mercoledì 30 giugno 2010

Dopo l'arrivo degli americani la gente fugge dalla linea del fronte

Quando arrivarono i soldati americani a Giustagnana nel settembre del 1944 , fu subito evidente a tutti che non era più possibile rimanere sui monti intorno a Seravezza perché, oltre all’impossibilità di procacciarsi il cibo di cui ognuno aveva bisogno, incombeva sulla gente del posto e di coloro che erano lassù sfollati il rischio continuo di rimanere vittima dei colpi di mortaio e/o degli obici sparati da tedeschi. Diffuso fu allora anche il timore di rimanere coinvolti negli scontri fra due opposti eserciti in lotta, in quanto nei dintorni di Giustagnana, prima dell’arrivo delle truppe statunitensi, notai la presenza di soldati tedeschi armati fino ai denti. La prima volta che li osservai fu quando un folto plotone compatto passò davanti al molino, dove quella mattinata mi trovavo, che c’era sul canale prima di arrivare alla Cappella ch’era stato stato bruciato qualche tempo prima, dai miliziani della Repubblica di Salò, fondata da Mussolini dopo la sua liberazione da Campo Liberatore, avvenuta pochi giorni dopo l’8 settembre 1943. Procedeva compatto questo plotone lungo la mulattiera in direzione di Giustagnana. Gli uomini tenevano le armi spianate, uno di essi portava sulle spalle una rice-trasmittente. Per un attimo pensai ad un possibile scontro che poteva verificarsi appunto tra i partigiani che da un po’ di tempo stazionavano a Giustagnana, fra essi c’era il professor Dal Porto, un quercetano che era stato mio insegnante di matematica presso l’Avviamento di Seravezza. Sempre lo vidi il prof. Dal Porto con un libro in mano che leggeva sdraiato all’ombra dei castagni sotto le prime case del paese. Fortunatamente non ci fu alcun scontro. Una sera giunse a Giustagnana un soldato tedesco con il fucile a tracolla e lo zaino sulle spalle. Si fermò nel paese per chiedere indicazioni per arrivare sulla cima del monte Cavallo per raggiungere un reparto di suoi commilitoni. Alcuni uomini di Giustagnana, molto preoccupati per questo improvviso arrivo, chiesero l’intervento di una professoressa di Viareggio lassù sfollata, che conosceva bene la lingua tedesca. Era già buio quando insieme all’interprete, anch’io mi unii alla comitiva. Quindi apparivano fondati i timori per le possibili battaglie che potevano verificarsi proprio nella zona di Giustagnana. Fu così che iniziò l’esodo. Centinaia e centinaia di persone, in prevalenza sfollati, abbandonarono la zona oramai teatro di operazioni belliche, moltissime famiglie si rifugiarono nei territori del comune di Camaiore, lontani abbastanza dalla linea del fronte, alcune si fermarono a Pietrasanta che rimase sempre un località molto pericolosa per le continue cannonate che arrivavano dalla batterie tedesche di Punta Ala , in prossimità di La Spezia. Lì i tedeschi disponevano di cannoni di lunga gittata nascosti nelle gallerie scavate nella roccia. Questi cannoni erano piazzati su carri ferroviari che soltanto quando sparavano i colpi venivano spostati all’aperto, per poi nasconderli nuovamente appena cessato il fuoco. Per raggiungere i nuovi rifugi, gli sfollati attraversarono il crinale di Monte Ornato, dopo aver percorso la mulattiera che saliva a Gallena e poi il sentiero sovrastante per poi scendere giù a Valdicastello e quindi proseguire la marcia per arrivare nelle località prescelte. Fuggiva disperata la gente verso le zone liberate portando con sé poche cose racchiuse nei fagotti. I genitori tenevano nelle loro braccia i bambini più piccoli, altri portavano sulle spalle i familiari più vecchi che non riuscivano più a camminare da soli. Anche mio padre con mia madre ferita e con la mia nonna che camminava con estrema fatica decise che dovevamo fuggire da Giustagnana. Dopo avermi mandato a sentire i suoi genitori che erano sfollati a Capezzano Pianore se anche noi potevano trasferirci in quella località., un mattina si caricò sulle spalle la mia mamma e lasciammo Giustagnana. Lassù rimase la mia nonna. Una sfollata di Corvaia , alla quale lasciammo tutto quello che c’era rimasto da mangiare, comprese le due scatolette di carne che avevo avuto dagli americani, per avergli portato un paio di cassette di munizioni, ci assicurò che l’avrebbe guardata lei. Sui monti di Seravezza ci fu un fuggi-fuggi generale. Una donna in fuga, poco dopo Giustagnana, fu colpita da schegge di mortaio, dove cadde rimasero alcune manciate di ballotti intrisi di sangue. Mentre si transitava nella zona di Capriglia notai lunghe file di soldati americani che si stavano riposando ai lati della strada. Intorno ad essi si aggiravano molte persone e ragazzi di ogni età. Alcuni barbieri, tra i quali uno era di Seravezza, si davano da fare a radere la barba ai militari. “Paisà cioccolà” erano le parole che i bambini più piccoli istruiti dalle loro mamme rivolgevano ai soldati americani che quasi mai sapevano dire di no. Nelle località dove si rifugiò la massa di sfollati non esisteva alcun centro di assistenza. Furono occupate casupole piene di attrezzi, nonché locali destinati ad uso diverso, l’unica cosa che contava allora era che l’immobile avesse un tetto. A Capezzano Pianore la mia famiglia, trovò rifugio in una casupola dove venivano custoditi gli attrezzi per lavorare un frutteto.Attaccato a questo ripostiglio c’era un pollaio, motivo per cui spesso sentimmo di avere addosso i celliccioni, (1)In quella località erano dislocati alcuni reparti della 599 Compagnia della divisione Bufalo. Lungo la via Italica erano accatastate ingenti quantitativi di cassette di munizioni, alla cui vigilanza provvedevano i soldati italiani , chiamati i badogliani. Le cassette che venivano aperte e lasciate sul posto quando il munizionamento veniva caricato sui camion per essere trasportato sia presso le postazioni di artiglieria di Valdicastello e/o destinato alla prima linea del fronte, furono una risorsa inesauribile di legna che servì agli sfollati non solo per cuocere il cibo ma anche per riscaldarsi durante l’inverno 1944/1945. Per procurasi il cibo da dividere con i familiari, decine e decine di donne, ragazzi e ragazze, per sette mesi, con il bello e cattivo tempo, fecero la fila davanti a un cancello di una casa dove funzionava una cucina per i soldati americani, in attesa di ricevere gli avanzi dei pasti che ognuno di loro consumava, in quanto quelli che rimanevano nelle marmitte lo prendevano i due giovani italiani addetti al lavaggio del pentolame che poi, finito il lavoro, portavano ai loro familiari. La casa dov e era stata messa in funzione questa cucina era di proprietà di due coniugi che avevano perso i loro due figli, un giovane ed una ragazza che furono trucidati dai tedeschi durante la spaventosa strage che fu da essi compiuta a S.Anna il 12.agosto 1944. Finito di mangiare, i soldati raggiungevano il cancello e lasciavano cadere nei bricchi che gli porgevano gli sfollati ciò che era avanzato nello loro gavette. Si trattava di caffelatte, di mais bollito, di carne in scatola, di uova cotte con la carme di maiale, pezzetti di pane bianco e soffice e quant’altro. Gli avanzi escluso il pane, così raccolti e mischiati divenivano una poltiglia che soltanto chi aveva fame poteva trangugiare. La mia famiglia in quel periodo fu una volta tanto fortunata, nel senso che mio padre, grazie alla sua notevole forza fisica, trovò lavoro presso il deposito dei viveri, dove tutti i giorni veniva distribuita la razione dei generi alimentari spettante ai reparti dislocati al fronte o nelle retrovie. Per il lavoro prestato, riceveva giornalmente piccole quantità di cibo in scatola e di pane che ci evitò comunque di fare spesso la fila davanti alla cucina dei soldati. In tanti mesi di sfollamento a Capezzano Pianore , soltanto una volta furono distribuiti agli sfollati alcuni indumenti usati, provenienti,così ci dissero, da una raccolta effettuata negli Usa.
Capezzano Pianore fu frequentata da persone che sapevano disegnare, scolpire e dipingere. Molti furono i ritratti che furono fatti ai soldati statunitensi, taluni dei quali fecero applicare all’impugnatura della pistola, in sostituzione della bachilite, due piccole sagomate piastrelle di marmo statuario, con sopra dipinti o scolpiti i volti di coloro che avevano l’arma in dotazione. Un giorno mentre mi trovavo nei pressi della cucina americana con altri ragazzi, vidi due belle giovinette che tiravano un carretto vuoto, fermarsi a parlare con alcuni soldati di colore davanti ad una grande tenda piantata accanto all’immobile dove funzionava la cucina. Vestivano dimessamente e i loro corpi erano magri e asciutti. Il carretto vuoto era lì a dimostrare in quale difficile situazione dovevano trovarsi le due giovani donne. Dopo lo scambio di brevi parole, subito entrarono nella grossa tenda seguite dagli stessi soldati mentre altri sopraggiunsero poco dopo. Noi ragazzi che incuriositi c’eravamo avvicinati alla tenda per vedere cosa stava accadendo, fummo energicamente invitati ad allontanarci da un soldato che si mise a gridare da una finestra di una casa vicina, anch’essa occupata dagli americani.
E così, mentre al fronte gli uomini continuavano ad uccidersi fra loro durante gli spietati combattimenti, nelle immediate retrovie, conseguentemente alla disperata situazione di ogni giorno, finirono i sogni di fanciulle, le quali per non morire di fame e continuare a vivere, subirono spontaneamente violenze indicibili, incancellabili dalla memoria.

martedì 29 giugno 2010

I miei ricordi di piccolo bambino.

Non ho mai dimenticato le corse fatte, più di una volta, da bambino sull’erba alta cresciuta sulle piane dell’orto della mia nonna materna, situato a ridosso della sua casa al Ponticello di Seravezza, per catturare, farfalle, pavie e paranculi.
Toltimi gli zoccoletti, facevo piccoli scatti su quel tappeto di verde profumato. Usavo, per “acchiappare” le farfalle (insetti appartenenti all’ordine dei Lepidotteri) una piccola retina, nel momento in cui si posavano sui tanti fiori che spuntavano sopra i fili d’erba. Ogni tanto mi riposavo distendendomi supino, mentre il mio sguardo si perdeva nel cielo infinito. Non era facile per me catturarle, forse perché ero troppo piccino.
Catturavo anche i “paranculi” ai quali, nella mia incoscienza di piccolo bimbo, non mi rendevo conto della tortura che gli praticavo. Confesso che mi interessava vederli riprendere il volo con quel filo d’erba che gli avevo infilato nel loro minuscolo corpicino, come facevano tutti anche i miei coetani.

Un fatto ancora vivo nella mia memoria avvenne durante una sera, quando su Seravezza apparvero miriade di lucciole. Sembrava di avere sopra i tetti delle nostre case e fin sopra la testa un cielo costellato da infinite stelle. Correvo, lungo la strada buia, per prenderle con le manine perché a noi bimbi ci avevano fatto intendere che messe sotto un bicchiere facevano i soldini. Ne presi più di una, facendo arrabbiare la mia povera mamma che dalla finestra della nostra casa mi chiamava in continuazione, vista l’ora tarda, perché rientrassi subito a casa. Questa apparizione avvenne nell’anno in cui mio padre, con altri cavatori di Seravezza, andò a lavorare in Etiopia, come operaio utilizzato nella costruzione delle strade dell’impero, conquistato con la guerra italo- etiopica del 1935-36 voluta da Benito Mussolini.
Quando si divenne più grandicelli, noi ragazzi del Ponticello si trascorreva, nel periodo estivo, interi pomeriggi sul fiume vicino al molino del Bonci, dove eravamo soliti costruire, piccoli bozzi utilizzando sassi e “piotte”, L’acqua era limpidissima e in quel bozzo spesso mi sono tuffato e rinfrescato per sentire meno “na “fagonza” davvero insopportabile.
Posso dire di avere avuto un’infanzia felice, grazie all’amore dei miei genitori che sempre sentii vivo nel mio cuore, di quello dei miei nonni,di quello della mia nonna Marianna, dei più stretti parenti e tanti piccoli amici.
Renato Sacchelli

VIDI KESSELRING A SERAVEZZA E LE CASE SALTARONO IN ARIA

Vigilia di distruzioni nell’agosto del 1944

Nel mese di agosto 1944 percorsi frequentemente le vie deserte, assolate e silenziose di Seravezza. Faceva impressione non vedere nessuno lungo i murelli del fiume, sotto i platani, dirimpetto all’ospedale di solito gremiti di gente. Dalla cave non giungevano più i fragori dei sassi rotolanti lungo i ravaneti né quelli provocati dall’esplosione delle mine. Seravezza appariva un centro abitato senza vita, sì sembrava un paese morto con le porte e le finestre delle sue case chiuse. Soltanto l’acqua dei fiumi, limpida come non mai, continuava a scorrere verso il mare. In quel mese Seravezza fu visitata da un gruppo di alti ufficiali tedeschi, uno dei quali era il feldmaresciallo Albert Kesselring, il comandante delle truppe germaniche in Italia, che ebbi modo di riconoscere vedendo le sue fotografie pubblicate su riviste del dopoguerra. Data l’importanza strategica che assunse la zona che fu l’estremo limite della famosa Linea Gotica, era un fatto normale che Kesselring si rendesse conto di persona dei luoghi dove per sette mesi le sue truppe fermarono l’avanzata delle armate alleate. La visita del gruppo di alti ufficiali avvenne prima che venissero distrutti gli antichi rioni del Ponticello e della Fucina, ricchi di tesori quali erano la chiesa della Santissima Annunziata, tutta rivestita di marmo al suo interno, con attaccata la casa che fu abitata dal 1518 al 1520 da Michelangiolo Buonarroti, quando si recò, per volere di Papa X, sulle cave del Trambiserra per estrarre le colonne di marmo che gli servivano per la facciata del San Lorenzo di Firenze, un’opera che non fu mai realizzata e per aprire sul Monte Altissimo le cave del marmo statuario che gli serviva per le sue opere. Tutto fu distrutto: il campanile con il bellissimo orologio, la segheria del Salvatori, costruita nel 1926 tutta in cemento armato. Anche i vicini paesi di Corvaia e di Ripa furono completamente rasi al suolo.
Vidi Kesselring e i suoi ufficiali quel giorno in cui stavo ritornando al rifugio di Giustagnana, dopo essere stato nella mattinata nei pressi del Cardoso per fare macinare un sacchettino di granturco. Se in quel periodo di tempo era difficile procurarsi tale cereale, coloro che ne avevano la disponibilità, chiuso il molino del Bonci di Seravezza, incontravano molte difficoltà a farlo macinare. Il molino dove mi recai quella mattina era ubicato sotto la strada, vicino al canale. Probabilmente era stato messo in funzione da poco tempo per far fronte alle necessità del momento. L’attività veniva svolta in un piccolissimo locale con il tetto molto basso che mi sembrò privo delle caratteristiche di un opificio della specie tradizionale. Secondo l’ impressione che riportai l’uomo che l’aveva attivato, prima dello sfollamento doveva avere un proprio laboratorio di marmo. Con l’esercizio improvvisato del molino poteva trattenersi un po’ di farina a titolo di compenso per la macinatura dei chicchi del granturco e di quant’altro. In questo modo patì di meno la fame che allora fu sofferta da molta popolazione della Versilia. Ricordo con quanta attenzione si muoveva intorno alla macina e come sfiorava il pollice sulle altre dita ricoperte di farina per accertarsi che fosse ben macinata. Un uomo in gamba. Non mi chiese nulla per questa macinatura, verosimilmente, a mia insaputa, si trattenne un po’ di farina. Mi sentivo particolarmente felice e contento quando iniziai il viaggio per fare ritorno al rifugio con il mio sacchettino di farina sulle spalle. Mi sembrava di possedere un tesoro. Sapere che a Giustagnana mi aspettavano per fare la polenta attenuava la fatica maggiormente sentita dato che non toccavo cibo da diverse ore. Giunto a Seravezza, dopo aver attraversato Torcicoda, giunsi in fondo al Canaletto dove mi fermai, per un attimo, di colpo. Saranno state le ore 18 pomeridiane. Ferma davanti all’ospedale, tra il murello del fiume e il giardinetto, c’era una camionetta scoperta tedesca con la parte anteriore volta verso il ponte della Passerella, con a bordo tre o quattro ufficiali tedeschi che dai loro distintivi, come constatai poco dopo, potetti rilevare che erano di alto grado. Kesselring stava a terra con un piede sulla ruota posteriore sinistra dell’automezzo; vestiva la divisa sahariana. Tutti avevano il capo chino su delle carte topografiche spiegate sotto i loro occhi. Non avevano militari di scorta. Quando sbucai in fondo al Canaletto volsero i loro sguardi allarmati su di me. Ebbi l’impressione che qualcuno , temendo un’agguato, posò la mano sulla pistola che portava nella fondina attaccata alla cintura. Lì per lì pensai di ritornare indietro, ma poi ritenni più opportuno continuare ad andare avanti come se nulla fosse. Fu in quel momento che avvertii un senso di paura. Proseguii il cammino stringendo forte nelle mani il sacchettino come se fosse uno scudo, Passai vicinissimo agli ufficiali tedeschi senza rivolgergli un cenno di saluto. Dal timore che provavo non ebbi neppure la forza per guardarli in faccia. Li sentii parlare senza che io capissi quello che dicevano. A passo svelto, in un susseguirsi di emozioni, mi allontanai. Giunto sopra Riomagno ero stremato. Mi aggiaccai in una piana e lì riposai a lungo. Erano già calate le prime ombre della sera quando ripresi l’arrampicata. Prima di arrivare a Giustagnana, dalla cima del monte Canala o del Castellaccio furono sparate diverse raffiche di mitragliatrice. Era visibile la traiettoria dei proiettili luminosi che raggiunsero proprio la zona che stavo percorrendo, fortunatamente senza colpirmi.. Poco tempo dopo aver visto Kesselring a Seravezza iniziò la distruzione di una parte del suo centro abitato, dal sottomonte, a partire da Riomagno fino alla Fucina. Fu così deturpato dal grigiore delle macerie il paesaggio di Seravezza e dintorni,un’autentica tavolozza, forse il più bello della Versilia, coi suoi monti a ridosso del maestoso Altissimo pieni di verde dai toni intensi e nello stesso tempo più sfumati, e con le cave ricche di marmi dai colori diversi, un vero splendore. Nell’agosto del 1944, nell’oltretomba, credo che abbia pianto anche Giuseppe Viner che seppe ben dipingere e far brillare con colori puri, il paesaggio della sua e della nostra Seravezza.

Operazione San Valentino

I L M O N DO D I O T A N E R



I rappresentanti del pianeta degli extraterrestri “ Aurix “, si sono riuniti in assemblea per esprimere il loro parere in merito al piano di soccorso studiato allo scopo di portare aiuto al pianeta “Terra”, la cui sopravvivenza è minacciata a causa dell’irrazionale comportamento dei propri abitanti.
Il piano San Valentino, volutamente così denominato in onore del Patrono degli innamorati festeggiato anche su Aurix. dove l’amore fra quegli esseri è particolarmente sentito, è stato ideato dal più famoso scienziato di nome Otaner, un uomo di una mente paragonabile a quella di Leonardo da Vinci, tanto per fare un confronto.
Otaner, analizzando una serie di campioni di acqua e di aria, prelevati periodicamente dagli equipaggi dei dischi volanti durante i voli di ricognizione sul pianeta Terra, costruiti con speciali materiali invisibili all’occhio umano, ha rilevato tassi di inquinamento così elevati, tanto da convincerlo della sconvolgimento di ogni forma di vita sulla terra,la cui esistenza sarà minacciata se non verranno adottate urgenti misure in grado di ridurre i più diffusi fenomeni inquinanti che generano appunto le micidiali sostanze, sulla cui pericolosità tutti gli studiosi di Aurix sono d’accordo

Laggiù sono indietro di millenni. Sono degli irresponsabili, non sono neppure capaci di proteggere il mondo meraviglio che Dio ci ha dato secondo precise regole matematiche. E’ mai possibile che questi poveri terrestri non si rendano conto che inquinare i fiumi e i mari sono fatti che a lungo termine determineranno anche la fine dell’esistenza dello stesso uomo. La loro civiltà, da questo punto di vista è ancora allo stato primitivo, anche se hanno fatto passi da gigante nel campo dell’arte, della costruzione di grandi città, e anche nella scienza, arrivando persino a mettere i piedi sulla Luna che essi dai tempi più antichi veneravano come una divinità, continua a tuonare Otaner dall’alto del suo seggio.
L’assemblea ascolta il vecchio scienziato con grande silenzio e attenzione. Quando su Aurix parla un anziano molti corrono per andare ad ascoltarlo. Essere vecchi sul pianeta Aurix vuol dire avere esperienza, grande maturità e saggezza, tutte doti che si accumulano soltanto col trascorrere degli anni e su Aurix la vita media è di 200 anni e Otaner ne ha pochi di meno, Non è come sulla Terra dove gli anziani spesso sono abbandonati dagli stessi figli, i quali, pur di
liberarsi della loro ingombrante presenza, fanno il possibile per metterli nei ricoveri, aree, in tanti casi e soprattutto per le persone più povere, di solitario parcheggio, in angosciosa attesa dell’ultimo affannoso respiro.
Ho letto, continua Otaner, anche note illustrative con le quali i nostri attenti osservatori riferiscono che in più parti del pianeta Terra c’è gente che muore di fame, specie nelle più desolate e aride terre del continente Africano.
Un vocio di stupore copre la voce dello scienziato. Un rappresentante dei giovani si alza e prende la parola. “Com’è possibile che avvengano cose del genere. E’ un’offesa a tutti gli astri”, grida con voce tonante.“Propongo che tu faccia parte dell’equipaggio del disco volante Z.128, quello che ha più ore di ricognizione sulla Terra, così vedrai personalmente come stanno le cose”, gli risponde con calma serafica Otaner, il quale continua a parlare. “Non bastano forme gravi di inquinamento, non bastano i decessi per fame, non basta l’avanzare del deserto che rende improduttivo il terreno che investe; il fatto più sconvolgente che ancor più ci colpisce è quello causato da una gran parte di uomini dediti alla produzione ed al traffico illecito di sostanze stupefacenti, nonostante l’esistenza di leggi che ne vietano l’uso non terapeutico delle stesse. Si tratta di uomini che vivono in più parti della Terra. Taluni ammucchiano ingenti ricchezze fornendo la droga agli spacciatori, i quali senza alcun pudore, la vendono anche ai ragazzi minorenni. Noi sappiamo le sofferenze inenarrabili cui vanno incontro quelle piccole creature, destinate a morire nel volgere di pochi anni. Qui da noi la vita è veramente sacra e ci meraviglia che i terrestri, almeno tanti di essi, non l’abbiano ancora capito. Alla base di questo incredibile comportamento c’è la mancanza di amore verso i propri simili; non è come su Aurix dove tutto è permeato di affetto, comprensione e assoluto rispetto delle regole di vita, tant’è che da noi sono secoli che abbiamo abolito i tribunali; nessuno commetteva più reati di qualsiasi specie., quindi non avevano più nulla da fare.. A conclusione del mio intervento propongo l’invio sulla terra di formazioni di dischi volanti in grado di atterrare su quei terreni adibiti alla coltivazione non autorizzatee quindi illecita di sostanze stupefacenti. Li abbiamo già tutti localizzati. Scesi a terra, gli equipaggi irroreranno il terreno di speciali sostanze chimiche, grazie alle quali, è stato dimostrato che su quel terreno non cresceranno più le piante dalle quali viene estratta la droga che uccide. Dettagli più precisi circa il numero dei dischi volanti, dislocati sulle varie basi stellari, da destinare a questa operazione, che sicuramente non sarà la prima né l’ultima se non riceveremo segnali di inversione di rotta per quanto concerne la vita che conducono i terrestri, saranno forniti dal Comandante generale Onze. I nostri dischi volanti sfuggono al controllo dei radar , sono superveloci”. Applausi prolungati salutano la conclusione dell’intervento di Otaner.

In nome dell’amore, di questo sentimento universale, molto sentito anche su Aurix, il piano della scienziato Otaner viene approvato all’unanimità, per acclamazione.

domenica 27 giugno 2010

Gli italiani che fecero grande l’America: fuggirono dalla miseria, trovarono la fortuna. Ma non tutti

Il fenomeno della immigrazione in Italia di milioni di extracomunitari mi ha indotto a rileggere tante pagine della nostra storia, a partire dagli anni a cavallo dei secoli XVIII e XIX, quando masse di contadini e di operai italiani migrarono all’estero, ad ondate periodiche, con la speranza di poter trovare un lavoro per mantenere se stessi e le proprie famiglie. Raggiunsero gli Stati più ricchi e industrializzati, quali erano allora la Germania, la Francia e la Svizzera, oppure l’America. Molti meridionali emigrarono anche in Tunisia e in Algeria. Tunisi, all’inizio del Novecento, arrivò a contare centomila italiani, quasi tutti siciliani, calabresi e campani.
La punta più alta di immigrazione fu raggiunta del 1905, quando si contarono ben ottocentomila italiani emigrati all’estero. Molti dei nostri connazionali svolgevano lavori di grande abilità, altri invece non sapevano fare null’altro che i lavori di manovalanza. Tanti emigrati in California coltivavano agrumeti, mentre in Brasile e in Argentina si occupavano dei vigneti.

Chi non aveva un vero e proprio mestiere sbarcava il lunario facendo il manovale o altri lavori più umili e faticosi, spesso in luoghi malsani. Non pochi dei nostri connazionali emigrati si trovarono ad affrontare difficili condizioni di vita, lottando, ogni giorno, contro la fame, gli stenti, le malattie e la tremenda nostalgia della Patria lontana.
A tanti mancava sia l’istruzione che le necessarie risorse economiche per fronteggiare le difficoltà della vita quotidiana;nessuna protezione ricevevano dal nostro Governo che, quasi impotente, assisteva al fuoriuscire dei propri cittadini dall’Italia. Chi decideva di lasciare il proprio Paese non era mosso dallo spirito di avventura, bensì dal bisogno assoluto di trovare lavoro. Molti emigrati finirono per essere sfruttati dai proprietari terrieri e dagli impresari, che li utilizzavano come manovalanza a buon mercato da prendere e gettare via dopo l’uso. Le mansioni che un tempo, in America, erano state svolte dagli schiavi neri furono affidate ai nostri connazionali, costretti ad accettare anche condizioni di vita più disumane pur di procurarsi il minimo indispensabile per sopravvivere.

Nessuno potrà mai dire con esattezza il numero di coloro che morirono lontani dalla loro Patria di febbre gialla, vaiolo e di stenti; un fatto che, solo a ricordarlo, riempie il nostro cuore di un dolore immenso. Certamente furono numerosi anche gli italiani che, grazie al loro ingegno, fecero fortuna. Comunque tutti gli emigrati italiani contribuirono a fare dell’America la più grande potenza industriale ed economica del mondo. Taluni dei figli di questi emigrati divennero famosi anche in campo politico, come l’oriundo Fiorello Henry La Guardia che fu membro del Congresso statunitense dal 1916 al 1932 e sindaco di New York dal 1933 al 1945.

Giovanna Lega: la poetessa di Dio

Il 24 giugno 2000, a distanza di soli pochi giorni dopo aver avvertito i sintomi di una grave e inguaribile malattia, moriva la poetessa e scrittrice seravezzina Giovanna Lega, figlia unica degli insegnanti Narciso Lega e Iva Berti.
Anche lei, seguendo le orme dei suoi cari genitori, aveva conseguito, da giovanissima, il diploma di maestra elementare.
Non so se abbia mai insegnato. Quello che invece conosco di lei è che nei primi anni Ottanta diede alle stampe alcuni libretti di poesia e di racconti di vita versiliese, di elevato spessore poetico e letterario. In tutto sono sette le opere che ci ha lasciato ed io sono orgoglioso di averle acquistate perché le considero molto importanti, in quanto educano l’uomo ad amare sempre di più i propri simili.
Tanti anni fa rimasi sorpreso nel leggere, tutto d’un fiato, i suoi versi brevi e senza orpelli, talmente incisivi fino ad arrivare a scuotere la mia coscienza, inducendomi anche a serie riflessioni sulla vita terrena di tutte le creature nate da un atto di amore divino. I suoi racconti sono belli ed allegri e piacevolissima è la loro lettura.

Giovanna Lega poneva sempre al centro della sua creatività poetica la figura dell’uomo, che vive costantemente sotto la luce del suo Creatore.
Era una giovane donna molto timida e di una incredibile saggezza; avvertiva la voce del bene e rifuggiva da quella del male ed a tutti noi indicava il retto cammino per arrivare, alla fine del nostro passaggio terreno, davanti a Dio, lassù nel Paradiso.
E' morta improvvisamente e nel silenzio Giovanna Lega ed io amo pensare che l’abbia chiamata a sé la sua dolce mamma che tanto l’amava ed anche la sua cara nonna paterna, purtroppo anche loro scomparse non molto tempo fa.
Mi sta a cuore tutto ciò che ha scritto Giovanna Lega e mi farebbe davvero piacere che le sue opere fossero lette non solo in Italia ma anche all’estero.
Ascoltando i suoi versi credo che l’uomo ne trarrebbe utili insegnamenti per costruire un mondo migliore, senza miseria e senza guerre.
Mi pare estremamente bello pensare che la poesia di Giovanna Lega sia scaturita dalla voce di Dio che lei riusciva ad ascoltare, ed è per questo che intingeva sempre la sua penna nello stesso calamaio del nostro Padre Celeste.

sabato 26 giugno 2010

Anni 40: ragazzi affamati in cerca di castagne


Prima parte

Piero, un ragazzo quattordicenne abitante vicino a me al Ponticello di Seravezza, bussava forte alla porta di casa mia; era ancora notte e lui mi chiamava ripetutamente: “Renato, Renato, svegliati, andiamo, si va alle castagne”. Era una domenica del 1942 o 1943, del tempo in cui cadevano le castagne: un anno di guerra! Faceva freddo e non era per niente piacevole essere svegliati così bruscamente. Dormivo insieme a mio fratello Sergio e facevo fatica ad alzarmi, ma il pensiero di poter raccogliere un po’ di castagne, per togliermi quella fame che tutti i giorni sentivo forte forte, mi fece rotolare giù dal letto; in pochi minuti ero già fuori dall’uscio. Non avevo fatto nemmeno colazione, probabilmente in casa non c’era nulla da mangiare, mi pare proprio che fosse così. “ Dove si va Piero?”. “Andiamo a Cerreta S. Antonio, c’è una bella selva con tanti castagni e se ci arriviamo appena fa giorno e soprattutto se non ci sono i padroni possiamo raccoglierne un sacchettino”. Il suo parlare era deciso, sicuro di sé. Io non ebbi nulla da obiettare, acconsentii e via.

Si camminava svelti nonostante si calzasse gli zoccoli, e in breve tempo attraversammo Seravezza ancora al buio, oltrepassammo Valventosa e raggiungemmo la mulattiera che portava a Basati, senza incontrare un’anima viva. Salimmo un po’ prima di entrare in una selva sotto il paese di Cerreta S. Antonio. Il castagneto era pulito, sembrava un giardino tanto era ben curato ed il terreno era ricoperto di castagne, molte delle quali pronte a schizzare fuori dai ricci aperti a mezzaluna. Ero contento, quasi mi pareva di sognare se non ci fosse stato il timore di essere sorpresi dal padrone, fatto questo che si sarebbe risolto con una fuga precipitosa a rotta di collo, con tutti i rischi connessi. Ero veloce a raccogliere le castagne che mi apparivano belle lucenti sotto il primo chiarore del mattino. Come uno scoiattolo, me ne mettevo in continuazione una in bocca, per sgranocchiarla, dopo averla pulita coi denti. In poco tempo si riempì la saccoccia che tenevamo legata alla vita. Fu a questo punto che Piero manifestò il suo male ingegno. Mi disse: “Andiamo a nasconderle in uno “scepalone” (1), poi si ritorna, così se ci sorprende il padrone, tutto al più ci toglie le castagne che ci trova addosso e noi possiamo tornare a casa con quelle che abbiamo nascosto”. Che idea! Le pensava proprio tutte ed io, ancora una volta, mi trovai tacitamente d'accordo con lui, non aprii bocca. Uscimmo dalla selva mentre si faceva sempre più giorno. Nascondemmo le castagne che avevamo messo in un sacchettino sotto una siepe e poi via di corsa scalzi nuovamente nel castagneto.

Si poteva camminare scalzi perchè la pianta dei nostri piedi era dura come se fosse di cuoio tanto eravamo abituati a camminare in quel modo.Che piedi! Davvero degni del grande Abebe Bikila che nel 1960 conquistò, correndo a piedi scalzi, la sua prima medaglia d'oro olimpionica della maratona che fu disputata a Roma. Ero così indaffarato a raccogliere il prezioso frutto, una vera manna per quei tempi in cui si soffriva molto la fanme, quando ad un certo punto mi accorsi di essere rimasto solo nella selva .Piero se n'era andato senza dirmi niente e così dopo qualche attimo anch'io decisi di uscirne fuori. Valutai che le castagna raccolte erano più che sufficienti per fare ritorno a casa. Raggiunsi la siepe dove c'era già Piero che aveva fra le mani il suo sacchetto.. Quando tirai fuori il mio rimasi di stucco, a bocca aperta come un locco. Qualcuno lo avevo quasi svuotato. Non ebbi neppure il tempo di ripredermi dalla sorpresa poiché il quel momento apparve alle nostre spalle un uomo con il pennato in mano, un gigante tanto mi sembrò grande. Era il padrone della selva il quale, evidentemente, ci aveva visto mentre si raccoglievano le castagne e che, invece di farci scappare, come Piero aveva pensato, aveva atteso, il momento che per tentare di riprendersele tutte.Più furbo di Piero.
La visione di quell’uomo fu per me come un k.o, nel senso pugilistico del termine. Egli ci rimproverò duramente, minacciandoci di farci arrestare dai carabinieri. Capii dal suo discorso che anche lui pativa la fame. Non ci fece alcun male. Si riprese le castagne e ci restituì i sacchetti vuoti. Mentre ritornavamo a casa, ripensavo a quelle castagne che erano sparite dal mio sacchettino ed alla sfortuna che si era accanita contro di noi. Che ingenuo! Nemmeno mi sfiorò l’idea che fosse stato Piero a sottrarmele. Dopo diversi giorni, ricordo che una sera, insieme a Piero e ad altre persone del Ponticello, di ritorno da Basati, dove tutti ci eravamo recati per racimolare qualcosa da mangiare, ma con risultati del tutto negativi, passammo vicino allo “scepalone” sotto il quale la domenica precedente avevamo nascosto le castagne. Fu allora che Piero si fermò lì per raccogliere, di nascosto, le castagne che lui aveva sottratto dal mio sacchettino, quella domenica mattina in cui entrambi avevamo una fame da morì.

II parte


Noi ragazzi, durante gli anni della guerra, che insanguinò anche la nostra terra di Versilia per ben sette mesi, dal settembre 1944 al mese di aprile del 194 si andava spesso in cerca di castagne. Si sapeva che non era lecito “rubare” le castagne, ma la fame che pativamo non induceva alla benché minima riflessione. Si partiva gioiosamente, ma si ritornava a casa sempre molto sconsolati poiché avevamo il sacchetto vuoto. Devo anche dire che non erano trascurabili i pericoli cui andavamo incontro, come accadde quel giorno che andai sul monte Altissimo, il monte di Michelangelo, insieme a quattro o cinque ragazzi della mia età. Non appena si uscì dalla strada, subito dopo la salita del ponte di Rimone e si entrò nella prima selva, una donna di Seravezza che non era neppure la proprietaria, ma soltanto una persona autorizzata a raccogliere per sé le castagne, iniziò, con una furia forsennata, a tirare contro di noi grossi sassi. Furono le nostre gambe, allora scattanti, ad evitarci il peggio: in pochi minuti ci si trovò in fondo al fiume tutti sani e salvi. La scampammo proprio bella perché qualcuno di noi, senza avere avuto nemmeno il tempo di mettersi in bocca una sola castagna, poteva finire all’ospedale se gli fosse andata bene a non rimanere stecchito sul colpo.

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Nell’estate del 1944 la mia famiglia anziché sfollare a Sala Baganza (PR) preferì rimanere, così come fecero moltissimi seravezzini, sui nostri monti. Inizialmente trovammo rifugio in un metato sito sotto il crinale del monte Canala che, a nostra insaputa, veniva fortificato dai tedeschi L’avanzata degli angloamericani ci indusse, quasi subito, ad una fuga precipitosa da quella zona che fu poi teatro di aspri combattimenti. Finimmo nella chiesa di Giustagnana, già piena di sfollati, fino a ché non si occupò, con il consenso del proprietario, una piccola casupola ubicata in mezzo ai castagni, poco distante dal paese, verosimilmente adibita, in tempi assai lontani, al ricovero del bestiame ed alla custodia di attrezzi agricoli. Lì rimanemmo fino alla nascita dei funghi ed alla caduta delle prime castagne che rimbalzavano anche sul tetto del nostro rifugio. Potevamo rimanere in quel posto dove finalmente ci eravamo tolti la voglia di mangiare ballotti e mondine? No! Fummo costretti ad abbandonarlo subito dopo l’arrivo a Giustagnana dei soldati americani di colore, della divisione “ Bufalo”, immediatamente accolti da una pioggia di colpi di mortaio, sparati dalle postazioni occupate dai tedeschi sul monte che avevamo di fronte,oppure nei pressi della Cappella. Così, mentre la natura meravigliosa nella costante ripetizione delle stagioni, donava agli uomini i suoi frutti nutrienti e saporosi, la guerra scatenata da esseri irragionevoli, che volevano imporre con la forza delle armi le loro ideologie totalitarie, senza tenere in alcun conto il diritto alla libertà, che è il bene più prezioso ed inalienabile di tutti i popoli della terra, continuava a mietere vittime innocenti. Balzò allora di più ai miei occhi, il contrasto tra il Mondo fantastico ed affascinante. tutto per me ancora da scoprire, e la dignità di una moltitudine di creature umane, calpestata ed offesa nel modo più violento da altri esseri simili.

Dai fatti che ho raccontato sono trascorsi diversi decenni ed in tutto questo lungo tempo, soltanto poche volte sono risalito sui monti per raccogliere le castagne, senza più avvertire i timori patiti da ragazzo. Sono anni che faccio le mondine ed i ballotti con le castagne acquistate nei negozi di frutta, perché piacciono molto a tutta la mia famiglia. Le caldarroste, in modo particolare, emanano un profumo penetrante come quello del pane fatto in casa ed è bello toglierle dalla padella ancora fumanti, per poi mangiarle bevendoci sopra un gustoso bicchiere di vino leggero. Confesso inoltre la mia ghiottoneria per la torta di farina di castagne coi pinoli, l’uvetta secca e l’olio di oliva, per i “manifregoli” (2), conditi sempre con lo stesso olio, oppure cosparsi di latte ed anche per i “ciacci” (3), riempiti di ricotta: si tratta davvero di cibi sani e molto nutrienti. Voglio ricordare che fin dai tempi più antichi, i frutti del castagno costituirono l’alimento principale per molte popolazioni; con le castagne si sfamò anche l’esercito del generale cartaginese Annibale che, negli anni 218 - 217 e 216 a.C., passato, con gli elefanti, dalla Gallia nella nostra penisola attraverso le Alpi, e sbaragliò gli eserciti romani in epiche battaglie, tanto da arrivare a conquistare gran parte dell’Italia meridionale.

Note

(1). Scepalóne: dialetto versiliese - Siepe impenetrabile di rovi;
(2). Manifrégoli: farinata di farina dolce cotta nell’acqua, con un poco di sale, e scodellata molto liquida. Viene spesso condita con l’olio di oliva vergine, o con il latte oppure con la ricotta;
(3) . Ciaccio: neccio fatto con farina di castagne, disciolta a freddo in acqua, con poco sale, e cotta fra due testi riscaldati a fiamma viva.

L’Autore, che con il racconto inserito nella prima parte, un po' modificato, ha partecipato al concorso “E' bello togliere insieme le castagne dal fuoco”, indetto dal comune di Pontremoli, è stato premiato dal Sindaco della città, onorevole Enrico Ferri, il 15 Maggio 2000, con “L’ EURO DI PONTREMOLI – COMUNE DI EUROPA”.
Saltano in aria le case di Seravezza
Il paese mutilato e irriconoscibile. Vidi la mia casa dividersi in due come fosse stata segata di netto da un filo della cava.

Ero nelle piane sotto le prime case di Giustagnana, tra i castagni in compagnia di altri ragazzi, quel giorno in cui appresi che i tedeschi a Seravezza stavano per far saltare in aria la segheria del “Salvatori”, vicina al ponte del Rossi, al cui piano superiore da diversi mesi era stato attivato un laboratorio dell’arsenale di La Spezia per la produzione di salvagenti. Fummo avvertiti da alcune donne che salivano a Giustagnana attraverso il sentiero proveniente da Riomagno, con dei grossi fagotti che portavano sulla testa. A sentire quelle notizie, per un attimo mi mancò il respiro, perché la distruzione riguardava quella parte di Seravezza dove c’era la casa della mia famiglia che avevamo abbandonato all’inizio dello sfollamento. Ripresomi dall’emozione andai subito ad informare i miei familiari che si trovavano nella casupola tra Giustagnana e Fabiano, e subito dopo mi lanciai scalzo, a spron battuto, giù lungo il sentiero che conduceva a Riomagno. Corsi disperato verso la mia casa. Nei tratti senza curve più di una corsa mi pareva di volare come un falco in picchiata, sentivo i miei calcagni sfiorare il fondo dei pantaloncini. Quanto dolore sentii in quei minuti. Maledetta la guerra! A Riomagno dove giunsi tutto trafelato e ansimante , notai donne, uomini e ragazzi intenti a mettere in salvo le masserizie delle loro case prossime ad essere distrutte, purtroppo non vidi tanti miei vicini di casa. Comunque era un continuo e frenetico andare in su e già dal Ponticello. Si avvertiva nell’aria la drammaticità del momento, la disperazione si leggeva sul volto di tutti. Quando transitai dietro la segheria del Salvatori vidi che numerosi fili che uscivano dalla stessa erano stati già distesi lungo il selciato stradale. Fu allora che chiesi ad un ragazzo che incontrai. “Dove sono i tedeschi?”. Mi rispose che stavano collocando gli esplosivi all’interno della segheria. Vidi che si trattava di proiettili di artiglieria, assai lunghi, particolare che attirò la mia attenzione quando ne vidi un mucchio che era stato scaricato al margine della strada di fronte al vicino molino del Bonci. Appena giunsi nella mia casa sentii dei colpi serrati provenire da una abitazione vicina. Un uomo , aperto un varco tra pali di legno, addossati sul retro della casa di un suo parente, con potenti colpi di mazza stava demolendo un muro laddove c’era l’ingresso ad un fondo murato, nel quale, prima di abbandonare il paese a causa dello sfollamento, era stata nascosta biancheria ed altra roba di maggiore valore. La prima cosa che feci quando entrai nella casa della mia nonna, presi la pistola, che lei teneva in un ripostiglio, era una Colt che aveva portato dall’America il mio nonno materno dove era andato a lavorare due e tre volte alla fine del 1800 e all’inizio del 1900.L’arma era ben conservata, c’erano anche quattro cinque pallottole. “ Se la vedono i tedeschi che ci fa faranno?. Ecco cosa pensai. In preda alla paura, senza pensarci tanto, la buttai nel pozzo nero. Poi mi diedi da fare a trascinare nelle piane del mio orto, insieme a mia madre e a mio fratello che nel frattempo mi avevano raggiunto, qualche mobile della nostra casa. Non trascorse molto tempo dal mio arrivo al Ponticello quando udii il suono di una tromba e subito dopo la voce di una donna che avvertiva una sua amica che bisognava allontanarsi dalla zona in quanto era imminente il brillamento degli esplosivi. Dall’orto mi portai nella strada, dove incontrai un sergente della Wehrmacht, un omaccione biondo con gli occhi chiari sui trent’anni che dirigeva la squadra degli operai della Todt impiegata nella distruzione delle case di Seravezza. Era il solo soldato tedesco presente quel giorno nel paese. Portava una pistola alla cintura. Camminai al suo fianco fino davanti alla Casa dei combattenti, dove gli operai delle Todt stavano in ginocchio intenti ad allacciare i fili elettrici a un detonatore. Seduto su uno scalino li guardavo rassegnato e triste. Ad un tratto un uomo premette o tirò una manovella.. Istintivamente mi tappai gli orecchi con le mani e abbassai la testa. E subito udii l’esplosione, un boato enorme, spaventoso, mi sembrò, per un attimo che qualcuno mi avesse strappato il cuore. Eravamo all’inizio . Giù la segheria, giù la vicina casa del Carducci, rotti i vetri e molti cornicioni, sia del molino del Bonci che delle altre case accanto, tra le quali c’era anche quella abitata dalla famiglia di Renato Salvatori che, negli anni 50, divenne un famoso attore del cinemà. Alta fu la colonna di fumo che si alzò dalle macerie fumanti, mentre un acre odore della polvere da sparo si diffuse nell’aria. . Nel passare davanti alla mia cara vecchia casa vidi che lo spostamento d’aria l’aveva divisa in due parti. Sembrava che fosse stata segata con un filo elicoidale della cava, la parte superiore sporgeva all’infuori più di una decina di centimetri da quella inferiore. Nel vederla così ridotta pensai che non sarebbe stata più abitabile, anche se i tedeschi, dopo qualche giorno non l’avessero completamente rasa al suolo. Addio casa dei miei cari nonni materni dove ero nato e cresciuto e nella quale mi ero spesso sentito al riparo e felice con tutti i miei cari, specie nei freddi inverni quando ci stringevamo tutti intorno al camino ad ascoltare le fole che a noi ragazzi quando eravamo più piccoli i nostri genitori raccontavano in modo da farci spesso sognare. Addio fanciullezza! Mi trovavo davanti alla mia irriconoscibile casa quando mi passarono accanto il Carducci e sua moglie Aurora che poco prima avevano assistito alla distruzione della loro casa,ubicata sul retro della segheria a pochi metri dalla stessa. Erano affranti. Piangevano disperati, i loro volti erano rossi e stravolti dal dolore. Abbracciati l’uno all’altra, entrambi ripetevano in continuazione: “ Non c’è più la nostra casina, non c’è più:::” si allontanarono in direzione del centro di Seravezza, mentre calavano le prime ombre della sera.
Nato figlio della Lupa, poi divenuto Balilla, dopo aver cantato per anni “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza” e anche la canzone “Fischia il sasso il nome squilla dell’intrepido balilla, il ragazzo di Portoria…” che nell’800 tirò i sassi contro i cannoni austriaci, io pavido ragazzo che per essere nominato balilla moschettiere giurai anche fedeltà alla causa della rivoluzione fascista, non ebbi il coraggio di impugnare nell’agosto del 1944 la vecchia Colt del mio nonno, per sparare a difesa della libertà.
Nel ricordare quel giorno lontano mi pare ancora che mi bruciano i piedi, quando camminai scalzo sulle macerie fumanti.
La luna è una pizza

Mani magiche e divine
per non fare più patire
la fame all'Umanità,
hanno trasformato la luna
in una saporosa e appetitosa pizza,
che, ogni giorno,
cuoce in continuazione
sotto i raggi del sole.
Finalmente non ci sono
più preoccupazioni
da sempre generate dalla povertà.
dalla siccità e dalle cavallette.
Nel cielo infinito ora vanno e vengono
convogli spaziali;
atterrano dovunque.
Trasportano una pizza
gustosa e davvero eccezionale,
la mangia l'accattone
ed anche il ricco signore..
Solo gli orari
occorre osservare,
alle sei e quindici!
Ecco è arrivata l'ora!
Tic, Tac, Tic Tac,
ma il convoglio ritarda ad arrivar.
Scuoto la testa, mi sveglio,
peccato, è un sogno!

Scritta verso la fine degli anni 80.

venerdì 25 giugno 2010

Poco tempo fa, nella sua casa di Vittoria Apuana, mia cognata Anna Pucci mi ha fatto vedere il libretto scritto dalla maestra Maria Grazia Gasperetti, intitolato “Caleidoscopio”, edito dalla Ibskos, dedicato alla memoria di suo padre, il professor Vincenzo Gasperetti, fucilato a Milano dai partigiani il 28 aprile 1945.
Dopo un primo sguardo l’ho letto tutto d’un fiato ed ora eccomi ad esprimere ciò che ha scosso di più la mia sensibilità, mentre leggevo quelle bellissime pagine: l’amore infinito di una figlia verso il proprio padre e l’immenso dolore che con la fine violenta del genitore colpì sia lei che i suoi cinque fratelli, già orfani della madre.
Sono struggenti e lancinanti i ricordi di Maria Grazia Gasperetti, scritti con una prosa eccezionale ed anche in versi poetici di grande rilievo, il tutto arricchito da pregevoli lavori pittorici della stessa Autrice.
Ho trovato molto bello il suo libretto, che mi ha fatto rivedere la Corvaia antica e suggestiva, con le sue vecchie case aggrappate alle rocce del monte, coi suoi giardini e gli orti che impreziosivano il paesino, prima che fosse fatto saltare in aria dai Tedeschi nel 1944.
Quand’ero ragazzo vidi tante volte passare, lungo la strada del Ponticello di Seravezza, un giovane abitante in una delle prime case del monte Canala, con dei libri sotto il braccio. Andava e veniva dalla casa di Corvaia del professore Gasperetti, ch’era solito impartire gratuitamente lezioni private ai giovani di famiglie bisognose, i quali, soltanto così potevano prepararsi a sostenere esami importanti per il loro avvenire, a cominciare da quello per conseguire il diploma di maestro.
Ancor prima di leggere il lavoro di Maria Grazia Gasperetti, sapevo già tante cose importanti su suo padre, avendole apprese dai libri di storia della Versilia, scritti dal nostro direttore Giorgio Giannelli.
Vincenzo Gasperetti fu un fascista “sui generis”. Non si contano gli episodi che lo videro, incredibile a dirsi, arrivare a proteggere gli antifascisti locali, quando nei primi anni 20, fu Segretario del Fascio di Seravezza. Una sera, quando seppe che in una trattoria del paese si erano radunati alcuni di essi per festeggiare clandestinamente il 1° Maggio, non soltanto disse ai propri uomini (che avevano circondato l’edificio) di ritornare a casa in quanto quella faccenda se la sarebbe sbrigata da solo, ma finì per rimanere a mangiare coi suoi avversari, che certamente stimava, anche se di diverso credo politico. E che dire, allorché terminata la “festa” quelle persone vollero accompagnare, a braccetto, il professore fino alla sua abitazione cantando, tutti insieme a squarciagola, “Bandiera rossa...”.
Professore di lingue antiche e moderne e di lingue straniere, mutilato della I Guerra Mondiale, e Colonnello di carriera del Regio Esercito Italiano, con prestigiosi incarichi anche di partito, si batté a difesa dei nostri cavatori, non solo perché fosse ridotto il pesantissimo orario di lavoro, ma anche per un maggiore salario.
Seppe dire “No!” ad alti gerarchi del partito fascista; a Lucca prese a schiaffi il federale Scorza. Espulso dal partito nel 1924 vi fu riammesso nel 1937, dopo ben tredici anni di emarginazione, riprendendo l’attività in seno allo stesso soltanto nel 1940.
Nei libri di Giorgio Giannelli ci sono anche delle pagine che parlano dell’attività del professor Gasperetti nei confronti dei partigiani versiliesi, dalle quali non mi pare che emergano elementi che evidenzino particolarmente una sua feroce e sanguinaria persecuzione nei confronti degli stessi.
Pagò con la vita il fatto di essere stato P.M. presso il Tribunale straordinario costituito a Massa durante l’occupazione tedesca, ma “ se fosse rimasto in Versilia, sarebbe sempre vivo” ebbe a dire, nell’immediato dopoguerra, il comandante partigiano suo compaesano, Aurelio Tonini.
Sulle spoglie del padre, la figlia ha scritto che: “...il corpo non fu mai ritrovato, perché gli furono strappati i gradi e tolti gli effetti personali a lui tanto cari: una catenina e un orologio d’oro...venne fucilato e gettato in fosse comuni; il tutto dopo un processo sommario ed inesistente, a seguito di accuse quanto mai infondate”.

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Ma la tragedia della famiglia Gasperetti non fini lì. Il figlio più grande rimase detenuto per 10 mesi, nel carcere milanese di S. Vittore, solo perché stava col padre, nel periodo in cui il genitore lo preparava a sostenere l’esame di maturità; una detenzione crudele, senza alcuna ragione.
Anch’io credo che il nome del Gasperetti avrebbe dovuto essere annotato sul monumento ai Caduti di Corvaia, eretto a spese della famiglia Ferrari Niccolina, dopo oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma così non è stato fatto, perché una persona l’ha impedito. Perché, mi domando? Sì, le vorrei conoscere le motivazioni di questa inaccettabile esclusione, volta soltanto a fermare quel processo di pace mirante alla concordia ed alla ritrovata fratellanza fra gli uomini.
Fra le persone ricordate da Maria Grazia Gasperetti c’è anche Carmeluccio, un anziano del paese con la barba sempre lunga, che spesso anch’io vidi nelle strade di Corvaia. Lo ricordo molto bene Carmeluccio (sposato con una donna sud americana conosciuta quando emigrò in Brasile e che poi portò in Corvaia), anche lui vittima innocente della guerra, in quanto fu ucciso con un colpo di fucile sparato da un soldato tedesco nell’ agosto- settembre 1944, mentre, per togliersi la fame, tentava di raggiungere le piante di fico del Can Bianco.
Personalmente sono contrario a qualsiasi ideologia che porta gli uomini a scontrarsi violentemente ed a uccidersi fra di loro. Nato figlio della Lupa e quindi appartenente alla generazione “dell’uomo nuovo” con cui il Duce intendeva fascistizzare integralmente i nuovi nati durante il regime
fascista, dopo l’8 settembre del 1943, anch’io e tutta la mia classe , si seppe dire: “No!” a chi voleva che tutti noi alunni della II/B dell’Avviamento professionale al lavoro di Seravezza ci iscrivessimo al rifondato P.R.F..
Sono davvero commoventi queste pagine stupende che Maria Grazia Gasperetti ha affidato al vento per farle arrivare lassù nel cielo, dove riposa l’anima del suo “caro Babbo”.
1930 Al mare di Forte dei marmi

Ogni tanto a mmi pa’ durante la su vita, piacea riccordà i ggiorni in cui mi portaa al mare a Forte dei Marmi, sul seggiolino che avea misso su la canna de la bicicrétta.
Doveo esse pròpio cicchinino cicchinino, perchè di que’ momenti nulla è rrimasto impresso ne la mi memoria.
Lu, invece, ‘n avea mai dimenticato quélo che gli avea ditto ‘n ricco signore, ‘n furèsto, che vedendomi giocà su l’arenile con mi pa', un fenìa mai di fagli ‘ ccomplimenti: “ Quanto è bello questo bambino...è bellissimo...”, continuava a dì. “Avei anco i rriccioli”, precisaa mi pa’ tutto contento, “...e cquel furastiéro dèra disposto a ddammi tanti quadrini per té...insomma ti volea comprà!”.
Ho sempre penso a quanto fusse esagerato nel parlà di quel fatto che un giorno lo vòlse anco riccontà a la mi fidanzata, convinto che le facesse piacè.
Un ho mai scòrdo, invece, ‘ ppoghi giorni trascorsi su la spiaggia di Forte dei Marmi, quando aveo sei o ssette anni. Dèrino i ttempi ‘n cui mi pa’, sùbbito doppo la conquista de l’Impero, avvenuta nel 1936, dèra ito, insieme a altri cavatori di Seravezza, a llaborà ‘n Etiopia, a la dipendenza d’una ditta che dovea costruì lunghe strade ne l’ immenso teritorio del pòvero paese affricano.
Dèra contenta mi mà d’andà su la spiaggia di Forte dei Marmi, perchè a Seravè si sentia ‘na fagónga, sìe ‘n caldo soffocante che a ogni estate, quando s’entraa ne solleoni, ci faceà sempre patì. Ne l’occasione, m’avea compro un completino bianco che incignai il primo giorno che andémmo al mare. Lo ricordo bene quel bel vestitino perchè lo insudiciai sùbbito di morca, Accadette la sera, quando, nel ritornà a ccasa salitti un attimo su ‘n vagone lasciato lungo i bbinari, davanti al pontile. E ssi che mi mà m’avea misso in guardia: ”Dammi la manina...stai accanto a mme...un salì sul vagone...”, ma io che un èro un angioletto, un le detti retta. Povera mà, ma perchè un t’ascoltai?
Con mi mà e ‘l mi fratello più piccolo, si arivaa al mare a ppiedi e ssiccome di soldi in casa ce n’erino poghi, si fenia sotto il ponte di legno, duve si stacéa ‘n compagnia di tanta altra gente che, come no, un si podéa permette di prende ‘na gabina con l’ombrellone di uno dei tanti attrezzati bagni già esistenti lungo l’arenile, tanti de’ quali frequentati da famosi calciatori, attori, gerarchi del regime, scrittori, pittori ecc.ecc., sìe da persone illustri che ora chiamino Vip.
No bimbi si giocaa a ffa le buche, pesci e sstelle marine con appositi stampetti di metallo, a ccostruì castelli con la rena bagnata e ppiste per facci rotolà vetroline e palline; tutte cose che venghino fatte ancòra oggi.
I ggiovanòtti si tuffavino fra i ppali di legno per staccà le cozze che crescevino spontaneamente sugli stessi. Le acque und’ èrino inquinate e cquindi un c’era alcun pericolo che ‘ ffrutti di mare facessino male. Alcuni òmeni, a ppoghi metri da la battigia, andavino in su e ggiù a ppescà arselle col colino. Staceino ne l’acqua per molto tempo, così, per evità che la corda dell’attrezzo che teneino allacciata a lla vita un gli facesse male, si metteino addosso de le vecchie giubbe.
A mmeggiogiorno s’andaa a mmangià in pineta ‘l cibo che mi mà avea preparato la sera prima: pasta al sugo, polpette di patate con il peporino e ffrutta; ‘n si stacéa male. Le polpette dèrino appetitose perché aveino un sapore tutto particolare, lo stesso che mi par di sentì anco in quéle che cucina la mi moglie, seravezzina “doc” come mi mà. La sera, prima di ritornà a ccasa, nostra mà compraa, a mme e al mi fratello, un becchiére d’acqua che una vecchietta, con un carettino, vendea vicino al fortino. Che emozione ho provato nel rivedè l’ immagine de l’anziana donna, detta la “Lorè de l’acquetta”, su ‘na fotografia de l’epoca, scattata in compagnia de la su’ nipote, e rriprodotta nel libro “La Versilia rivendica l’Impero” di Giorgio Giannelli. Devo dì che un ho più bébuto un’acqua così bóna che venia preparata con l’aggiunta di succo di limone, anice e gghiaccio.
Fu dal pontile del Forte che ammirai, per la prima volta, ‘na regata velica. C’èrino tante persone a gguardà, co’ bbinocoli e ccannocchiali, le barche con le vele bianche. Parea che volassino su la granda superficie d’acqua increspata dal vento. Che spettacolo!
Col passà degli anni, il paesaggio di Forte dei Marmi degli Anni 30 dè mmolto cambiato. Il ponte di legno, dube attraccaino i vvelieri che doveino portà nel mondo il nostro marmo, fu fatto saltà in aria dai tedeschi nel 1944. Dal dopoguerra ‘n c’èno più i nnumerosi depositi di marmo che aveo visto da bimbetto fino a ppoghi metri, sia dal fortino ch’è ancora lì intatto, sia dal mare, una zona animata da un continuo andirivieni di òmeni, di carrimatti ed anco più grossi, trainati da possenti bovi, di membrucche e di vagoni carichi di marmi de la tranvia de l’ Alta Versilia,
C’era vitalità e vvoglia di cresce al Forte, abitato, in maggioranza, da gente che provenia dai monti de la nostra Versilia, quindi abbituàta a ddure fatighe.
Chi come me, tantissimi anni fa, ha caminato lungo le stradine del Forte duve c’èrino poghe botteghe, ora stenta a rriconosce la nostra bela marina, così piena di lussuosi negozi d’ogni genere e ggremita sempre da ‘na moltitudine di villeggianti.
Stó per conclude il riccònto. I mmi occhi si chiudino e ccosì vedo ‘n gruppo di sirene che notàno e stanno distese su questo incantevole arenile, mentre aguile reali e altri uccelli rapaci volteggino sóbbre i gghiacciai de’ nostri monti...ma siemo ritorni a l’antichità? No! Dè solo ‘n sogno!
1944 -UN SOLDATO TEDESCO UCCISE UNA DONNA PER IMPOSSESSARSI DELLA SUA BICICLETTA

Anco mi pá durante la tragica estate del 1944 che sconvolse la nossa tera di Versilia, laborò a la dipendenza de la famosa organizzazione tedesca Todt che eseguì da nò le opere di fortificazione de la linea Gotica. Nel mese d’ogosto e fino ai primi di settembre di quél’anno, partecipò a lla costruzione di trincee e camminamenti ne la zona costiera aldilà del Cinquale, ’nsieme a circa dumila altri sventurati che aveino scelto di svolge quel labóro, diciemo “coatto” pur di rimanè sùi nostri monti e nun sfollà a Sala Baganza. D’altronde con quattro figlióli cicchini e lla nò materna che un risciva a ccaminà perché aveva ‘na caviglia gonfia per la quale nun s’era mai fatta curà, per i mii genitori déra un dramma mettisi ’n giro per arivà nel parmense, quindi mi pá preferì attende gli sviluppi de la situazione ne’ nòssi rifugi, prima vicino al monte Canala e pòe a Giustagnana, anco se lassù si pativa la fame e si viveva ’n condizioni ambientali al limite de la sopravvivenza.
Quando ritornò la sera a casa dopo ’l su’ primo giorno di labóro, lo sentitti dì a mi ma che déra rimasto sorpreso nel vedé ’n mezzo a tutti quegli òmeni du’ illustri personaggi di Seravezza: ’l dottor Tonini, medico de l’ospidale Campana, e l’avvocato Poli. Mi pá, òmo forte e ribusto, che a ssei anni già labórava ne la vigna e da giovenòtto iniziò ’l durissimo mestiere di cavatore, e quindi déra abituato a grosse fatiche, capitte la situazione che vissero i ddu’ colti òmeni seravezzini che nun si sottraevano a caricassi su le loro spalle grossi tronchi d’albero che venivino utilizzati ne la costruzione de le difese. Deve al su’ intuito se evitò d’ esse deportato ’n Germania. Ai primi di settembre notò un movimento insolito ne’ cantieri. Riuscì a ssapè che l’indomani sirebbino stati trasportati ’n altre località a bbordo d’autocarri, così ’l giorno dóppo, d’istinto, nun indétte più a llabórà. Prese questa decisione anco dóppo avè visto uccide, pròbbio ne la su ùtima giornata di labóro, ’na giovane donna, vittima de la ferocia d’un soldato tedesco che voléa impadronissi de la su bicicrétta. La scena si svolgette al bivio d’una strada sterrata ne la zona del lago di Porta, che mi pá conoscea molto bene perché ci andaa a pescà da ragà quando abitava su ne lo Strinato. Li c’erino du’ soldati di sentinella. Mentre s’avvicinava a loro, vidde che uno di essi tentaa di strappà da le mane de la donna appunto la su bicicrétta. Lé nun avea alcuna intenzione di lasciargliela, tant’è che fra i ddu’ ci fu ’n tira e mmolla. A ’n certo punto ’l soldato ’mpugnò la pistola e le sparò contro du’ colpi a lla testa. La poveretta cadde a téra fulminata, mentre ’na pozza di sangue s’ allargaa ’ntorno al su’ corpo. Mi pá ormai avvicinatisi al lógo del delitto e ’n preda a la pagura nun sapéa che fà. Pensò: “Vado avanti oppure ritorno addietro a ggambe levate?”. Proseguì il camino convinto che anco lu, testimone involontario de l’assassinio, sirebbe stato ammazzato. Aspettaa che gli sparassero, ma quando passò accanto al cadavere de la donna, i ddu’ soldati tedeschi nemmeno lo guardonno. Ritornò sano e salvo a Giustagnana, ma quéla scena un l’ha mai dimenticata; l’ha raccontò anco dóppo cinquantatrè anni, qualche tempo prima di morì. Veddè ammazza da un soldato tedesco ’na donna per rubagli la bicicrétta fu sconvolgente per mi pà che nun potette fa pròbbio nulla per tentà di salvalla. Erino giorni ’n cui tanta altra gente venia uccisa qua a là in continuazione. L’odio per la pacifica e laboriosa popolazione versiliese culminò con la spaventosa strage di S.Anna, nel corso de la quale vensero barbaramente trucidati 560 creature, fa donne, vecchi e bambini.

martedì 22 giugno 2010

E' una data funesta. L'Italia entra in guerra a fianco della Germania nazista.

10 giugno 1940 –

Ho sempre vivo nel mio cuore quel giorno in cui i nostri insegnanti radunarono tutta la loro scolaresca perché ascoltasse inquadrata il discorso, che fu pronunciato a Roma dal balcone di palazzo Venezia dal capo del governo Benito Mussolini, diffuso dagli altoparlani installati nel cortile. Confesso che non partecipai con calore a questo raduno. Le parole del Duce in merito alla guerra che dichiarò alla Inghilterra ed alla Francia non riuscivo proprio a comprenderle. Avevo ancora nella mente alcuni sprazzi dei discorsi fatti dagli adulti durante la conquista dell'impero ed anche quelli riferibili alla guerra civile di Spagna, durante la quale ci furono molti morti da ambo le parti e cumuli enorni di macerie. Ricordo che tutti noi alunni fummo continuamente, spronati, se ben ricordo, dai nostri maestri, ad applaudire quel discorso che coinvolse la nostra nazione nello spaventoso secondo conflitto mondiale. Mussolini veniva interrotto da scroscianti applausi del popolo fascista che gremiva la piazza. Con otto milioni di baionette la guerra pareva già vinta, alla luce anche delle vittorie dei soldati tedeschi su ogni fronte. Nessuno pensava all'esito disastroso che segnò la fine di questa guerra, che con l'aiuto degli eserciti alleati e dei partigiani, la nostra Patria alla fine riconquistò la libertà. Subito furono emanate disposizioni per l'oscuramente. Mio padre tinse con vernice scura alcuni vetri delle finestre della nostra casa.Poi si arrivò al razionamento del pane e di altri generi alimentari. Il mio babbo che allora lavorava su una cava del Trambiserra, tutte le mattine si recava alla vicina bottega di Riomagno ( piccolo borgo di case), per prendere il pane. Prima di uscire di casa lo tagliava a fette,e dopo avervi cosparso sopra la marmellata le distribuiva sia a me che ai miei due fratelli più piccoli; la quarta figlia doveva
ancora nascere, Così consumata subito la nostra razione, in casa non avevamo più niente da mangiare.Incominciammo a patire la fame ed a tirare il cinturino. Pareva di essere colpiti da una agonia lenta, tanto da farci sentire che si stava per morire. Un giorno sentendo molta fame mi misi in bocca alcun bucce di una arancia che raccolsi nella strada polverosa. Più di una volta mi nutrivo con torsoli di cavolo. Intanto tanti giovani versiliesi, soldati, marinai e aviatori, furono inviati a combattere su ogni fronte. in Africa, in Libia, sul fronte Greco Albanese ed in Russia. Sul mare, nel cielo e dovunque combatterono dimostrarono di avere un altissimo senso del dovere.Molti caddero sui campi di battaglia lasciando nel dolore i genitori e le giovani spose e piccoli figli, taluni dei neppure mai visti. Le pagine stupende scritte col sangue dai soldati d' Italia, in particolare ad EllAlamein ed a difesa del fortino di Giarabub, seppero allora riempire di orgoglio i nostri cuori di ragazzi tanto da farci pensare di emulare le loro gesta. A noi balilla, con la fame in corpo, spesso ci facevano cantare canzoni di guerra che parlavano del valore dei nostri soldati. “Vincere e vinceremo in cielo, in terra e mare...; partono i sommergibili, rapidi ed invisibili...; a primavera si riapre la partita...”. Ma la canzone che mi fece anche piangere fu quella relativa alla storia riguardante la difesa del fortino di Giarabub, già accennato in precedenza, i cui soldati avevano fame e sete ma non chiedevano né pane né acqua. Volevano dal loro comandate, colonnello Castagna, soltanto il piombo per i loro moschetti. La guerra che per anni ci appariva lontana dalla terra in cui sono nato, dopo le sconfitte subite ovunque, sul finire arrivò ad essere combattuta, dal settembre 1944 e fino all'aprile del 1945, anche in Versilia, considerata l'estremo limite della Linea Gotica. Prima dell'arrivo degli americani, degli inglesi e dei soldati brasiliani, il popolo versiliese soffri incredibili e dolorosi eventi connessi allo sfollamento ordinato dai tedeschi, alla distruzione di centri abitati fatti saltare in aria dai tedeschi durante la fortificazione della Linea Gotica, ed al continuo patimento estremo della fame, fino ad arrivare ad essere vittima della orrenda strage degli innocenti commessa dalle SS tedesche il 12. agosto 1944 a S.Anna di Stazzema, località dell'alta Versilia, durante la quale furono massacrati e bruciate 560 creature umane, tra le quali 120 bambini e bambine, la più piccina delle quali aveva appena 20 giorni.

lunedì 21 giugno 2010

L’otto settembre nei ricordi di un ragazzo (capitolo 2)

Il pomeriggio dell’otto settembre 1943 stavo percorrendo a piedi l’ultimo tratto di strada che dall'antica Corvaia, rasa al suolo dai tedeschi nell'estate del 1944, conduceva a Seravezza (Lu). Provenivo da Querceta dove mi aveva mandato la mia nonna materna per chiedere a sua sorella Marietta, proprietaria di un forno, se poteva mandarle un pezzetto di pane, un po’ di farina ed una cartata di carbonella. Dello sfilatino di pane che ricevetti me ne rimase solo un cantuccio; quello che mancava l’avevo mangiato io, per la fame che sentii strada facendo. Stavo attraversando il ponte di Pratale quando, in lontananza, vidi un uomo di Corvaia, un ex carabiniere, venire verso di me correndo. Più che correre mi sembrava che stesse ballando. Si ballava, correva e urlava: “Ė finita la guerra! Ė finita la guerra!” Nell’udire una notizia del genere anch’io iniziai a correre giungendo in pochi minuti nel centro del paese. Lì mi fermai davanti al bar trattoria di Poldino dove si erano radunate molte persone per ascoltare il proclama di Badoglio che veniva trasmesso in continuazione dall’ EIAR (Ente italiano per le audizioni radiofoniche). Questa notizia fu, al primo ascolto, accolta con gioia, anche se subito dopo affiorarono i primi dubbi sulla cessazione effettiva del conflitto. “Cosa faranno i tedeschi, fino ad ora nostri alleati?”. Ecco l’interrogativo che si posero tanti uomini animati da buon senso.

L’indomani si diffuse la notizia che nell’oliveto di Mignano, poco distante da Ripa, si era accampato un reparto di soldati tedeschi. Con altri ragazzi della via in cui abitavo raggiunsi in pochi minuti detta località. Mentre correvamo si intonò l’inno “Fratelli d’ Italia”. Sì, noi piccoli ragazzi sentivamo forte l’amore verso la Patria. Appena giunti sul posto la prima cosa che mi colpì fu la constatazione che i giovani soldati tedeschi, molti dei quali stavano a torso nudo, erano ben nutriti, si presentavano bene in carne. Pensai che il cibo ad essi non fosse mai mancato, a differenza nostra. Sotto una grande tenda vidi apparecchi radio che irradiavano in continuazione i segnali dell’alfabeto Morse. In mezzo agli olivi si intravedevano dei grossi carri armati. Tra i soldati ci fu uno scambio di parole; questi ultimi rispondevano sorridendo, anche se era difficili capirli non conoscendo la loro lingua. Il clima mi sembrò sereno e disteso; nulla lasciava presagire reazioni violente contro i nostri soldati, né tanto meno nei confronti della popolazione. Nei giorni successivi molti soldati allo sbando del Regio Esercito Italiano comparvero anche nelle vie di Seravezza, con indosso ancora la divisa militare. Ricordo due di essi quando entrarono in una casa di un mio vicino per uscirne poco dopo vestendo abiti borghesi. Al calcio di un arancio vidi le giberne che si erano tolte; essi proseguirono il cammino per raggiungere le loro case. La guerra purtroppo, non era ancora finita.
Otto settembre 1943
(primo capitolo)

L’Italia firma l’armistizio ma precipita nel caos


Nel pomeriggio dell’otto settembre 1943 gli italiani che di nascosto si erano sintonizzati su Radio Algeri ascoltarono, tra non pochi disturbi, il seguente comunicato: “The Italian Government has surrendered its Armed Forces unconditionally” (Il governo italiano ha ordinato alle sue forze armate d’arrendersi senza condizioni). Dopo circa tre quarti d’ora, l‘EIAR (ente italiano per le audizioni radiofoniche) inizia a trasmettere ripetutamente la notizia dell’armistizio proclamato dal Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, succeduto al Cav. Benito Mussolini dopo il 25 luglio. “Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhover, comandante in capo delle forze angloamericane. La richiesta è stata accolta; conseguentemente ogni atto d’ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

Il proclama alla nazione, specificatamente nella sua parte finale non fu chiaro. Quali erano gli eventuali attacchi ai quali i soldati dovevano reagire? Perché non ordinare subito ai soldati italiani di respingere con le armi la prevedibile violenta reazione tedesca, così facendo tante orribili sventure non sarebbero accadute, tante umiliazioni sarebbero state evitate e migliaia e migliaia di uomini non sarebbero morti. Badoglio non valutò il fatto, che pure doveva conoscere, che nei quarantacinque giorni precedenti l’armistizio (firmato a Cassibile il 3 settembre), nel nostro territorio erano affluite quindici grandi unità tedesche, provenienti, in fretta e furia, dal Brennero, dalla Francia e dalla Jugoslavia, con il compito di imbottigliare tutte le divisioni italiane, comprese quelle dislocate in Corsica ed in Sardegna.

L’otto settembre 1943 fu vissuta una grande e breve illusione che coinvolse tutto il popolo italiano che, dopo la diffusione di questo proclama, scese nelle vie e nelle piazze urlando: “La guerra è finita! La guerra è finita!”. Anche i soldati tedeschi che si trovavano in un bar di Forte dei Marmi b per sorseggiare alcune bibite, colti di sorpresa da questa notizia, si unirono al coro. Saltando dalla gioia, abbracciarono e baciarono tutti i festanti, urlando anch’essi: “Guerra finita! Andare tutti a casa! Mamma , figli…”.
In quel bailamme non mancarono uomini che subito avvertirono che il conflitto non era affatto terminato, ma che il peggio doveva ancora venire. Essi compresero che alle divisioni tedesche non sarebbe stato impartito l’ordine di tornare indietro. Ci fu chi pensò che Hitler non avrebbe perdonato questo tradimento. Fare l’armistizio poteva andare bene, ma “schierarsi dall’altra parte è una vergogna”, questo fu il pensiero di tanti italiani. Infatti i tedeschi non fecero marcia indietro e tanto meno stettero a guardare. Essi mirarono a disarmare e fare prigionieri i nostri soldati ormai ridotti allo sbando, senza piani di difesa né ordini. Molti si diedero alla fuga dopo aver abbandonato le armi. Aiutati dalla gente che non esitò a dare loro del cibo, piccole somme di denaro ed abiti civili da indossare in sostituzione della divisa di cui si erano spogliati, proseguirono il cammino nella speranza di fare ritorno a casa. Nei giorni 9-11 settembre 1943 nella difesa di Roma, a Porta San Paolo, si distinsero i Granatieri che non esitarono a scontrarsi a fuoco con i soldati tedeschi; altri scontri cruenti avvennero a Cefalonia, dove migliaia di ufficiali e soldati italiani furono fucilatio per avere impugnato le armi contro di loro.Altri aspri combattimenti avvenenro a Lero e a Piombino ed in altre località.
A Cefalonia, l‘intera guarnigione italiana, che si era rifiutata di consegnare le armi ai tedeschi, ingaggiò contro di essi un’aspra battaglia che durò dal 14 al 22 settembre. Inascoltate furono le richieste di aiuto inviate dal generale Gandin al governo Badoglio, rifugiatosi a Brindisi subito dopo l’annuncio dell’armistizio. Quando i nostri soldati sopraffatti dalle soverchianti forze tedesche (che fecero arrivare 50 aerei Stukas specializzati in bombardamenti in picchiata) si arresero, iniziò contro di essi una barbara rappresaglia. Il bilancio di questa carneficina fu di 65 ufficiali e circa 1250 soldati morti in combattimento; 189 ufficiali e circa 5.000 soldati che si erano arresi, furono fucilati sul campo nelle 36 ore successive alla fine della battaglia; 136 ufficiali furono massacrati dal plotone di esecuzione in località “Casetta Rossa”; 3.000 uomini fatti prigionieri persero la vita in mare a seguito dell’affondamento delle navi sulle quali erano stati imbarcati, che andarono a schiantarsi contro le mine. Chi tentò di mantenersi a galla nuotando disperatamente fu ucciso dalle raffiche delle mitragliatrici tedesche. I primi ad essere fucilati furono il generale Gandin e gli ufficiali che avevano compiti di comando. In totale persero la vita 10.140 italiani, tra fanti, artiglieri, genieri, marinai, carabinieri e finanzieri. I loro cadaveri furono bruciati o gettati in mare. Fu a Cefalonia che iniziò la resistenza che si concluse a Milano il 25 aprile 1945.

L’otto settembre 1943 il re, il principe Umberto, i generali Badoglio, Roatta ed altri ufficiali superiori, abbandonarono Roma per raggiungere Ortona dove, saliti a bordo della corvetta Baionetta scortata dall’incrociatore Scipione l’Africano, raggiunsero Brindisi. La città pugliese era occupata dagli alleati, che nel frattempo erano sbarcati a Taranto e a Salerno. Si trattò di una fuga come tanti italiani sostennero, oppure di un abbandono dettato dalla necessità di salvare la corona, una tesi peraltro condivisa anche da autorevoli studiosi? Soltanto per dovere di cronaca, si deve dire che, a parere di milioni di italiani, tra i quali tutti i giovani di allora che avevano amato il re sui banchi di scuola per avere appreso dagli insegnanti che egli, durante la prima guerra mondiale, era spesso nelle trincee dei soldati, tanto da essere chiamato “il re soldato”, si trattò di una fuga, che destò un profondo dolore a tutto il popolo italiano. Il re aveva il dovere di rimanere alla testa del popolo, magari morire coi suoi soldati che mai dovevano essere abbandonati al loro destino.


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Homo Homini Lupus

L’uomo è un lupo per l’uomo: nonostante l’evoluzione in ogni campo del sapere, la specie umana continua a comportarsi, in molti casi, peggio delle bestie.

Tutti i giorni la cronaca nera dei mass media è piena di notizie criminali che fanno inorridire le coscienze di chi lavora, rispetta le leggi ed è desideroso di vivere in pace, non solo coi propri vicini di casa, ma con tutti i popoli del mondo. Dall’evoluzione dei primi ominidi che all’origine convivevano coi babbuini e le scimmie nell’Africa orientale, allìepoca dell’era risalente al cenozoico (quarta era geologica durata da 65 a 2 milioni di anni fa) si è passati all’homo erectus (uomo di Pechino) all’Homo sapiens neanderthalensis (uomo di Neanderthal) fino all’attuale Homo sapiens. In tutti questi milioni di anni trascorsi, l’uomo nel corso della sua evoluzione ne ha fatta di strada. Ha scoperto il fuoco, la ruota, partendo dalle caverne e dai primitivi villaggi su palafitte è arrivato a costruire grandissime città. Ha creato sublimi capolavori d’arte. E’ arrivato perfino a mettere i piedi sulla Luna, che nell’antichità era venerata come una divinità. Di fronte e a queste fantastiche scoperte, mi pare che abbia poco progredito per quanto attiene i rapporti coi propri simili. Sicuramente ha subito sconvolgenti mutamenti da quando, allo stato primordiale, viveva insieme agli altri animali e moriva con loro nelle stesse caverne africane, com’è stato possibile accertare dai fossili, mischiati a quelli dei babbuini, venuti alla luce nei primi decenni del Novecento in una cava di quel continente. A differenza delle bestie si è emancipato ed ha concretizzato molte idee estremamente utili per migliorare la vita dell’uomo, però da quando si è organizzato, dapprima in tribù e poi in strutture sempre più evolute, non ha mai smesso di combattere guerre contro i propri simili, sia per allargare i propri territori che per rubare le ricchezze altrui, considerate bottino di guerra. Ecco perché non mi piace la storia che ricorda re, imperatori e generali che hanno combattuto guerre sanguinose nel corso delle quali sono stati uccisi milioni e milioni di uomini. Spesso per sete di potere, l'uomo è arrivato anche a fomentare congiure di palazzo ed a scatenare guerre fratricide. E la lotta continua anche ai nostri giorni. In Afghanistan, in Pakistan in Iraq, continuano ad avvenire spaventose stragi di innocenti, i morti e feriti non si contano più. Ma dov’è finito lo spirito di fratellanza e di amore che dovrebbe cementificare i rapporti fra tutti gli uomini di buona volontà della Terra. In Palestina, dove nacque Gesù, tutti i giorni avvengono cruenti scontri tra palestini ed israeliani. C’è una nazione che pur facendo parte, con diritto di veto, delle Nazioni Unite nega i diritti umani che sono innati, inalienabili ed universali. Come può chi rinnega questi diritti continuare a fare parte delle Nazioni Unite? Urge quindi una radicale riforma strutturale delle Nazioni Unite per il ripristino della legalità.
La situazione politica italiana mi fa soffrire. Non mi piace constatare i continui insulti che vengono sono rivolti al Premier Silvio Berlusconi, perché offendono anche i tanti milioni di elettori che gli hanno dato il loro voto per poter guidare il governo della nostra nazione. Lo scontro deve avvenire sui programmi. Per il bene del Paese anche l'opposizione deve dare una mano per assicurare a tutti i cittadini, specie alle categorie più deboli, migliori condizioni di vita. Quando scese in politica e sconfisse la gioiosa macchina da guerra guidata da Occhetto, Berlusconi disse qual era il suo programma, che a me parve davvero eccezionale. Purtroppo il suo primo governo ebbe una vita breve.

domenica 20 giugno 2010

Ricordi che un si possino dimenticà.

“Il fóco è mmezzo pane!“; già dicéino pròpio così ’mmii genitori quand’ero cicchino, mentre tutta la famiglia si scaldaa, durante le fredde serate d’inverno degli anni ’30 e ’40, intorno al camino acceso e ccon la legna stiocchéttante che ssprigionaa banfate e faville in continuazione. Questo ritornello l’aveo sentuto dì tante volte, anco dai vecchietti che staceino néle piazze a ppiglià un popò di sole per riscaldassi. Erino ‘ttempi de la miseria nera per tanta gente de la Versilia, col freddo che ne la cattiva stagione facéa venì a nnò ragà ’ggeloni a le mane, mentre lo scolo de le acque piovane formaa, sotto le rocce del monte e de l’utima fila, in basso, delle canalétte dei tiétti, grossi candéli che pareino èsse di cristallo. A scola c’era chi portaa ‘l mattone riscaldato avvolto ind’un cencio e cchi de le stiampe secche per accende la stufa. Anco io da ragà sono ito, con altri batocchi, a rraccoglie banfùglieri e ttacche sui monti ’ntorno a Seravè, specie durante gli anni de la spaventosa guèra ’n cui le mi forze un erino molte per colpa de la fame che sentio tutti ‘ ggiorni forte forte. Un aveo sempre sentuto dì che “’l fóco era mezzo pane?” In verità gli stecchi che si raccoglevino erino spesso necessari per fa’ la polenta nel paiólo e anco ’mminestroni...affumicati, quando mancavino ’ssoldi per comprà ’l carbone per cóce ’ccibi sui fornelli, perché ne duvea passà del tempo prima d’avecci ‘l gasse néle bombole. Quando si usaa la legna per fa’ ’l mangià, ’mmuri de la mi’ cucina continuavino a annerì sempre di più, perché la sciamina un tiraa il fume, sicchè si dovea sempre aprì la fenestra per fallo uscì fòra. Allora trovà anco pòghi banfùglieri un dèra facile; ’bboschi venivino spesso tagliati per soddisfà ’bbisogni di legna dei fornai e ggnanco néle selve, che pareino èsse de’ giardini, si trovaa più nulla, perché ’ppropietari le pulivino bene per raccoglie le castagne, preziose come ‘l pane. Era sempre ‘no spettacolo vedè passà néle nostre strade baròcci carichi di fascine, con sóbbre ‘n òmo che parea asseduto sul trono, mentre stringea fra le mane le briglia del cavallo, del quale si risciva a vedè solo la testa e lle zampe. Il baròcciante d’istate tenea sula testa un cappello di paglia che, néla stagione invernale, sostituiva con ‘n cappellaccio tondo. Chi ce la facéa a ssalì néle zone più èlte dei monti, caminando lungo dificili sentieri tracciati anco fra ‘ rravaneti, podea portà a ccasa, sule curve spalle, grossi fasci di legna secca. Fra questi òmeni forti e vvigorosi c’era anco mi’ pà; é così che la mi’ famiglia podette riscaldàssi per tanti inverni. Nó ragà di legna ne raccoglievimo pòga; un fascetto piccolo piccolo, paragonabile a cquélo che si preparaa per la “Befana“, perché un aveimo la forza e nnemmeno l’esperienza degli òmeni grandi per arrampicassi su ’ mmonti più impervi. In que’ giorni òmeni e ddonne difendevino a ddenti stretti sia gli stecchi dei propi boschi sia le castagne, che nó ragà più grandicelli tentavimo di raccoglie, dato che erimo più affamati degli scoiattoli. Negli anni de la guèra, un òmo del mi’ paese, picchiò un ragà che avea sorpreso nel propio bosco, mentre con un seguretto ne la mana, stacéa a ttaglià degli arbustelli, qualcuno anco secco, in compagnia di un su’ amico più piccolo. Mentre quest’ultimo riscitte a ffuggì, perché si trovaa a una diéggina di metri più sóbbre del su’ compagno, l’altro si trovò improvvisamente addosso ‘l padrone e ‘ ssui figlioli che lo seguivino, senza così avecci alcuna via di scampo. Inferocito, l’òmo gli tolse ‘ l seguretto e ssupito si scagliò contro di lu’, pigliandolo a sstiaffi e anco a ppugni. Una gragnola di colpi arrivonno sula testa, sul viso e sule spalle del ragà, che con le mane tentava di riparassi da le botte. Picchiaa e gridaa: “Chi t’ha datto l’ordine di taglià le piante del mi’ bosco? Come ti sei permesso d’entracci...guai a tè se rimetti ‘ppiedi quiccosì...” e ggiù ancora colpi. Nemmeno ‘ ssui figlioli ebbero compassione per lo sfortunato coetaneo. Anch’essi funno spietati incitando ‘l genitore: “Dagliene ancora babbo, dai... dai...più forte...”. L’òmo smise di picchià quando s’accorse che ‘l ragà era giunto al limite de la sopportazione; altri colpi gli averebbero fatto perde ‘ ssensi. “Vai via!, Via! Via! “, gridò a la fine l’òmo, mentre tentò di dagli un calcio nel sedere. Il ragà s’allontanò barcollante, e ssùpito scomparì tra ‘ cespugli del monte. Mentre scendea, con la bile in bocca, a un tratto sentì ‘l bisogno di riprende fiato. Distesosi per tèra, girò ‘ ssui occhi pieni di lagrime verso il célo tinto d’azuro.
A que’ tempi un c’era amore fra nó. La carità un si vedea in giro; Gesù era morto da guasi dumila anni. Altri episodi di granda violenza contro ’ rragà accadevino in quéla epoca, forse per colpa de la fame che fé perde a ttanta gente l’uso del cervello. Ricordo quel giorno ‘n cui andetti a le castagne sul monte Altissimo, supito dóppo la salita del ponte di Rimone; erimo in quattro o ccinque de la mi’ età. Un appena s’uscitte da la strada e s’entrò ne la prima selva, ‘na donna di Seravé , che ‘n era gnanco la padrona, ci tirò addosso un mucchio di sassi grossi. Funno le nostre gambe, allora scattanti, a evità il peggio: in poghi menuti ci si trovò ‘n fondo al fiume tutti sani e ssalvi. La scampammo propio bèla; qualcheduno di nó, senza avè avuto gnanco il tempo di mettisi ‘n bocca ‘na sola castagna, podéa fenì a l’ospidale se gli fùsse andata bene a un rimané stecchito sul colpo.
Ma ‘l péggio per nó batòcchi e pper tutta la gente de la Versilia dovea ancora arrivà. Del’alba dei giorni tragici de lo sfollamento e del crepitio de le armi che insaguinò per sette mesi la nostra tèra, già s’intravedeino ‘ pprimi bagliori.

Gesù rendimi meritevole del premio della vita eterna

“ Chi rotolerà il masso dell’ingresso del sepolcro?”. Così dicevano fra di loro Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salomé , quando per imbalsamare il corpo di Gesù, si recarono, di buon mattino, nel luogo dove era stato sepolto.

Grande fu la sorpresa delle donne allorché constatarono che il masso, che chiudeva l’ingresso del sepolcro, era stato già rotolato via e che all’interno non c’era più il corpo di Gesù, ma un giovane, con indosso un abito bianco, che stava seduto sulla destra.

Questi, alle donne visibilmente impaurite, disse: ”Non abbiate paura. Voi cercate Gesù Nazareno, il Crocifisso? E’ risorto, non è più dove l’avevano deposto. Ora andate e dite ai suoi discepoli e a Pietro che Egli li precede in Galilea; là lo vedranno di nuovo come ha già detto a essi.”.

Le donne uscite dal sepolcro in preda allo spavento, fuggirono senza dire niente a nessuno.
oooo

Gesù è risorto. Questo miracolo della “Fede”, avvenuto oltre duemila anni fa, ha conservato tutti i suoi valori.
La vita, la morte e la risurrezione del Salvatore, debbono richiamare alla mente di tutti gli uomini di buona volontà, quanto sia di fondamentale importanza osservare gli insegnamenti di Gesù perché nel mondo del nostro tempo, dilaniato da guerre fratricide, dalla droga che uccide, dalla criminalità, dalle violenze di ogni genere anche nei confronti di minori, dalla dilagante prostituzione, dalla miseria, dalla disoccupazione e dai problemi connessi a larghe masse di emigrati onesti, che cercano, al di fuori delle loro povere ed affamate nazioni, migliori condizioni di vita, prevalga l’amore, la concordia, una più equa distribuzione della ricchezza, lo spirito della solidarietà e quello della carità.
Queste sono le cose importanti a cui ogni uomo deve mirare durante la sua breve vita terrena, perché tutti uniti, si possa costruire un mondo migliore, senza distinzioni di razze e di censo, secondo il disegno di Colui che ci ha creato.

Oh! Signore, fammi ritrovare la “Fede” che ho sentito venire meno durante il lungo tempo trascorso al capezzale di mio padre, afflitto da una grave malattia che lo ha condotto alla morte fra atroci sofferenze; perdona i miei peccati e fammi essere sempre buono, perché quando anche il mio cuore cesserà di battere, possa vedere la luce del Tuo Cielo.

Oh! Signore, ascoltami; rendimi meritevole del premio della vita eterna.

Renato Sacchelli