mercoledì 13 marzo 2024

L'attualità di Francesco Viti, il poeta-cavatore di Seravezza

 

Dopo aver ricordato l’onorevole Leonetto Amadei, l’avvocato che plasmò la Costituzione, mi fa piacere soffermarmi su un altro grande seravezzino del passato, Francesco Viti, poeta-cavatore. Nei suoi scritti ci ha lasciato importanti testimonianze che riguardano le difficili condizioni di chi viveva sui monti intorno a Seravezza all'inizio del 1900. Come il padre Francesco Viti lavorò sulla cava fin da ragazzo. Nella poesia “Il Cavatore” (1902) scrisse: “Con il latte succhiai, cosa non lieta / la polvere dei marmi e cavatore divenni invece di venir poeta”.

Viti denuncia la durezza del mestiere, che pure svolgeva con impegno e dedizione fino a diventare un esperto capo cava. “Improba troppo e faticosa è l'arte dei cavator / che con disagio e pena/ di sua vita ogni fibra ed ogni parte / risente il peso di si ria catena”. Senza dimenticare il dramma che scaturiva dalle frequenti disgrazie che anche in quel tempo si verificavano. “Ed ahi sventura ed ahi crudel dolore / purtroppo spesso avviene che all'improvviso / un masso cade, lo colpisce e muore”. Nella poesia intitolata “I lamenti del popolo della frazione Cappella”, scritta nel 1905, appare l’incredibile arretratezza delle condizioni in cui viveva la comunità montana, sprovvista dei più elementari servizi di utilità generale. Dopo più 120 anni alcuni temi sono ancora attuali.

Viti scriveva che era giusto pagare le tasse, “anche se siano per noi si gravi / che non hanno più confronto / con quelle dei nostri avi”. Desiderava però, e con piena ragione, che il denaro pubblico fosse speso bene, come lo sarebbe stato se le istituzioni l’avessero destinato alla realizzazione di opere atte a migliorare la vita di tanta gente costretta ad abitare in luoghi isolati e impervi e “privi di levatrice e di medico / e abbiam solo la luna per lampione / e mancaci una scuola / siamo tremila e certo / a chi non sa gli è strana / il medico non vedesi / un dì per settimana”.

E ancora: “Sappiam di certe donne / che giunte a mal partito / avevan per levatrice il povero marito. / E perciò di lagnarci abbiam nostre ragioni: nascer come agnelli morir come montoni”. Con questa semplice poesia, cruda ma vera, nei primi del Novecento Viti poneva sotto accusa le istituzioni che si disinteressavano completamente dei diritti e dei bisogni essenziali della comunità montana. È un documento storico molto importante che descrive, con minuzia di particolare, la difficile vita di tanti versiliesi di quell'epoca. 

In alcuni versi che da Filettole (Lucca) inviò alla moglie nel marzo del 1908, Viti descrive quella località della valle del Serchio dove, per un certo periodo di tempo, diresse una cava di marmo rosso, utilizzato per la costruzione del palazzo della Borsa di Genova. Dopo aver manifestato apprezzamento per gli abitanti del posto, ricchi di fede cristiana, ribadisce la sua fedeltà coniugale: “Se mi dovrò molto trattenere / sposa stai certa che ci porto il letto, un comportamento che da sempre accresce l'amore e mantiene unita una coppia”.

Curiosi i versi con i quali ordinò al titolare di una nota ditta milanese una mezza dozzina di bottiglie di un liquore, ancora oggi in commercio, che “bevo ogni giorno / ed ora son docile / come un agnello / dice mia moglie a questo e quello”. L’aveva provato la prima volta una sera a Seravezza, mentre si accingeva a fare ritorno a casa, consigliato dal droghiere Benti al quale aveva detto di avere dei disturbi allo stomaco. Sentitosi meglio, Viti pensò di scrivere alla ditta milanese per ordinare delle bottiglie, ricevendo gratis un'intera cassetta del liquore, che aveva proprietà digestive. Il dono lo indusse a scrivere un'altra poesia di ringraziamento: “Io quando ordino, lo tenga a mente / che non le voglio così per niente”. Assicurò, inoltre, sempre in quella circostanza, che il liquore l'avrebbe fatto bere anche ai suoi operai. “Essendo da molti anni capo cava / ancor non ho pensato ai miei operai / che faticano molto / È gente brava / ma bevon ponci e vino e spesso assai / per l'ubriachezza sono molto fiacchi / sì che il lavoro ne risente guai”.


In una poesia scritta nel 1912 al figlio Pasquale, in viaggio verso la Tripolitania - dove avrebbe partecipato alla guerra contro i Turchi - Viti dimostrò di avere un alto senso del dovere e della disciplina, esortando il suo ragazzo a non badare alla fatica, ad obbedire agli ordini dei superiori di qualsiasi grado.

È bello che questo linguaggio sia sgorgato dal cuore di un uomo impegnato in lavori durissimi sulla cava per 12 ore al giorno, dove in due settimane venivano “riquadrati circa 100 tonnellate di blocchi di marmo”, come scrisse in calce ad una poesia inviata ad un suo amico il 14 luglio 1908. Una fatica immane che tuttavia non gli impedì, nel tempo libero, di stringere la penna fra le dita della sua callosa mano, per scrivere quanto gli dettava la sua anima di poeta.

Nei suoi versi non si abbandonò alla contemplazione delle bellezze della natura coi fiori, i colori ed i paesaggi incantevoli bagnati dal mare, che in Versilia sono costantemente sotto gli occhi di tutti, ma si concentrò sugli aspetti della vita di tutti i giorni, le sofferenze e le fatiche delle persone umili e forti che, con i loro sacrifici, nobilitarono la nostra amata Versilia.


Filettole

Io sto bene. Filettole mi piace
per la sua posizione, per le persone.
Star lontano da te certo mi spiace.
Ma sai ben che ubbidir bramo il padrone,
lui comanda, ubbidisco, in questo caso
di non sbagliare son ben persuaso.
 
Siede il paese ai piè d’una collina
del Serchio a destra il quale vita prende
dei monti cui l’altissimo confina
e bello e calmo alla marina scende
contornato di borghi e di Villetti
e di fertil campi e di vigneti.
 
Gentili docili oneste le persone,
vivon tranquille, in questa valle amena
e di natura diligenti e buone e buona
l’aria che il bel Serchio mena.
Qui predomina molto per natura
più che l’industria la bella agricoltura.
 
Ed il secondo venerdì del mese
terzo dell’anno, vieni che qui ti aspetto
che in procession vedrai per il paese
Croce e Cristo portar con gran rispetto.
Si bestemmia ma in cor credi si vede
vive la Religion vive la Fede.
 
E benché per comizi e conferenze
e prediche di preti e pistolotti
vengan suggestionate le coscienze
degli ingenui assai più che non dei dotti
vive la pace ossia regna la quiete
benché molti, si sa, non sian col prete.
 
Qui è libero ciascun e il suo pensiero
esponer puote e la sua propria idea
favorevole o contro il ministero.
Di fede religiosa oppur atea
discute ogniun secondo sua opinione
e discutendo non si va in questione.
 
 
Francesco Viti  (1902)

Le nostre radici cristiane

 

Di recente in Francia c’è stata un’aspra polemica perché l’artista che ha disegnato il manifesto per le prossime Olimpiadi, Ugo Gattoni, ha eliminato la croce dalla cupola dell’Hotel des Invalides. Lui ha detto che non aveva alcun secondo fine ma per molti questo è solo l’ultimo esempio della rimozione delle nostre radici cristiane.

Nei lontani anni Trenta frequentavo la scuola elementare di Seravezza (Lucca), quando un giorno il maestro ci parlò delle Crociate. Qualche giorno dopo si soffermò sullo scontro navale del 7 ottobre 1571 nelle acque antistanti Lepanto, conclusosi con la vittoria dell’armata navale cristiana. Benché siano trascorsi tanti anni da quel giorno lontano della mia fanciullezza, ricordo ancora la commozione che mi pervase mentre ascoltavo il mio insegnante, con gli occhi che si inumidivano dalle lacrime. Nel mio cuore di bambino rimase impressa la figura di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, che insieme a Baldovino di Fiandra, Tancredi e Boemondo d’Altavilla, partecipò alla prima spedizione (1096-1099), invocata da Papa Urbano II durante il Concilio di Clermont, che si concluse con la conquista di Gerusalemme. Mi colpì che Goffredo di Buglione rifiutò la corona di re della Terrasanta, accettando per sé solo il titolo di “difensore del Santo Sepolcro”.

Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata descrisse Goffredo di Buglione come il prototipo dell’eroe cristiano. Ho sempre pensato che la fede cristiana possa condurre tutti gli uomini a vivere in un mondo migliore, più giusto e umano, senza frontiere e lotte di classe. In un mondo complesso come quello attuale necessariamente bisogna avere rispetto per tutte le religioni, anche se quella islamica appare per certi versi in antitesi rispetto al cristianesimo. Così come noi rispettiamo chi professa altre religioni, analogo riguardo deve essere rivolto ai cristiani in tutto il mondo. Il rispetto esige rispetto. Diversamente si arriva al caos.

In Italia vivono molti stranieri che professano religioni diverse da quella cristiana. Alcuni purtroppo non accettano di adeguarsi alle leggi del Paese che li ospita. Toufic Fahd e Alessandro Bausani nel libro “Storia dell’islamismo” (Editori Laterza, 1986) hanno scritto che “l’Islam, non ammettendo la conoscenza razionale,  fonda le sue conoscenze solo sulla fede come valore assoluto, cioè su un fideismo cieco in nome del Corano”.

Il Corano non può essere compreso facilmente da un cristiano perché in esso è prescritta la guerra (Cor.2.216). “Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite . Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete”.

“Uccidete gli idolatri ovunque li troviate” (Cor.9.5). “Profeta! Lotta contro gli infedeli e gli ipocriti e sii duro con loro” (Cor. 66.9). Lo scrittore Carlo Sgorlon in un articolo su Il Tempo evidenziò che “il Corano è l’unica legge religiosa e civile, immutabile e intoccabile, il vero musulmano non conosce la tolleranza e non cede mai, ‘o fai ciò che lui vuole, oppure si arriva alla guerra’”.

Il cristiano di oggi non è chiamato a fare le Crociate come nell’antichità. La nostra religione ci impone il dialogo, l’ascolto, la carità, il perdono e il camminare insieme. Tutte virtù esaltate dall’esempio di Gesù, che ci chiede di portare la sua parola in tutto il mondo ma non di imporla né di schiacciare il pensiero o le usanze altrui. Rispetto, prima di tutto. Quello stesso rispetto che dobbiamo oggi esigere per i cristiani nel mondo. Non è più ammissibile che avvengano crimini efferati, come di recente avvenuto in Burkina Faso, dove un gruppo di terroristi è entrato in una chiesa uccidendo decine di fedeli riuniti in preghiera. Non sarà facile raggiungere questo risultato. Che Dio ci aiuti. A noi resta la preghiera.