giovedì 28 gennaio 2010

Dopo 66 anni ho rivisto quell'angelo biondo

Gentile signora Alexandra,
sono lieto di poter comunicare con Lei, che ha fatto riapparire alla luce della mia memoria vicende, dolorosissime, vissute nel lontano 1944, quando fu uccisa la vostra cara Luciana. Il mio racconto lo scrissi nei primi anni '80.
E' sempre stato, fra i miei scritti, quello che più mi ha toccato il cuore. Ho scritto una quindicina di racconti di guerra di cui fui un testimone oculare. Col trascorrere del tempo sono divenuto una "memoria storica vivente" della Versilia. Con questa storia, da me raccontata, partecipai ad un concorso nazionale di letteratura che si svolse a Piombino nel 2009. Non vinsi alcun premio, mi venne concessa solo una menzione d'onore. Anche nel 2008 mi fu concessa una menzione d'onore per un altro racconto che riguardava la strage di Sant'Anna di Stazzema, in cui i tedeschi il 12 agosto 1944 uccisero barbaramente 560 creature umane, tra le quali centoventi bambini e bambine (la più piccola aveva appena 20 giorni). Nonostante questi insuccessi io non demordo e continuo a scrivere senza farmi tante illusioni. Quanto dovevo dire su l'Angelo Biondo l'ho detto. Non sono a conoscenza di altri dettagli interessanti da raccontare. Se avesse qualche notizia da darmi la pregherei di farmela sapere.
Intanto mi dica come si chiamano i genitori di Luciana e se ancora sono viventi.
Mio figlio, giornalista, mi ha detto che, su internet, ha scoperto che Lei fa la fotografa a New York. E' cosi? Nel marzo del 1904 sbarcò a New York mio nonno materno, Raffaello Binelli. Era la terza volta che raggiungeva l'America per lavorare. Un'altra storia da raccontare...

lunedì 25 gennaio 2010

A proposito dell'angelo biondo...

Messaggio per "Stargirl" e "Magnex".
Quella ragazza che fu martirizzata durante la tragica estate del 1944 dai soldati tedeschi (l'angelo biondo) la rivedo sempre davanti ai miei occhi, anche se sono trascorsi quasi 65 anni da quando fu uccisa. Seppi come si chiamava da Timante Iacopi, un uomo buono e mite che aveva letto e apprezzato il mio scritto dopo ch'era stato pubblicato, tanti anni fa, sul periodico mensile "Versilia Oggi". Timante, col quale ebbi modo di conversare più di una volta nelle vie di Seravezza, mi disse che si trattava di sua cugina, di nome Luciana.
Mi spiace di non aver risposto subito ai vostri messaggi, ciò è dovuto ad alcuni problemi tecnici e, lo ammetto, al fatto che non so usare molto bene il computer. Non dovete ringraziarmi per ciò che ho scritto. Mi piacerebbe sapere come sta il fratello di Luciana. Fu mio compagno all'Avviamento di Seravezza. Colgo l'occasione per formularvi i miei auguri per un felice anno. Cordiali saluti, Renato Sacchelli

venerdì 8 gennaio 2010

Anni disperati

Negli anni tribbolati
quaranta - quarantatrè
a nó ragà, a sscola,
ci faceino cantà
“ Vincere e vinceremo...”.
E mmentre in Affrica, in Grecia
e sul fronte russo
morivino i nnostri soldati,
c’era chi si accorgea
che qualcheduno dei batocchi
dèrino stonati.
In quegli anni disperati
sentii anco i llamenti
di vecchi malati e affamati,
come la mi’ nò poverina
che un si podéa più ingegnà
perchè un ce la facea a ccaminà.
Così ogni tanto mi dicea:
“ Mi ci vai a Guerceta
da la mi’ sorella, a dille
se mi póle mandà uno sfilatino,
un popò di farina
e una cartata di bragina ”.
Io un ci voléo andà.
Un mi garbaa stende la mana
e che fadiga quando ci andao.
Fu in quel forno profumato
che un giorni mi vènse il desiderio
d’imparà a ffa il pane,
così pensai, un patiscio
più la fame.
Nel rivenì la sera a ccasa
un lo voléo propio toccà
quel crocchente sfilatino,
“ Ne mangio solo un pezzettino!”:
Invece, come fa l’ugelletto
moveo sempre il becco,
e quanto a Seravè ritornao,
del pane che m’aveino datto
rimanea solo un cantuccio
tutto sbrigiolato.

giovedì 7 gennaio 2010

Sfollamento

Quando la mi famiglia ne l’istate del 44 sfollò da Seravezza e andò a rrifugiassi ind’un metato di proprietà d’un fratello di mi pá, sito ’n mezzo a ccastagni tra il Pelliccino e il Colle, a cqualche centinaia di metri sotto ’l crinale del monte di Ripa, l’unica cosa che lassù avea in abbondanza dèra l’acqua che sgorgaa con forza da la sorgente sottostante, esistente a ppòghi metri dal nosso rifugio, che tuttora alimenta la fontana di Rimagno.
Tutti i ggiorni andao a bbébe quel’ acqua bibola freschissima e spumeggiante. Ricordo che mi diacciavino i ddenti quanto mi dissetao, provando anco un temporaneo ristoro alla calura di que’ giorni, mentre ’l forte getto d’acqua mi bagnaa il viso.

Se l’acqua nun ci mancaa, di contro ’l cibo dèra insufficiente ai nossi bisogni giornalieri. Nun voglio stancà chi mi legge se ancora ’na volta scrivo che allora tutta la mi famiglia si nutriva con patatini bolliti, qualche farinata di grano cotta ne l’acqua, con fogacette
qualcuna anco di sola crusca e poghi sorsi di latte di pecora che mi má avea da i ssu cognati proprietari d’un piccolo gregge. Meno male che le condizioni di salute di tutti nò dérino ottime. Durante i lunghi mesi de lo sfollamento nimo accusò alcun disturbo; si pativa solo la fame!

Quando i tedeschi ci fénno allontanà in quattro e quattrotto da quéla località duve aveino costruito, molte fortificazioni, dinanzi a le quali l’avanzata de le truppe anglo – mericane fu fermata per sette mesi, la mi famiglia fenì a Giustagnana, duve trascorsi i più miserevoli e brutti giorni de la mi vita di ragà, resi più duri da la fame da morì che nun mi passava mai.
A Giustagnana si andaa a prende l’acqua ind’una fontanella che c’era lungo la mulattiera a qualche decina di metri sóbbre la chiése. Un filo d’acqua scorreva lungo un rigagnolo (duve si moveino anco dei vermi) che s’era formato lungo il poggio del monte e ci volea del tempo prima di riempì il secchio. A causa dei molti sfollati, spesso si duvea fa anco ’na fila per aspettà il nosso turno. Nun ho mai sentuto nessuno lamentassi per que’ vermi che aveino infestato la fontanella; tutti la bebeino perché già déra qualcò; ci volea che ci mancasse anco l’acqua per aggravà la situazione di per sé già disperata.

Déro pròbbio in fila a la fontanella quando si sparse la voce che dèrino arivi nel paese i soldati di colore mericani dela divisione Buffalo. Di corsa raggiunsi il piazzale de la chiése, sotto il quale, tra gli alti ciuffi di paleo d’una piana, ’na pattuglia di soldati di colore stacéa a scavà de le buche. Dérimo tanti sfollati a guardà la scena, quando, improvvisamente, vicino a nó esplose il primo colpo di mortaio sparato dai tedeschi, forse appostati ne la zona sóbbre Fabiano, oppure dalla cima del monte di Ripa che aveimo davanti duve si erino trincerati. Nó curiosi, tremanti da la pagura, ind’un baleno s’entrò ne la chiése, mentre altri colpi, in rapida successione, si abbattettero nel lògo duve pogo prima c’eravamo tutti radunati; uno esplose anco ai piedi d’un soldato mericano che passava ne la mulattiera al centro del paese e fu il primo statunitense ad esse ucciso a Giustagnana. L'esplosione dei colpi fu terrificante, mi sembrava che mi stiantassero il core. Ancò mi má, deceduta nel 1985, rimase gravemente ferita da le schegge dei colpi di mortaio che per anni le rimasero ind’una gamba, procurandole continui gonfiori e dolori.Le prime medicazioni le furono fatte dai soldati della croce rossa mericana Nel dopoguera la Commissione medica militare di La Spezia le attribuì la pensione di 8^ categoria, ma quéla Centrale di Roma, dóppo anni e anni di attesa, le comunicò che l’infermità era dovuta a l’artrosi di cui déra affetta e non a le ferite subite, per cui non ebbe alcun indennizzo o pensione. Per anni ho visto gonfiarsi la su gamba, quando camminava. Con le dita de la mana, più d'una volta, attastai anco le schegge che le erano rimaste sotto la pelle, tanto da fammi pensà che mi mà sia stata vittima anco d' una burocrazia ingiusta.

lunedì 4 gennaio 2010

Difendere l'italianità e la fede cristiana

Cresciuto con nel cuore il mito di Goffredo di Buglione, ritenuto il prototipo dell’eroe cristiano, che al tempo della prima Crociata dopo la conquista di Gerusalemme, rifiutò il titolo di re della Terrasanta, assumendo soltanto quello di difensore del Santo Sepolcro, non capisco come migliaia di islamici che, secondo il mio parere, dovrebbero, assolutamente rispettare le leggi esistenti per entrare, risiedere e lavorare in Italia, continuano ad invadere clandestinamente il nostro territorio. Costoro ci costringono a difendere la nostra italianità e la fede cristiana A me non piace vedere moschee in Italia, ricca di chiese, monasteri ed altri sacri edifici e dove la nostra religione ci ha sempre insegnato l’amore, la carità ed il perdono. Sì non credo nel Dio della guerra Santa. Penso proprio che neppure possa esistere un Dio guerrafondaio.

Verso la fine del 1800, il mio bisnonno con un suo figlio che poi divenne mio nonno, emigrarono in America, dove, appena sbarcati, gli contarono anche il denaro che avevano nelle tasche. Sicuramente rispettarono le leggi, lavorarono duramente e non vissero di elemosine e/o di sussidi governativi. Mio bisnonno non accomulò ricchezze. Quando tornò a casa fu costretto, per pagare il debito contratto per le spese di viaggio sulla nave, a vendere il campo e la casa che erano gli unici beni immobili che possedeva.

sabato 2 gennaio 2010

Mio padre nell'Africa orientale italiana

Mio padre dopo la guerra d'Africa (1935-36) voluta da Benito Mussolini e conclusasi con la conquista dell' Impero, fece parte della squadra dei dieci cavatori di Seravezza che andarono Etiopia per costruire le nuove vie dell'Impero appena conquistato. Fu per lavorare che i cavatori presero questa decisione, e anche per guadagnare qualcosa in più. La loro paga, o salario, in Africa era di quaranta lire al giorno, gli trattenevano tre lire e ottanta centesimi per il vitto giornaliero: comprate le sigarette e speso qualche spicciolo, per bere un bicchiere di vino o di birra, gli rimanevano in tasca trentacinque lire. Non era poco, ma non ce la faceva più mio padre a stare in Africa dove, oltre a soffrire un caldo soffocante, sentiva forte la mancanza della moglie e dei suoi due bambini.
Tutti gli operai del cantiere occupavano delle baracche e dormivano su lettini costituiti da paletti piantati per terra sui quali venivano stesi i sacchetti vuoti contenenti all'origine il cemento. Correvano il rischio di essere morsi dagli scorpioni e anche di essere attaccati dalle bande dei ribelli africani, accecati dall'odio verso gli italiani.

Prima di morire mi raccontò un fatto che gli fu raccontato da un operaio che aveva lavorato in precedenza in un altro cantiere. Subito non mi sembrò un racconto credibile. Ecco cosa mi disse. “ Una notte, ribelli africani, irruppero nelle baracche di un cantiere, assalendo gli operai mentre dormivano. A quei poveretti che uccisero gli amputarono i genitali. Ma la tragedia non finì così. La mattina dopo un gruppo di operai fecero dei controlli stradali. durante i quali sorpresero alcuni africani che portavano dei fagottini, contenenti quanto avevano amputato agli italiani. Fu così che questi autori della violenza commessa nei confronti dei nostri connazionali, furono puniti in modo altrettanto crudele e barbaro: ad ognuno di loro fecero esplodere un candelotto di dinamite introdotto nei loro intestini per via rettale”.

Dopo questo racconto dissi a mio padre: ”Babbo, una cosa così non l'ho mai sentita dire. E' orribile. I giornali non ne hanno mai parlato. Ti è stata raccontata una “fola”. “Una fola?Mi sembrò sincero, perché mi doveva raccontare cose non vere?Sicuramente sarà intervenuta la censura. Quando ritornò a casa il mio babbo indossava una bella divisa sahariana. In testa portava un casco coloniale di sughero. Era bello, alto, robusto, coi capelli riccioli e con la pelle molto abbronzata. Aveva una forza incredibile. Assomigliava a un bronzo di Riace.