo, ottenuto nel 1884 attraverso la rappresentazione della sua prima opera “Villi”, Puccini ebbe dall’editore Ricordi l’incarico di scriverne una nuova. Riuscì così a portare avanti la sua attività di maestro compositore di opere musicali, fino a raggiungere i massimi livelli. 

La sua musica fa pulsare il sangue nelle vene, è rara, dolce, drammatica, piena di pathos. Porta l’ascoltatore a immedesimarsi nelle scene che gli appaiono davanti agli occhi, riuscendo a farlo sognare mentre si inebria. Quelle sue note, magicamente assemblate come i colori sulla tavolozza di un grande artista, inducono a pensare a quanto sia bella la vita se l’uomo è in grado di amare. Ma non voglio dilungarmi oltre sui sentimenti che la musica di Puccini è capace di suscitare in chi l’ascolta. In questo mio scritto desidero soffermarmi sull’uomo Giacomo Puccini, quando negli anni tra il 1920 e il 1921 trascorse lunghi periodi tra Orbetello e Capalbio, dove aveva acquistato una torre cinquecentesca chiamata Tagliata Etrusca, vicina alla quale vi era un piccolo edificio che ospitava la sede della Brigata della Guardia di Finanza litoranea, con pochi uomini in forza, impiegati a svolgere servizi di vigilanza doganale marittima lungo 14 km di costa. 

La passione per la caccia portò Puccini a trasferirsi temporaneamente da Torre del Lago (LU) in Maremma,  sicuramente attratto da quel territorio dove volavano una miriade di uccelli migratori di tante specie. Nel tempo trascorso nella Torre Tagliata (foto) il Maestro strinse rapporti di cordiale amicizia e di reciproca stima con il comandante del reparto, l’appuntato Teriggi Campelli, e con tutti gli altri finanzieri. Spesso giocava con loro a tressette e beveva volentieri un bicchiere di vino giovane. Altre volte, invece, si soffermava a mangiare il minestrone preparato dal finanziere addetto alla cucina. L’appuntato Teriggi amava ed apprezzava le cose belle, tra le quali la musica, cosicché il Maestro spesso gli chiedeva cosa pensasse di certi brani musicali che lui stava componendo. 

Puccini era cordiale ed amichevole con tutti i finanzieri. Comprendeva il duro servizio che svolgevano sia di giorno che di notte, anche con il brutto tempo. Il carattere buono e socievole del Maestro conquistò il cuore di tutti i finanzieri che a loro volta nutrivano, nei suoi confronti, sentimenti di vivo e sincero affetto. Una mattina Puccini andò a trovare in caserma il Comandante, che era ancora al letto. "Stanotte sono andato a dormire alle quattro, dopo 14 ore di perlustrazione ero molto stanco, sono stato a scambiare il visto al fiume Chiarone col drappello di Montalto. Almeno avessi incontrato qualche contrabbandiere", gli disse il Teriggi. "Ma se non ci sono i contrabbandieri perché fate questi servizi? gli chiese allora il Puccini. "I contrabbandieri non ci sono perché ci siamo noi". Fu al termine di questo cordiale colloquio che Puccini invitò il comandante della brigata ad utilizzare per l’avvenire il suo asino, così si sarebbe stancato di meno. 

Quando Puccini lasciò definitivamente la Torre Tagliata, oltre ad una sua fotografia volle donare al comandante della Brigata il proprio asinello. Solenni onori furono attribuiti dalla Guardia di Finanza a Giacomo Puccini dopo la sua morte. Sulla facciata della torre Tagliata fu murata una lapide di marmo con la seguente scritta a caratteri cubitali: 

"IN QUESTA TORRE CHE FU SUA GIACOMO PUCCINI RIPOSANDO NELLA SILENTE POETICA QUIETE DI MILLENARI RICORDI - NEL FRAGORE DELLE ONDE RIPETENTI SULLO SCOGLIO L’ECO DI GRANDI NOMI VISSE FRATERNAMENTE DUE ANNI CON I MILITI DELLA REGIA GUARDIA DI FINANZA - APPREZZANDONE LA SINCERITA’ DEGLI AFFETTI E L’ABNEGAZIONE DELLA VITA TUTTA VOTATA ALLA PROSPERITA' DELLA PATRIA. I FINANZIERI GRATI DI TANTO ONORE POSERO QUESTO RICORDO.  MAGGIO 1925".

Renato Sacchelli


giovedì 26 ottobre 2017

Ricordo dell'amico don Giorgio Servi

Conservo un ricordo sempre vivo nel cuore del sacerdote pisano don Giorgio Servi, che conobbi verso la fine dell’anno 1984, da quando, con la famiglia mi trasferii da Pisa a Casciavola, nel Comune di Cascina. Tutte le mattine attendevo l'autobus per arrivare in città, dove si trovava il reparto della Guardia di finanza cui ero in forza. Lui usciva dal cancello delle suore dell’ordine di S. Antonio, che gestivano un asilo infantile, dopo aver celebrato la Messa nella chiesina annessa al loro fabbricato, che don Giorgio raggiungeva ogni giorno, al mattino presto, salendo su uno dei primi bus che partivano da Pisa diretti a Pontedera. Quando l’automezzo non era affollato mi sedevo sempre accanto a lui. Mi raccontava molte cose interessanti.

Don Giorgio era nato nell’inverno del 1926 dopo che il “carro di Tespi” e alcuni carrozzoni giunsero a Fusignano (Ferrara) con a bordo i teatranti della Celebre Compagnia Drammatica, che doveva recitare il lavoro teatrale intitolato “Stefano Pelloni il Passatore”, dramma storico in 6 atti e 9 quadri, incentrato sulla vita del famoso bandito della Romagna che fu appunto il Pelloni. La compagnia era diretta dal capo della famiglia, Ubaldo Servi (padre del futuro sacerdote don Giorgio), che era anche l’attore più importante del gruppo insieme alla moglie, prima attrice.

Qualche volta, durante i nostri brevi viaggi per Pisa, capitava che non riuscendo a concludere gli argomenti trattati appena arrivavamo in città don Giorgio mi accompagnasse, a piedi, fino al ponte Solferino, in modo tale da poter terminare i suoi racconti. La mamma di don Giorgio quando giunse a Fusignano era agli ultimi giorni di gravidanza. Infatti, subito dopo l'arrivo nella località romagnola, partorì il figlioletto, che dopo la nascita venne lasciato a succhiare il latte dal seno di un'ottima balia, che lo allevò fino al 18° mese. Don Giorgio mi fece anche un drammatico racconto, relativo al devastante bombardamento aereo effettuato su Pisa dalle fortezze volanti americane il 31 agosto 1943, che procurò moltissimi morti, feriti e ingenti danni (leggi qui il racconto del bombardamento).

Alle ore 7 del 2 luglio 1950 nella primaziale di Pisa l'Arcivescovo Ugo Camozzo chiamò Giorgio Servi sacerdote per il popolo cristiano, consacrandolo ed immettendolo come “cadetto pastore”, prima di affidargli ulteriori incarichi. La commozione unita alla sua fresca purezza gli fecero sognare opere e conversioni grandiose. Ma il suo impatto con Dio fu indovinato e giusto, tanto da rallegrare per sempre la sua scelta di vita. Dalle sue dotte omelie, che sgorgavano dal cuore e si basavano sulla lettura approfondita dei Vangeli e sugli esempi di vita terrena del nostro Redentore, mi resi conto di quanto fosse grande la fede che don Giorgio nutriva verso il Creatore. Egli rivolgeva sempre il suo pensiero affettuoso nei confronti dei più bisognosi, dei poveri e degli ammalati, e invocava l’aiuto di Dio affinché tutti potessero trovare ristoro dalla sofferenze, non solo fisiche.

Che bello fu per me poterlo ascoltare quando mi raccontò che da giovane, oltre ad essere tifoso della Juventus ebbe una grande passione per il calcio fino ad arrivare a giocare ad ottimi livelli. Fu per questo che i suoi colleghi seminaristi lo nominarono loro capitano. Un giorno il futuro sacerdote don Giorgio disputò una partita contro una squadra che schierava, tra le proprie file, Carlo Annovazzi, un forte giocatore del Milan. Quest'ultimo rimase sorpreso nel vedere giocare così bene il giovane seminarista. Quando durante una fase di gioco si trovarono vicini, sul campo, Annovazzi gli chiese se per caso giocasse in serie B.

Nei giorni festosi del Santo Natale e della Santa Pasqua, in cui i mezzi pubblici non circolavano, lo andavo a prendere a Pisa per portarlo con la mia vecchia auto a Casciavola, dove rimaneva per celebrare la Santa Messa dalle suore Antoniane. Al termine della celebrazione lo riportavo nella città della torre pendente. Nelle sue preghiere don Giorgio pronunciava sempre parole di amore volte a glorificare la nostra fede cristiana, dichiarandosi un umile e povero pastore del gregge di Dio. 

Quando divenne prete fu nominato parroco della più povera parrocchia dell’alta Versilia, Basati, il paese dove era nata la mia cara nonna materna, Marianna Marrai. Nella comunità di Basati, dove fu parroco per nove anni, don Giorgio fu un abile camminatore di Dio, con scarponi ai piedi e zaino sulle spalle per il pane quotidiano, molto faticoso per un sacerdote che operava tra le rocce e i castagni. Basati, però, gli è sempre rimasta nel cuore. Quando le circolari mandate dalla Curia lo ammonivano per la scarsa partecipazione della sua parrocchia rispetto a quanto facevano altre, che presumibilmente avevano più congrue rendite, per attenuare il suo dispiacere don Giorgio metteva fuori dalla finestra, al freddo della notte e al sibilo del vento della tramontana (chiamata “cavallaccia”), le lettere che aveva ricevuto, e al mattino le riponeva malconce in casa, tirando un sospiro di sollievo.

In occasione della processione del Corpus Domini un anno disse alle ragazze di portare loro il baldacchino e quando uscirono dalla Chiesa tra gli uomini esterrefatti udì la voce del capo sezione del Pci bofonchiare... dopodiché, con alcune occhiate d’intesa, furono i giovanotti a sostenere lo sforzo portando le aste dorate. Il suono amichevole delle campane era reso più convincente quando i fiaschi di vino ungevano le funi ai sonatori, tanto da non sentire lo sfregamento delle corde sulla pelle delle loro mani. Le feste paesane erano attese sempre con trepidazione, come se si trattasse dell’arrivo di re o principi: mentre si riunivano i comitati, che promuovevano adunanze, raccolte e sonetti per i minori del paese e per le famiglie, le mense si rallegravano per la gente accorsa numerosa da fuori per gustare i buonissimi e nutrienti tordelli preparati dalle casalinghe, e i preti delle vicine parrocchie si ritrovavano per la Messa e per i Vespri. L’organo diffondeva note musicali che facevano vibrare sempre di più il cuore dei fedeli. Talvolta capitava che le campane suonassero “al fuoco”, nottetempo, per chiamare i parrocchiani a spegnere gli incendi seguendo l'ordine del parroco, unico tutore della legge e della sicurezza.Basati era abitata da famiglie povere e buone, ospitali ed umili, che trasmettevano a don Giorgio una sensazione di responsabilità e fiducia nei suoi interventi a vantaggio dell’intera Comunità. Verde vallata era, ed è tuttora, quella di Basati percorsa da piccoli ruscelli “chiacchieroni” e puliti che cambiano volto solo quando arrivano al piano, giungendoci contenti perché aiutano l’operosa volontà dell’uomo di cava, di segheria e di laboratorio della Versilia”: ecco un altro dei tanti bei pensieri scritti da don Giorgio nel suo bellissimo libretto intitolato “Serse da Pisa” che lui mi volle donare un giorno.

Per diversi anni don Giorgio prestò servizio quotidiano nelle colonie estive. Furono anni per lui molto belli, in quanto udiva il linguaggio del mare al quale rispondeva con le preghiere rivolte a Dio. Conobbe poi il servizio quotidiano svolto nel Pian di Pisa. Un periodo che visse con stanchezza, per l'età avanzata, ma anche con grande freschezza spirituale, per avere lì trovato e portato gioia, con le sue celebrazioni, alle Suore Antoniane. Alla luce del bene che nutrivo nei suoi confronti più di una volta lo invitai a cena a casa mia, dove veniva sempre accolto con grande festa dai miei familiari. Quando arrivava il momento del caffè e gli veniva messa la tazzina nel posto che lui occupava, a tavola, lo beveva solo dopo averlo versato nel piattino, precisando, mentre tutti noi sorridevamo, che così lo sorseggiava il cardinale Svampa. Mi sembra doveroso e opportuno elencare, qui di seguito, l’attività sacerdotale svolta da don Giorgio durante la sua vita.

Inizio da Basati, che fu per lui una grande palestra di zelo e semplicità, e dove fu amatissimo dalla popolazione; il breve mostrarsi a Palazzi gli valse come giro di volta per correggere il precedente comportamento di timidezza che ebbe verso gli altri di ogni grado; la dolce pausa a Forte dei Marmi gli ridiede la fiducia in sé e nei confronti della gente che conobbe; il cappellanato agli Istituti Riuniti lo rese amichevole educatore dei giovani che valse anche per il servizio comandato; l’insegnamento religioso nella scuola media lo rese amico di tanti ragazzi e famiglie; la collaborazione in S. Pierino con don Burgalassi gli aprì la mente verso gli interessi culturali; il servizio volontario ai Cavalieri lo vide generoso servitore; la libera collaborazione all’Associazione diocesana del clero lo vide festosamente impegnato; il servizio triennale ripetuto come confessore delle suore lo tenne spiritualmente fertile; ritenne magnifiche le esperienze di Assistente Scout che ebbe per circa venti anni; i servizi prestati in occasione delle feste di S. Matteo e S. Antonio, e presso l'Arcivescovado, lo misero a stretto contatto con il mondo giovanile cristiano; le varie supplenze interinali nelle parrocchie di San Pierino e San Prospero, affidategli dal Superiore e la guida spirituale del movimento Vedovile di spiritualità lo tenne mensilmente impegnato nella chiesa dei Galletti per oltre 10 anni. Svolse altre attività prettamente clericali, come la predicazione di esercizi alle suore o in grandi parrocchie che fecero sentire a don Giorgio di essere stato un prete sereno e felice.

Un anno chiesi al signor Comandante del Gruppo di Pisa della Guardia di finanza di invitare don Giorgio a partecipare alla bella festa per la ricorrenza della fondazione del nostro Corpo, risalente al 1774. La mia richiesta fu accolta. Fui felice quando vidi il nostro arcivescovo, il compianto monsignor Alessandro Plotti, celebrare nel cortile della nostra caserma la Santa Messa, con al fianco, come concelebrante, don Giorgio Servi, che in quella occasione indossò un nuovo abito talare. Il padre di don Giorgio, l'attore Ubaldo Servi, era stato un letterato cattolico molto apprezzato, come dimostrò con una sua opera teatrale sulla Passione di Gesù che fu molto gradita dal Vescovo e da tutti gli spettatori. Egli terminò l’attività di attore e regista nel 1931, per esercitare successivamente l’attività di bancario. Quando suo figlio era parroco di Basati andò a trovarlo per stare un po' insieme a lui. Purtroppo però il tempo fu troppo breve: fu colpito, infatti, da un infarto che lasciò nel più profondo dolore il figlio don Giorgio.

Una bella fotografia di don Giorgio (vedi a lato) ritratto insieme a Piero, Dario Giannini, Luciano Leonardi, l’ho trovata stampata sul bel libro intitolato “Sui sentieri delle Apuane” scritto dal compianto don Florio Giannini, fondatore della rivista cattolica “II Dialogo” e parroco di Ruosina e successivamente del Tonfano, a Marina di Pietrasanta. Detta foto, con l’immagine del corpo di Gesù crocifisso, reca anche le annotazioni “Traversata” e l’anno 1958. Mi è rimasta sempre nel cuore la rivista fondata da don Florio, di cui ero abbonato e appassionato collaboratore. Quale pastore delle anime dei fedeli, don Giorgio fu sempre più vicino ai fedeli della chiesa del Signore. Oltre che nelle chiese celebrò funzioni religiose in più di 500 altari: caserme, campeggi, cimiteri, rettorie, fabbriche, Circo Medrano, Palazzo della Provincia, istituti religiosi oltre ad alcuni altari improvvisati su dighe, cave di marmo, alberghi, pinete, spiagge. Da livello 0, a bordo di navi nel mar Tirreno e nell’Adriatico, salì fino ai 2757 metri della Cima Coppi, al passo dello Stelvio. Con i suoi confratelli sacerdoti ebbe rapporti consolanti che lo arricchirono. Nel suo libretto ha ricordato don Borla, don Virgili, don Burgalassi ed altri che gli sono stati fratelli nell’aiuto e nel consiglio, come ad esempio don Innocente e il suo seminarista in Versilia, don Leonardi. Ma anche don Luigi Morra, cappellano militare della 46^ Brigata Aerea di Pisa, che lo introdusse in un ambiente che quando era giovane aveva chiesto di poter frequentare al suo superiore, sempre ottenendo una risposta negativa.

Don Giorgio fu legato da vincoli di fraterna amicizia anche con l'allora parroco della Cappella, don Hermes Lupi (ora monsignore e parroco a Seravezza). Don Hermes è un grande sacerdote amato da tutta la popolazione seravezzina. Molti anni fa vidi arrivare don Giorgio con molta sorpresa a Seravezza, dove mi trovavo a trascorrere un periodo di riposo estivo nella casa di mio suocero, Giuseppe Pucci. Don Giorgio viaggiava a bordo di una Vespa. Mi disse che doveva salire alla Cappella, dove era parroco il suo confratello e amico don Hermes Lupi.

In occasione della Messa d’argento l'arcivescovo di Pisa, Benvenuto Matteucci, dimostrò molta generosità nei confronti di don Giorgio, offrendogli un bellissimo pellegrinaggio in Francia mentre altri due confratelli, don Sabucco, parroco di Forte dei Marmi, e Borlas, gli offrirono un pellegrinaggio in Israele, di cui lui fece un bel resoconto pubblicato nella diocesi di Pisa e a Gerusalemme, che successivamente donò anche a me. Ricordo il dispiacere che mi manifestò quando subì un furto, nella sua modesta abitazione, da alcuni malviventi che avevano gettato a terra tutta la biancheria e gli abiti che teneva riposti con ordine nei cassetti del canterale e nell’armadio. Sotto agli abiti rinvenne anche il calice che usava quando celebrava la Santa Messa. Gli rubarono delle monetine che aveva raccolto quando era andato in pellegrinaggio a Gerusalemme, a Roma ed in altre località dove esistevano basiliche e famosi santuari cristiani. Quando fu sfrattato dalla casa in cui abitava a Pisa non riuscì a trovarne un’altra in cui andare ad abitare né trovò una stanza per poter dormire. Non trovò aiuto da nessuno, e questo indubbiamente lo fece molto soffrire. Accettò, alla fine, la proposta di andare a stare presso una anziana signora di profonda fede cristiana che abitava vicina alla chiesa della Parrocchia di Sant'Ermete, a Forte dei Marmi. Nel periodo in cui era stato parroco del Forte don Sabucco, questi si era avvalso della collaborazione di don Giorgio. Fu per questo fatto che tale chiesa rimase sempre nel cuore di don Giorgio. In quegli anni don Sabucco inviò una lettera a don Giorgio che iniziava così: “Al caro puntello spirituale di Forte dei Marmi…”. Credo che sia stata questa grande e meritata considerazione a convincere don Giorgio a trasferirsi in Versilia.

Quando andai a trovarlo nella sua nuova abitazione mi disse che aveva avuto un infarto che lo aveva scosso e fatto molto soffrire, aggiungendo anche: “Ora non ci vedo più “. Appena seppi che era stato ricoverato in gravi condizioni all’ospedale vicino al Lido di Camaiore, andai a visitarlo. Lo trovai disteso su un lettino. Soffriva molto e si lamentava. Accanto stava seduta su una sedia una giovane donna che lo assisteva. Subito gli dissi: “Don Giorgio, sono il maresciallo Sacchelli”. A fatica e con scarsa intellegibilità ripetette “ma-re-sci-al-lo, Sac-chel-li” , emettendo anche dei rantoli che mi fecero capire che stava per morire. Infatti il 2 febbraio 2005 si spense. Trovai conforto dalla certezza che subito dopo il decesso la sua anima era subito volata nella casa del nostro Padre Celeste, per vivere in eterno accanto ai suoi genitori, ai suoi cari defunti ed a tutti coloro che lo conobbero e gli vollero bene. Quando uscii dall’ospedale non pensai di dare il numero della mia utenza telefonica alla donna che assisteva don Giorgio, perché lo desse a qualcuno dei suoi nipoti o alla signora presso la quale era stato accolto a Forte dei Marmi. Fu a causa di questa mia imperdonabile dimenticanza che non mi venne comunicata la morte di don Giorgio, motivo per cui non partecipai al suo funerale. 

Voglio ricordare che quando gli lessi, nel 1989, la mia poesia “Due Angeli nel pozzo”, dedicata alla memoria del piccolo Alfredino Rampi (morto a Vermicino nel 1981 dopo essere caduto in un pozzo artesiano), l’ultima parola scritta, “Paradiso”, è sua. Fu lui che volle che l’aggiungessi subito dopo che gliel'avevo letta. È sua anche la presentazione di un mio libretto di poesie (C. Cursi editore 1989) che volle firmare anonimamente, “un amico”. Ho sempre vivo nel cuore il suo pensiero su ciò che scrivevo in merito alla fede cristiana da me sempre fortemente sentita, facendomi intendere che era stato Dio a scegliermi per diffondere le parole di amore, carità e perdono e quant’altro espresse Gesù Cristo quando discese fra gli uomini in terra. Ebbi da lui anche il dono di una bella penna a sfera “Aurora”: gli dissi che non doveva donarmi nulla ma lui non volle ascoltarmi. Quando si trasferì a Forte dei Marmi mi volle regalare anche diversi bellissimi volumi sulla storia del calcio, di cui era grande appassionato.

Caro don Giorgio, spero che le mie parole possa sentirle lassù nel Cielo: le confesso che le ho voluto tanto bene. Mi perdoni se non gliel’ho mai detto, ma voglio pensare che in anni lontani lei abbia compreso questo mio muto pensiero che ho sempre avuto nei suoi confronti.

Concludo rivolgendo il mio pensiero a nostro Dio Misericordioso perché, quando morirò, accolga la mia anima in cielo per poter rivedere tutti i miei cari e l'amico don Giorgio.

lunedì 17 luglio 2017

I Martiri di Pechino

“Vogliamo la libertà!
Chiediamo di poter
crescere e vivere
in uno stato democratico!”
Nella grande piazza Tien An Men
gli studenti disarmati di Pechino
sono stati trucidati,
mentre rivendicavano
i diritti sacri,
inalienabili dell’uomo.
Carri armati, autoblinde
fuoco e fuoco.
No! Non è così
che si governa un popolo!
L’eco delle grida
dei martiri stritolati
con le loro biciclette,
non si è ancora spenta
e mai si spegnerà,
perché l’uomo
non può vivere
senza libertà!

 Renato Sacchelli


Ho scritto questi versi diversi anni fa. Mi piace riproporli sul mio blog come omaggio alla memoria del professor Liu Xiaobo, uno dei "martiri di Pechino", morto di recente a 61 anni, dopo una durissima condanna che gli era stata inflitta dalle autorità cinesi perché aveva osato chiedere libertà e democrazia per il suo popolo. 




giovedì 6 luglio 2017

Le mie Fiamme Gialle


C’è qualcosa nel suo cuore 
che non riesco a spiegare, 
intanto a dieta deve stare. 
Dottore, ma proprio ora ch’è Natale 
e con tutto il po' po' di buono
che c’è da mangiare? 
Sì, non c’è da scherzare, 
il suo cuore, ci pensi, 
pompa da quasi novant’anni 
e ora deve stare attento 
non può più tanto faticare 
ha bisogno di riposare. 
Ah! Comprendo dottore, 
che sollievo mi danno 
le sue parole.
Mi fanno capire 
dove sono finite 
le amate Fiamme Gialle 
che per oltre quaranta anni 
ho portato con fierezza 
sul risvolto della giacca grigioverde
mia gloriosa divisa,
e che ora fanno parte
del mio cuore. 
Buon Natale dottore! 

(Renato Sacchelli)



giovedì 1 giugno 2017

“Mamma, ho visto passare Gesù”. La grandezza di don Quintino, servo di Dio

Conservo ricordi commoventi rimasti scolpiti nel mio cuore della gita cui partecipai nell'agosto 1997 a Balze (Forli-Cesena), per visitare i luoghi dove visse gli ultimi anni della sua vita don Quintino Sicuro, che dal 1939 al 1947 prestò servizio nel glorioso Corpo della Guardia di Finanza. All’arrivo del pullman (ero con la mia sezione Anfi di Pisa e quella della Versilia storica) fummo accolti dal maresciallo capo Duilio Farneti di Forlì, che insieme a Quintino aveva frequentato a Roma il 19° corso allievi sottufficiali (8 luglio 1945/ febbraio 1946). Farneti fu una guida eccezionale. Dai 7 a 13 anni aveva vissuto accanto al fratello, don Silvio, nel periodo in cui questi era stato parroco di Balze, località famosa perché su un'altura chiamata il “Sasso dell’apparizione” il 27 aprile 1404 due pastorelle infelici videro la Madonna; secondo la tradizione la madre di Cristo ad una delle ragazzine restituì la voce e l’udito, all’altra la vista. Il popolo di Balze volle scolpire su una lastra di marmo il ricordo di questo evento, facendola murare nel luogo esatto dove sarebbe avvenuto il miracolo.

Quintino Sicuro, quinto di cinque figli, nasce a Melissano (Lecce) il 9 maggio 1920 da Maria Potenza e da Cosimo Sicuro. Da ragazzo esprime il desiderio di farsi frate, ma il superiore del convento di S. Simone non lo ammette perché non ha superato l’esame di ammissione alla terza classe della scuola media. Cambia scuola iscrivendosi all’Istituto tecnico industriale di Gallipoli, che porta a termine con successo. Nel 1939 frequenta il corso Allievi finanzieri e, dopo essere stato promosso finanziere, viene assegnato alla Brigata di Chiavenna (Sondrio). Durante la Seconda guerra mondiale viene mobilitato nel 1° battaglione a fianco della divisione Julia, del IV reggimento bersaglieri e di altri reparti delle camicie nere. Prende parte, nella squadra degli Arditi, ad alcune dure battaglie sul monte Tumori, contro un nemico forte, ben armato e combattivo. La gelida temperatura dei Balcani procura a molti soldati italiani il congelamento degli arti inferiori. Dopo un breve spostamento a Tre Bisti, sul fronte jugoslavo, ed ai movimenti successivi per raggiungere le città greche di Gianina e di Patrasso, il finanziere Sicuro viene assegnato alla brigata di Cefalonia. Riesce fortunosamente a sfuggire al massacro commesso dai tedeschi contro gli uomini della divisione Acqui, che si rifiutano di consegnare le armi dopo l’8 settembre 1943, impugnandole per scatenare una battaglia proprio contro le truppe germaniche che avevano loro imposto tale ordine. A causa della superiorità di uomini e mezzi, ed anche all’impiego di aerei Stukas, i tedeschi costringono i soldati italiani ad arrendersi. 

Quintino durante la guerra di liberazione è partigiano nelle squadre di azione Patriottica (SAP). Mai viene coinvolto in fatti di sangue. Dopo la nomina a sotto brigadiere viene decorato della Croce al merito di guerra. Nel mese di maggio 1946 è trasferito alla brigata di frontiera del Brennero e nel novembre 1947 viene assegnato al Nucleo p.t. di Trento. I componenti di tale reparto apprezzano il suo carattere di uomo buono e giusto. A Trento il sotto brigadiere Quintino Sicuro compilerà un verbale di accertamento nei confronti di un padre di famiglia, che non aveva il denaro per pagare il tributo evaso né la pena pecuniaria relativa. Sarà lo stesso Sicuro a versare all’Erario quanto dovuto dal pover uomo sanzionato, attingendo il denaro necessario dai suoi modesti risparmi.

Sentendosi ancora fortemente attratto dalla vocazione di servire Dio, a 27 anni si congeda dalla Guardia di finanza ed entra nel convento dei frati minori di Ascoli Piceno, nel quale rimane per due anni. Dopodichè raggiunge l’eremo di S. Francesco presso Montegallo, dove resta per 4 anni. Da lì si sposta verso il monte Fumaiolo intorno al quale c’è l’eremo di S. Alberico, che lui prende in custodia.

Ho avuto modo di conoscere diversi aneddoti della vita di don Quintino, sia grazie all’omelia pronunciata dal parroco di Balze durante la Santa Messa, sia dalla lettura del libro su Sicuro scritto dal Farneti. Avvertire su quel monte la presenza di Dio credo abbia fortificato non poco l’esistenza di don Quintino, che visse in estrema povertà elevando al Signore continue preghiere volte a glorificarne il nome. La nostra visita all’eremo di S. Alberico si concluse con la deposizione effettuata dal presidente della sezione Versilia storica, cav. uff. Renzo Maggi e da due finanzieri in congedo, di una corona di alloro sulla tomba dove riposano i resti di don Quintino. Tomba da lui scavata, quando era ancora in vita, sulla roccia arenaria esistente davanti alla chiesa.  Quel giorno fui particolarmente felice: insieme a me c’erano i cari amici Primo Giorgi e Guido Angelini, insieme ai quali frequentai a Roma il corso allievi finanzieri dal 15/7/1949 al 15/1/1950.

Nell’eremo don Quintino dormiva su una tavola di legno e con la testa poggiata su un sasso. Viveva della carità dei suoi fedeli, che avendolo conosciuto lo consideravano già un santo. Il maggiore ed unico desiderio che ebbe Quintino fu quello che tutti gli uomini della Terra potessero conoscere Dio e che gli dessero gloria, salvando così la loro anima. Sì, Quintino pensava di continuo all’anima degli uomini, la cui vita non si spegne con la morte ma continua a vivere in eterno, un premio solo per gli uomini buoni e giusti. La vita di don Quintino dedicata alla preghiera e alla predicazione del bene, colpì il cuore di tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo.

Un ragazzino che un giorno lo vide transitare davanti alle case ubicate in località Capanne, corse verso la sua casa urlando: “Mamma, mamma, ho visto passare Gesù!” La povertà, attraverso la quale Dio si presenta sulla Terra all’uomo che vive quotidianamente aiutato anche dalla divina provvidenza, suscita stupore ed ammirazione negli abitanti di Balze e dei dintorni, quando lo vedono camminare scalzo, coi piedi sanguinanti, sui sentieri difficili delle montagne piene di sassi sconnessi, per raggiungere l’eremo da lui scelto per sentirsi più vicino a Dio.

È l’arrivo all’eremo di tanti fedeli, che giungono da località lontane, che lo sprona ad iniziare i lavori di ristrutturazione di quell'immobile fatiscente, con porte e finestre rotte, così come gravemente danneggiato è anche il tetto. Anche il camino della cucina non tira più fuori il fumo prodotto alla legna che arde. Don Quintino a questo punto decide di ricostruire la chiesa e ristrutturare la sua abitazione, ubicata al piano superiore, in quanto le pareti dei locali, molto umide, sono ridotte in pessime condizioni. Infine ristruttura l’intero edificio innalzandolo anche di un piano. Quintino aiuta i muratori nei lavori più pesanti. Impasta il calcestruzzo che poi, con i secchi, porta sulle spalle ai muratori che lavorano sui ponti. Ai giovani che recano lassù per aiutarlo dice chiaramente, fin da subito, che non può offrire che un piatto di spaghetti. Paga invece i materiali necessari: mattoni, calce, cemento, sabbia e quant’altro serva per i lavori, con gli oboli che gli donano i fedeli. Anche se la maggior parte delle offerte vanno, come al solito, ai più poveri. In quella località, ricca di cento fontane, l’eremo di Sant’Alberico diventa un'oasi di spiritualità.

Nel luogo dove don Quintino visse da eremita è rimasta scolpita nella memoria la sua figura di asceta e penitente, sempre amorevolmente vicino ai giovani che si stringevano forte a lui quando salivano all’eremo per conoscerlo. Quintino confortò i malati e i più bisognosi e fu così che tutti quelli che lo conobbero gli vollero bene. Soffriva di disturbi cardiaci e morì la gelida mattina del 26 dicembre 1968, mentre stava per raggiungere e benedire un nuovo impianto di sciovia. L’autovettura sulla quale era salito andò in panne, a causa dell’alta neve che era caduta nella nottata. Sceso dal mezzo insieme agli altri occupanti, si mise a spingerla per parcheggiarla in un vicino spiazzo. Ad un certo punto cadde a terra, fulminato da un infarto.

Il 29 agosto 1991 nell’antica cattedrale di Sarsina (Forli-Cesena), si concluse positivamente il processo diocesano di beatificazione del servo di Dio don Quintino Sicuro. Tutto l’incartamento, sigillato col timbro vescovile, fu inviato alla Congregazione della causa dei santi del Vaticano. Alla luce di una vita interamente dedicata all’amore contrassegnato dalla croce, emblema di luce e speranza, mi piace pensare che un giorno le campane delle chiese potranno risuonare a festa per annunciare ai fedeli che don Quintino è salito agli onori degli altari.
Renato Sacchelli

* L'articolo è stato pubblicato sulla rivista Fiamme Gialle (Aprile 2017)

lunedì 29 maggio 2017

Giro d'Italia, quell'amore che non passa mai

Si è appena conclusa la 100^ edizione del Giro d'Italia, con la vittoria dell'olandese Tom Dumoulin davanti al colombiano Nairo Quintana e al nostro grandissimo Vincenzo Nibali. E' stata proprio una bella ed entusiasmante corsa quella scattata ad Alghero il 4 maggio e conclusasi il 28 maggio a Milano.

Nei miei ricordi riaffiorano le gesta di moltissimi campioni. Il primo giro che vidi passare davanti ai miei occhi fu quello disputato nell'immediato dopoguerra. Eravamo nel 1946 e l'Italia era ancora piena di macerie. Attesi il passaggio dei corridori nella parte finale della prima tappa Genova-Montecatini. Li vedi salire il Monte Quiesa, vicino al valico per Lucca, a poca distanza dalla curva dove c’è una edicola con una madonnina scolpita in marmo. In quel periodo la mia famiglia abitava a Compignano, nella zona più alta del Monte Quiesa, in una casa di proprietà del commendatore Giovanni Luisini. Proprio lì vicino era stato trucidato Amos Paoli, medaglia d'oro al valor militare, che avevo conosciuto quando frequentava la scuola elementare e tutti i giorni passava sotto le finestre ,con le crucce sotto le ascelle,  della casa in cui abitavo nel rione Ponticello. Eravamo miracolosamente scampati ai tragici eventi dell'estate del 1944, prima con lo sfollamento sul Monte Pelliccino, poi a Giustagnana e infine a Capezzano Pianore, dove rimanemmo fino allo sfondamento del fronte (linea Gotica).

Finita la guerra mio padre fu riassunto al lavoro dall’ingegner Cerpelli, per recuperare materiali e macchinari della sua officina, ubicata alla Centrale, accanto al deposito della tranvia dell’Alta Versilia fatto saltare in aria come molti altri edifici. Mio padre accettò l’offerta dell'ingegnere di occupare una grossa stanza adibita a deposito, situata al piano terra, con annesso capannone con il tetto sfondato dalle cannonate tedesche, ubicato a Pietrasanta in via dei Piastroni, motivo per cui la mia mamma doveva cuocere il cibo su un fornello traballante, alimentato dal fuoco degli stecchi che raccoglieva qua e là, tenendo l’ombrello aperto quando pioveva. Terminato il recupero dei beni mobili rimasti per sette mesi sotto le macerie, mio padre ebbe il problema di trovare una nuova sistemazione, e quindi un giorno si recò a Compignano per parlare con suo fratello Pietro, che era sfollato lassù e lì era rimasto, con la sua famiglia.   avendo ottenuto dal fattore di occuparsi, a mezzadria, di un oliveto e di una grossa vigna.

Quando fu di ritorno non ci disse subito che aveva deciso di subentrare al fratello nella conduzione del podere da lui coltivato, visto che questi intendeva tornare al Pelliccino per far ricostruire la casa distrutta dalla cannonate degli americani. Si capì che aveva preso questa decisione non potendo continuare a sopportare la difficile vita che tutta la nostra famiglia conduceva.

Dallo sfollamento iniziato l'11 luglio 1944 si viveva come randagi: in casa non avemmo la forza di dire niente in contrario alla decisione di nostro padre. Neppure io dissi nulla, che avevo ripreso a frequentare l’avviamento professionale al lavoro  di Seravezza, riaperto prima della fine dell’anno scolastico 1944/1945. Così dovetti interrompere gli studi senza poter ottenere il diploma, anche se successivamente seppi di essere stato ammesso a sostenere gli esami finali.

Appena la casa sul Pelliccino fu ricostruita tornammo a Seravezza, stabilendoci in località Uccelliera  nella casa di proprietà del nuovo datore di lavoro che gestiva una cava sul monte Costa dove lavorò per un po di tempo il mio genitore, Nella casa dell'Uccelliera avevamo anche la conduzione a mezzadria  del piccolo oliveto e di due vignette il tutto concesso a mezzadria a mio padre, dal suo  datore di lavoro. Al centro dell'oliveto avevamo anche una piccola stalla per il ricovero di alcune pecore.

Ma torniamo al Giro d'Italia. Quella volta che, con grande emozione, per la prima volta lo vidi passare il primo a scattare sui pedali fu Adolfo Leoni, seguito a ruota da un collega di cui non ricordo il nome. La tappa, che terminò a Montecatini Terme, fu vinta proprio da Leoni.

L'anno seguente (o forse due) da Querceta vidi passare un altro Giro di Italia. Restando sempre un grande appassionato della bici, negli anni successivi ho sempre seguito con interesse e curiosità le notizie riguardanti la bella corsa rosa, compresa la centesima edizione appena conclusa.

Ho sempre vivo nel cuore il ricordo dei grandi Giri conquistati da campioni del calibro di Gino Bartali e Fausto Coppi, Ma i nomi che mi fa piacere ricordare sono davvero tanti. Molti non li ho mai visti dal vivo, ma ho letto le loro gesta sui giornali oppure ho sentito le cronache alla radio o, più tardi, in tv. Così, i loro nomi, si sono sedimentati nella mia memoria e, certamente, anche in quella di milioni di persone che, come me, amano le corse in bici. Ne cito solo alcuni, in ordine sparso: Alfredo Binda, Learco Guerra, Fiorenzo Magni, Felice Gimondi, Gastone Nencini e l'indimenticato Marco Pantani. Molti di loro dominarono non solo al Giro ma anche al Tour de France, riempiendoci di gioia.

Le imprese in bicicletta mi hanno sempre emozionato e reso felice. Mi sento di ringraziare tutti questi grandi campioni con affetto, perché mi hanno regalato tante bellissime e indimenticabili sensazioni, come solo lo sport sa fare.

Mio nipote Tommaso Fiaschi ama correre in bicicletta da quando era molto piccolo. Fa parte di una importante squadra Under23. Credo nelle sue capacità e voglio pensare che possa riuscire a infiammare il mio cuore con le sue prossime e travolgenti vittorie come riusci a fare alcuni anni fa quando vinse con una formidabile volata il trofeo Buffoni a Torano di Massa. Forza Tommaso! Il tuo nonno Renato.

venerdì 28 aprile 2017

Il Comune Unico della Versilia

Dal sito versilia.org
"La costituzione del Comune Unico della Versilia è un obiettivo a cui si deve arrivare per migliorare la situazione dell'intero territorio e dei suoi abitanti, tenendo conto del quadro economico e sociale sempre più complesso, con continui tagli alla spesa pubblica e sacrifici richiesti ai cittadini, a cui purtroppo non corrispondono adeguati servizi. Torno a parlare di questa proposta, propugnata anche da Pietro Marchi quando fu sindaco di Seravezza (dal 1911 al 1919 e dal 1944 al 1946), perché la ritengo ancora oggi di estrema attualità. Quello che segue è un mio articolo pubblicato su "Versilia Oggi" nell'ottobre 2003. 

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"Con i suoi articoli ”Versilia senza respiro” e “Non fate finta di sognare”, pubblicati su Versilia Oggi nei mesi di marzo e di agosto, Paolo Macchia  mise a nudo la situazione del territorio versiliese,  che aveva già evidenziato nel libro “La Versilia Storica - aspetti geografici di un piccolo sistema territoriale", pubblicato nel 1977 a cura della Banca di Credito Cooperativo della Versilia, in accoglimento della proposta avanzata dal professor Milvio Capovani. Condivisi la sua analisi a 360 gradi. Anch'io, anni addietro, accennai su Versilia Oggi alla conurbazione che interessava il nostro territorio, cioè a quel processo di formazione di una grande città dovuto al collegamento di piccoli centri urbani intorno al nucleo maggiore. Questa convinzione l’ebbi quando con mio figlio salii nel 1988 in cima al monte Canala per arrivare a Cerreta S.Nicola, ai piedi del Folgorito, Dal paesaggio che vidi dalla criniera del monte di Ripa, notando le differenze dai primi anni Quaranta, mi resi conto che si stava completando l’intera urbanizzazione della pianura versiliese. 

Nello stesso articolo parlai della difesa del territorio minacciato dalle calamità naturali, dell’inquinamento, dell’approvvigionamento idrico e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani , tutte problematiche che andavano affrontate e risolte sulla base di un piano unico riguardante l’intero territorio versiliese. Diedi risalto all’idea che uomini liberi, disinteressati e colti, appartenenti al movimento dell’Unione Versiliese, ebbero nel progettare il Comune Unico della Versilia, che poteva avere a disposizione più risorse finanziarie e un maggiore peso a fini elettorali. Purtroppo questo progetto naufragò ancora prima di nascere, a mio parere per interessi partitici e di campanilismo. Naufragò soprattutto perché gli elettori versiliesi non seppero cogliere l’importanza di questa nuova formazione politica, l’unica che avrebbe potuto garantire traguardi unitari. Non si vollero eliminare le poltroncine locali, si preferì andare avanti alla peggio. E pensare che nel 1776 l’illuminato granduca Pietro Leopoldo, resosi già allora conto della situazione, pose fine alla frammentazione della Versilia in tanti comunelli, accorpando il territorio in sole tre comunità.

In un libro che gli è costato una fatica durata due anni, a mio parere una pietra miliare della storia del nostro territorio, Paolo Macchia afferma che "per realizzare con successo qualunque forma di riorganizzazione del territorio dell’intero sistema è necessario intervenire in modo organico e completo su tutta l’area, con un unico progetto che abbia finalità chiare e non consideri le parti del sistema sia spaziali che aspaziali, come indipendenti e svincolate le une dalle altre". 

Anche se non siamo arrivati all’ultimo respiro, come ha scritto nel suo articolo Roberto Ippolito,  chi scrive è convinto che se le cose continueranno ad andare avanti di questo passo, l’uomo non potrà più disporre in Versilia di altri spazi di territorio da destinare all’ulteriore sviluppo industriale e artigianale, in quanto già interamente occupato da agglomerati urbani, e da preesistenti   opifici.  Per arrivare al Comune Unico, importante anche per disciplinare la situazione antropica dell’intera Versilia e per evitare possibili diseconomie, c’è bisogno davvero di operare una svolta decisiva.
Renato Sacchelli

sabato 8 aprile 2017

Il Progetto Mare Monti

Il 5.2.1987, periodo in cui collaboravo assiduamente con "Versilia Oggi", mensile diretto da Giorgio Giannelli, fu pubblicato un mio articolo intitolato "ll progetto mare–monti". Non feci alcun cenno ad un sogno a cui avevano lavorato agli inizi del Novecento due uomini geniali quanto intraprendenti: Alemanno Barsi e suo figlio Daniele che tentarono di realizzare una linea di risalita dal mare fino ai loro due alberghi, costruiti sugli arditi rilievi apuani, nella zona alta del Matanna, da Grotta dell’Onda alla Foce. L'impianto di risalita era basato su un pallone aerostatico frenato, tenuto ancorato al suolo con grosse catene metalliche (qui trovate un interessante articolo che parla di questa incredibile storia).

Quando scrissi quell’articolo non spiegai perché il pallone frenato fu chiamato "Rosetta" che era la moglie di Daniele Barsi e  non  accennai neppure al suo primo volo de(l’aerostato di Casoli,  che aveva fatto il 28 agosto del 1910, mandando in visibilio i pochi fortunati  che avevano potuto ammirare dall’alto la bellezza dei luoghi appena sorvolati.
Nel mio articolo parlai della storia dell'estrazione dai nostri monti  del marmo  e della sua lavorazione che mutarono, nei secoli passati le condizioni di vita  della gente della Versilia del fiume fino allora dedita all'esercizio della pastorizia  ed all' agricoltura, quest'ultima praticata  su piccoli terreni della montagna al fine di disporre  di una più vasta  estensione di terreno da coltivare per aumentare i raccolti e fare così fronte ai bisogni  dei nuclei familiari arroccati sui monti.  In buona sostanza parlai soprattutto del duro lavoro della terra svolto dai versiliesi nei secoli passati, e che avevano ricamata coi sassi, di cui sono ancora oggi  visibili le tracce negli oliveti e castagneti della nostra amata terra.

Raccontai una storia scritta con il sudore e il sangue, quest'ultimo versato dai tantissimi cavatori morti sulle cave. Mi soffermai anche su un episodio che piacque anche al mio babbo, perché lo riguardava in prima persona. Nel 1928, poco più che ventenne, lavorava nella cava del Palazzolo, situata vicino al passo del Vestito, di proprietà dei fratelli Pellizzari industriali del marmo di Seravezza. Mentre insieme ad altri colleghi,  per raggiungere il posto di lavoro percorreva un sentiero ricoperto dalla neve, scivolando precipitò nel baratro sottostante. Fece un volo di oltre centro metri. Cadde su un mucchio di neve e fortunatamente se la cavò solo con l’incrinatura di alcuni anelli della spina dorsale, che lo costrinse a rimanere sei mesi disteso su una lastra di marmo dell’ospedale di Massa. Amo pensare che se uscì vivo da questa terribile caduta fu grazie agli angeli protettori dei cavatori.

Ecco come concludevo l’articolo scritto nel 1987:  "Sono convinto la bellezza dei nostri monti potrà sempre richiamare in Versilia una più larga massa di turisti e villeggianti solo se saremo capaci di costruire sulle cime più suggestive terrazze raggiungibili con le funivia. In tal modo il sogno: ”Versilia- mare monti “ sarebbe finalmente una realtà". 

L’idea di rifare un nuovo "pallone frenato" non avrebbe senso, per due ragioni: in primo luogo perché la tecnologia ha fatto passi avanti notevoli, e riproporre un sistema di quel genere sarebbe anacronistico. Inoltre perché il maltempo, oggi come allora, potrebbe cancellare, in pochi attimi, tutta la struttura. Al di là del "pallone", però, restava e resta ancora oggi più che mai valida la lucida lungimiranza di quel progetto: sviluppare il turismo della nostra terra utilizzando ciò che di bello e incredibile la natura ci offre, la vicinanza tra il mare e le nostre bellissime e per certi versi uniche montagne. Viverle appieno e farle vivere ai turisti, salvaguardando la natura, creando sviluppo e posti di lavoro per la nostra gente. Politici e imprenditori della Versilia, pensateci!

Renato Sacchelli

giovedì 23 marzo 2017

Quei migranti italiani morti prima di raggiungere l’America

Dovevo leggere il libro di Gian Antonio Stella, intitolato “Odissee-Italiani sulla rotta del sogno e del dolore”, per rendermi pienamente conto delle tragedie vissute dai nostri migranti nel tardo Ottocento  e all'inizio del Novecento. Emigravano in massa in America, dove speravano di migliorare  le proprie condizioni di vita, lasciando alle spalle fame, miseria e malattie. Nel loro Paese spesso vivevano in condizioni davvero disperate. Molti si nutrivano solo di polenta, motivo per cui si ammalavano  di “pellagra”, dovuta alla mancanza in questo cibo della vitamina PP.

Da un'indagini parlamentare condotta da Stefano Jacini per anni ministro dei Lavori pubblici, pubblicata nel l880, emerge che le condizioni di vita di centinaia di migliaia di contadini italiani erano disperate. In maggioranza abitavano coi loro cari in uno stanzone lezzo, puzzolente umido e fatiscente, dove mangiavano e dormivano coi loro familiari su mucchi di paglia, vicini ai propri animali, mucche, capre, maiali e pollame, considerati spesso più preziosi di un figlio. E lì davanti ai figli e nipoti e fanciulli. gli adulti compivano  le “funzioni  animali della generazione”. Non mancavano atti ripugnanti di incesto e pederastia.

Il letame veniva lasciato in un angolo della stanza, oppure ammucchiato sulla via davanti alla porta di ingresso, Le strade dei paesi erano piene di sudiciume, in quanto non esisteva alcun servizio di nettezza urbana. Che facevano i governi per migliorare le condizioni di vita di queste persone? Poco o nulla! Il governo Crispi pensò alle avventure africane in terre poverissime, dove furono inviati contingenti militari per combattere contro l'Abissinia  I nostri soldati, però, furono sconfitti nelle battaglie sull’Amba Alagi nel 1895, a Macallè e ad Adua nel 1896.


Molti emigranti italiani morirono a bordo dei piroscafi, vere e proprie "carrette del mare" sulle quali si imbarcavano coi loro cari per raggiungere il nuovo mondo. Perdevano la vita a causa delle malattie scoppiate durante la navigazione (vaiolo, colera, tifo ecc.). Sulla nave italiana Carlo R., partita il 29.7.1894 da Genova e fermatasi con uno scalo a Napoli, scoppiò il primo caso di colera.
Oltrepassate le Azzorre ogni giorno contraeva questa terribile malattia almeno una ventina di emigranti. Per loro il mare fu la tomba. Arrivata a Rio de Janeiro le autorità portuali imposero alla nave italiana il divieto assoluto di approdo, ordinando anche alle unità da guerra di sparare colpi di cannone senza l’intenzione di colpirlo. Il Carlo R. fu costretto a fare ritorno in Italia. Arrivò all’Asinara il 27.9.1894. I morti di colera, durante questo viaggio di andata e ritorno di 368 giorni, furono 141, altre 70 persone morirono a causa di altre malattie.

Non fu la sola nave ad invertire la rotta. Anche al piroscafo Remo, salpato da Genova il 15.8.1893 con a bordo 900 emigranti ed altri 700 caricati a Napoli, fu imposto dal governo brasiliano l’ordine di allontanarsi dal molo dell’isola Grande, dove aveva attraccato con la bandiera gialla issata sul pennone e di  riprendere la navigazione e fare ritorno in Italia. Per impedire  il ritorno al molo  della nave  "Remo"  che  si era momentaneamente staccata dal molo per gettare al largo la prima vittima del colera  si trovò davanti una corazzata brasiliana che gli impedì  la manovra. Così la nave fu costretta a ritornare in Italia. Dopo 65 giorni approdò a Napoli e tutte le persone a bordo furono messe in quarantena. Novantasei persone morirono per il colera.

Moltissimi emigranti persero la vita a seguito dei naufragi delle navi su cui viaggiavano, avvenuti nella baia di Gibilterra e sulle scogliere di capo Falos, promontorio orientale  della Spagna.

Un numero considerevole di emigranti non riuscì maiad arrivare nell’Eldorado americano, in quella terra tanto attesa e lontana. Molti uomini senza scrupoli, "venditori di sogni", trassero ingenti guadagni dagli inganni volti a favorire l'immigrazione di massa in America: la descrivevano come una terra ricchissima, piena di ogni ben di Dio, con frutta e verdura di dimensioni enormi, in grado di sfamare tutti. In realtà, invece, anche nel Nuovo Mondo la vita non era facile. Pure tra gli armatori delle navi impiegate per trasportare gli emigranti c'erano uomini senza scrupoli, che vergognosamente lesinavano persino sull’acquisto delle vettovaglie necessarie a sfamare i passeggeri dei piroscafi.

Convinti da una falsa e martellante propaganda a partire in cerca di fortuna, senza farsi troppi problemi, masse di contadini analfabeti vendettero tutto ciò che possedevano per imbarcarsi sulle navi e raggiungere la terra promessa, spesso con famiglia al seguito. Anche molti versiliesi affrontarono il lungo viaggio verso il Nuovo Mondo rinchiusi  nelle stive delle navi,  dove non avevano il minimo spazio per muoversi né l’aria sufficiente per respirare. Stavano sdraiati, ammucchiati l’uno accanto all’altro, tra un tanfo insopportabile.

Anche i miei nonni paterni, con otto cugini, e il nonno materno emigrarono in America verso la fine dell’Ottocento. Voglio pensare che abbiamo affrontato un viaggio sopportabile e non come uno di quelli sopra descritti.

I neonati venuti alla luce durante  la navigazione si attaccavano  inutilmente al seno delle madri divenuto arido a causa dello scarsissimo cibo con cui si alimentavano le donne. Morirono così tanti piccini, i cui corpi  furono gettati in mare, tra  le urla di disperazione delle loro mamme affrante dal dolore. Un gruppo di trecento contadini trevigiani, ingannati da un marchese francese, anziché approdare in luoghi ubertosi furono sbarcati su una terra rocciosa, aspra, assolutamente non coltivabile, situata al confine di una giungla. Molti persero la vita in seguito alla grande fame patita; alla fine solo pochi superstiti riuscirono a raggiungere l’Australia.

mercoledì 22 febbraio 2017

La gloriosa storia degli Alpini

L’esercito italiano fu riorganizzato dopo il successo prussiano nella guerra combattuta e vinta contro la Francia negli anni 1870- 71. Fu con il Regio  decreto 15.10.1872, voluto  dal generale e ministro della guerra Cesare Francesco Ricotti  Magnani, che le nostre forze armate furono strutturate ispirandosi al modello  prussiano, fondato sull’obbligo di breve durata,  per sottoporre all’addestramento militare  tutti gli iscritti alle liste  di leva fisicamente idonei, e all’abolizione della surrogazione (chi ne aveva i mezzi, ricevuta la chiamata alle armi, poteva pagare un altro perché prendesse  il suo posto) in modo tale da trasformare l’esercito italiano in una numerica espressione delle capacità umane della nostra nazione.

Dal fervore operativo scaturito dalla riforma “Ricotti” si ebbero i nuovi  piani di difesa dei valichi alpini, ritenuti fino a quel momento impossibili da realizzare (e sostanzialmente inutili), tenuto conto dell’antico pensiero ormai consolidato nei secoli, secondo il quale gli eventuali eserciti invasori sarebbero stati ostacolati dalle montagne e definitivamente  fermati nella pianura Padana. Ma se fosse rimasta inalterata questa tattica. Si sarebbero ulteriormente e completamente sguarniti tutti i passi alpini dal Sempione allo Stelvio e tutto il Friuli, con le inevitabili conseguenze. L’idea di un’azione difensiva solo nel territorio padano fu quindi abbandonata, in quanto fu chiaro che difenderci sulle montagne rimaneva la sola via da percorrere per resistere contro un eventuale attacco militare portato dall’impero Austro-Ungarico.

Per arrivare a questa rivoluzione strategica furono indispensabili gli studi di Giuseppe Domenico Perrucchetti, ex insegnante di geografia che con il grado di maggiore di fanteria  fu destinato  allo stato maggiore. Nella battaglia di Custoza fu insignito della medaglia di argento al valor militare. Il 26 aprile 1891 viene nominato aiutante di campo onorario di  S.A.S. il duca di Aosta e successivamente  divenne capo di stato maggiore del VII reggimento.  Congedato a 65 anni per raggiunti limiti di età, con motu proprio fu nominato dal re senatore del Regno d’Italia. Il suo progetto fu inserito nella riforma “Ricotti”, tant’è  che lo sbarramento della zona alpina fu affidato agli uomini nati sulle montagne, i cui punti di forza, come aveva pensato Perrucchetti, erano evidenti,  in quanto  oltre ad essere abituati ai rigori dell’inverno, conoscevano meglio le zone in cui operare.

Perrucchetti era nato nel 1839 a Cassano d’Adda (MI). Non in montagna, dunque, e mai divenne un alpino, ma fu soltanto un attento e scrupoloso studioso al quale fu riconosciuto il merito di aver fondato il Corpo degli Alpini (1872). Ad appena 20 anni fugge dalla sua terra per arruolarsi nell’esercito piemontese.  Conosceva molto bene i confini dello stato in cui era fuggito, avendo effettuato ricognizioni sullo Spluga, sulle alpi Carniche e Retiche. Nella sua memoria c’erano anche le gesta delle milizie montanare ai tempi dell’imperatore Augusto dove sulle Alpi furono fermati gli invasori barbarici. Perrucchetti ebbe modo di conoscere anche   l’organizzazione militare creata dal re Vittorio Emanuele con tutte le evoluzioni avvenute in quel tempo. Entrata in vigore la riforma “Ricotti” furono costituite 15 compagnie che aumentarono a 36, ripartite in dieci battaglioni nel 1876.Nel 1882 furono costituiti i primi 7 reggimenti,  con i quali nel 1887 furono formati 22 battaglioni. Il privilegio di essere il primo reparto di alpini lo ebbe la classe 1852, che fu chiamata “classe di ferro”. Il “battessimo del sangue” avvenne nella battaglia di Adua (Abissinia), nel marzo 1896, cui gli alpini presero parte con quattro compagnie.

Fu ad Adua che il capitano Pietro Cella, del 6° reggimento degli alpini, fu insignito della prima medaglia d’oro al valor militare, mori mentre stava  sparando gli ultimi colpi, insieme ad  altri quattro valorosi ufficiali, anch’essi insigniti della medaglia d’oro al valor militare. Nel 1909 il Corpo degli alpini era formato da 88 battaglioni riuniti in 20 Gruppi, 9 raggruppamenti e 4 divisioni. Terminato il primo conflitto mondiale rimasero in vita 8 raggruppamenti, ai quali si unì il 9° gruppo costituito nel 1919. Altre tre volte gli alpini combatterono in Africa, in Libia nel 1911, nella guerra per la conquista dell’Abissinia  (1935- 36 ) e contro le forze alleate nel 1941. Dopo la conquista della Libia le truppe alpine svolsero con l’impiego di 5 battaglioni servizi di vigilanza a Derna, Assaba sull’altopiano del Maghreb.

Sempre dopo la conquista della Libia un raggruppamento di alpini fu lasciato nella colonia per presidiare la Tripolitania, da dove furono ritirati prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Nel corso del primo conflitto mondiale gli alpini combatterono aspre battaglie per difendere i confini italiani anche per strappare pochi metri del territorio sul quale si erano trincerate le forze nemiche. Furono gli alpini che riuscirono a fermare. dopo la disfatta di Caporetto, sul Montello, sul Grappa e sul Piave l’avanzata degli Austro Ungarici, andando all’assalto all’arma bianca e lasciando sul terreno un’infinita schiera di eroi, uccisi e ridotti a brandelli sanguinanti sui fili spinati. Gli alpini che morirono combattendo furono 24.896, i feriti 76.670, e i dispersi 18.305. Ho trovato molto  bello e commovente il seguente giudizio sugli alpini espresso dal famoso scrittore inglese Rudyard Kipling, il cui unico figlio, John, fu ucciso nella battaglia di Loos,  sul fronte francese:  “Alpini, forse la più fiera la più tenace specialità impegnate su ogni fronte di guerra, combattono con pena e fatica tra le grandi dolomiti fra i boschi un mondo splendente di sole e di neve,, di notte un gelo di stelle nelle loro solitarie posizioni contro un nemico che sta sopra di loro più ricco di artiglieria, le loro imprese sono frutti solitari di coraggio e di gesti individuali grandi bevitori, di lingua  svelta e di mano tesa, orgogliosi di  sé del loro corpo, vivono rozzamente,  muoiono eroicamente”.

Anche nei miei ricordi di bambino, nato nel 1930 vi sono gli alpini. Sono cresciuto cantando spesso la loro canzone, coi miei coetanei del rione Ponticello, interamente fatto saltare in aria dai tedeschi nel 1944, avvalendosi degli  operai della Todt incaricati di fortificare la parte terminale della Linea Gotica che arrivava  a toccare le acque del Tirreno. Tale canzone esaltava la vita degli alpini che terminava così. "Viva, viva, il reggimento, viva, viva, il Corpo degli alpini:". Potevo cantarla con orgogliosa fierezza essendo stato mio padre, Orlando, (della classe 1906) e come lui anche gli altri tre suoi fratelli, Pietro (classe 1908), Lorenzo (classe 1914)  e Guido (classe 1919),  quest'ultimo dichiarato disperso in Russia mentre era in forza alla divisione Cuneense, reparto someggiata - munizioni e viveri -,  senza avere potuto vedere nascere il suo bambino. Con molto piacere ricordo di aver prestato servizio per oltre 42 anni nel glorioso Corpo della Guardia  di finanza i cui militari parteciparono con 19 battaglioni mobilitati sia alla prima che alla seconda guerra mondiale.

Alla seconda guerra mondiale gli alpini parteciparono con 88 battaglioni mobilitati e con 66 gruppi   di artiglieria, schierando complessivamente 240.000 uomini.  Per conoscere ancora di più le sofferenze  patite dagli alpini e dai propri familiari, che non  videro più  i loro cari ritornare a casa,  penso che sarebbe utile leggere  il libro di Giuseppe Vezzoni, "Mai più dal Don a Sant' Anna di Stazzema", ricco di commoventi testimonianze.  Coloro che riuscirono a tornare a casa dalla Russia dopo lo sfondamento del fronte, lo debbono anche all’arrivo a Nikolajewka dei battaglioni italiani in ritirata, “Vestone”,  “Verona”, “Val Chiese” e dei resti di quelli del “Tirano”, “Edolo” e “Valcamonica”, che si unirono agli uomini della Tridentina (l’unica divisione ancora in grado di combattere), spronati dal grido “Tridentina, avanti!”,  uscito con un forte dolore dalla bocca del generale Riverberi. Fu questa eroica battaglia, combattuta dagli alpini con coraggio, che costrinse alla fuga i soldati russi.
Gli alpini versiliesi reduci della seconda guerra mondiale, vollero onorare la memoria dei loro colleghi, che non fecero più ritorno a casa,costruendo, con le loro mani, un tempio votivo in località Ponte Stazzemese realizzato dal progetto dell'architetto  Tito Salvatori che fu tenente degli alpini della divisione Tridentina   che combatte sul fronte greco  durante il secondo conflitto mondiale e nel 1952 fu nominato tenente colonnello del genio militare degli alpini.

A Nikolaiewka la neve si tinse di rosso del sangue dei nostri a alpini ed è per questo che il più volte citato villaggio russo è ricordato come la tomba delle nostre valorose penne mozze. Con la vittoria degli alpini avvenuta a Nikolayewka fu aperta la via per consentire a 13.400 alpini di uscire dalla sacca. Purtroppo si contarono 7.500 alpini tra i feriti e congelati. Circa 40-000 alpini rimasero indietro, tanti morirono sulla neve. Altri furono dichiarati dispersi  oppure catturati e imprigionati.

 Renato Sacchelli 

Le decorazioni agli Alpini (tratte dal sito internet esercito.difesa.it)

Attualmente i reggimenti degli Alpini sono otto e le loro bandiere sono decorate di 9 Croci di Cavaliere dell'Ordine Militare d'Italia, 10 Medaglie d'Oro, 30 Medaglie d'Argento, 8 Medaglie di Bronzo ed 1 Croce di Guerra al Valor Militare, di 3 Medaglie di Bronzo al Valore dell'Esercito, 1 Medaglia d'Oro, 1 d'Argento e 1 di Bronzo al Valor Civile e 1 Croce d'Oro e 1 Croce d'Argento al Merito dell'Esercito, 6 Medaglie d'Argento di Benemerenza, 4 Medaglie di Bronzo al Merito della Croce Rossa Italiana.

domenica 29 gennaio 2017

Auguri a Versilia Oggi

Sono sempre stato molto attaccato a Versilia Oggi, che quest'anno festeggia 50 anni. Iniziai a scrivervi nel 1982, perché mi ricordava le radici della mia terra nativa. Un sentimento che sentivo forte, anche perché per decenni avevo vissuto lontano da essa, in giro per l'Italia, avendo
prestato servizio per molti anni,  nel mitico Corpo qual è la Guardia finanza.

Ho sempre sostenuto il lavoro del direttore Giorgio Giannelli, nelle sue numerose battaglie, sperando che il nostro giornale potesse diventare sempre più letto e importante (sognavo anche una sede con una grande scritta luminosa sul tetto, come i grandi quotidiani nazionali). Se l'Aquilone (così Giannelli amava chiamare il suo giornale) viene ancora oggi ricordato e apprezzato lo si deve sicuramente alle capacità del suo fondatore, e alla bravura e all'impegno dei tanti collaboratori che nel corso degli anni hanno scritto pagine davvero molto importanti. Sarebbe bello, anche se difficile, poterli ricordare tutti, uno ad uno.

Fu grande la gioia che provai quando vidi scorrere, nei nostri fiumi, l'acqua non più col colore  del latte,cui si arrivò dopo una lunga battaglia intrapresa anche da Versilia Oggi per far cessare lo scarico dei residui della segatura dei blocchi di marmo nel fiume, forte fu anche la difesa dell'ospedale per evitare di trasferirlo altrove con gravi disagi per la popolazione del posto. Tutto fu vano nonostante un plebiscito popolare di cui le autorita regionali non ne tennero conto. Versilia Oggi svolse anche
una forte propaganda a favore della costituzione del Comune Unico pensato da uomini illustri che avevano fondato  l-Unione Versiliese.
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In un articolo del 1985 denunciai il pessimo stato in cui era tenuto il cimitero di Seravezza, in modo particolare ero rimasto colpito dal fatto che non vi fosse un bagno pubblico in funzione. Qualche anno dopo raccontai la disavventura di una ragazza,residente a La Spezia in visita coi suoi familiari  al nostro camposanto alla disperata ricerca di un bagno, che ancora non c'era. La poveretta fu costretta a fare i suoi bisogni nel vicino bosco. Ricordo anche che parlai dei grandi sacchi neri per l'immondizia all'interno dei quali vidi racchiuse le ossa dei defunti, dissepolti dalle loro tombe. Quei poveri resti erano lasciati in una stanzetta adibita alle eventuali autopsie, aperta, senza alcun rispetto, alla mercè di tutti. Nel mio piccolo, credo di aver aiutato anch'io l'Aquilone a volare, cercando di scrivere cose che scaturivano dal mio cuore, a difesa degli interessi della nostra terra. Viva La Versilia! Di ieri, di oggi e di domani. 

Renato Sacchelli