giovedì 23 marzo 2017

Quei migranti italiani morti prima di raggiungere l’America

Dovevo leggere il libro di Gian Antonio Stella, intitolato “Odissee-Italiani sulla rotta del sogno e del dolore”, per rendermi pienamente conto delle tragedie vissute dai nostri migranti nel tardo Ottocento  e all'inizio del Novecento. Emigravano in massa in America, dove speravano di migliorare  le proprie condizioni di vita, lasciando alle spalle fame, miseria e malattie. Nel loro Paese spesso vivevano in condizioni davvero disperate. Molti si nutrivano solo di polenta, motivo per cui si ammalavano  di “pellagra”, dovuta alla mancanza in questo cibo della vitamina PP.

Da un'indagini parlamentare condotta da Stefano Jacini per anni ministro dei Lavori pubblici, pubblicata nel l880, emerge che le condizioni di vita di centinaia di migliaia di contadini italiani erano disperate. In maggioranza abitavano coi loro cari in uno stanzone lezzo, puzzolente umido e fatiscente, dove mangiavano e dormivano coi loro familiari su mucchi di paglia, vicini ai propri animali, mucche, capre, maiali e pollame, considerati spesso più preziosi di un figlio. E lì davanti ai figli e nipoti e fanciulli. gli adulti compivano  le “funzioni  animali della generazione”. Non mancavano atti ripugnanti di incesto e pederastia.

Il letame veniva lasciato in un angolo della stanza, oppure ammucchiato sulla via davanti alla porta di ingresso, Le strade dei paesi erano piene di sudiciume, in quanto non esisteva alcun servizio di nettezza urbana. Che facevano i governi per migliorare le condizioni di vita di queste persone? Poco o nulla! Il governo Crispi pensò alle avventure africane in terre poverissime, dove furono inviati contingenti militari per combattere contro l'Abissinia  I nostri soldati, però, furono sconfitti nelle battaglie sull’Amba Alagi nel 1895, a Macallè e ad Adua nel 1896.


Molti emigranti italiani morirono a bordo dei piroscafi, vere e proprie "carrette del mare" sulle quali si imbarcavano coi loro cari per raggiungere il nuovo mondo. Perdevano la vita a causa delle malattie scoppiate durante la navigazione (vaiolo, colera, tifo ecc.). Sulla nave italiana Carlo R., partita il 29.7.1894 da Genova e fermatasi con uno scalo a Napoli, scoppiò il primo caso di colera.
Oltrepassate le Azzorre ogni giorno contraeva questa terribile malattia almeno una ventina di emigranti. Per loro il mare fu la tomba. Arrivata a Rio de Janeiro le autorità portuali imposero alla nave italiana il divieto assoluto di approdo, ordinando anche alle unità da guerra di sparare colpi di cannone senza l’intenzione di colpirlo. Il Carlo R. fu costretto a fare ritorno in Italia. Arrivò all’Asinara il 27.9.1894. I morti di colera, durante questo viaggio di andata e ritorno di 368 giorni, furono 141, altre 70 persone morirono a causa di altre malattie.

Non fu la sola nave ad invertire la rotta. Anche al piroscafo Remo, salpato da Genova il 15.8.1893 con a bordo 900 emigranti ed altri 700 caricati a Napoli, fu imposto dal governo brasiliano l’ordine di allontanarsi dal molo dell’isola Grande, dove aveva attraccato con la bandiera gialla issata sul pennone e di  riprendere la navigazione e fare ritorno in Italia. Per impedire  il ritorno al molo  della nave  "Remo"  che  si era momentaneamente staccata dal molo per gettare al largo la prima vittima del colera  si trovò davanti una corazzata brasiliana che gli impedì  la manovra. Così la nave fu costretta a ritornare in Italia. Dopo 65 giorni approdò a Napoli e tutte le persone a bordo furono messe in quarantena. Novantasei persone morirono per il colera.

Moltissimi emigranti persero la vita a seguito dei naufragi delle navi su cui viaggiavano, avvenuti nella baia di Gibilterra e sulle scogliere di capo Falos, promontorio orientale  della Spagna.

Un numero considerevole di emigranti non riuscì maiad arrivare nell’Eldorado americano, in quella terra tanto attesa e lontana. Molti uomini senza scrupoli, "venditori di sogni", trassero ingenti guadagni dagli inganni volti a favorire l'immigrazione di massa in America: la descrivevano come una terra ricchissima, piena di ogni ben di Dio, con frutta e verdura di dimensioni enormi, in grado di sfamare tutti. In realtà, invece, anche nel Nuovo Mondo la vita non era facile. Pure tra gli armatori delle navi impiegate per trasportare gli emigranti c'erano uomini senza scrupoli, che vergognosamente lesinavano persino sull’acquisto delle vettovaglie necessarie a sfamare i passeggeri dei piroscafi.

Convinti da una falsa e martellante propaganda a partire in cerca di fortuna, senza farsi troppi problemi, masse di contadini analfabeti vendettero tutto ciò che possedevano per imbarcarsi sulle navi e raggiungere la terra promessa, spesso con famiglia al seguito. Anche molti versiliesi affrontarono il lungo viaggio verso il Nuovo Mondo rinchiusi  nelle stive delle navi,  dove non avevano il minimo spazio per muoversi né l’aria sufficiente per respirare. Stavano sdraiati, ammucchiati l’uno accanto all’altro, tra un tanfo insopportabile.

Anche i miei nonni paterni, con otto cugini, e il nonno materno emigrarono in America verso la fine dell’Ottocento. Voglio pensare che abbiamo affrontato un viaggio sopportabile e non come uno di quelli sopra descritti.

I neonati venuti alla luce durante  la navigazione si attaccavano  inutilmente al seno delle madri divenuto arido a causa dello scarsissimo cibo con cui si alimentavano le donne. Morirono così tanti piccini, i cui corpi  furono gettati in mare, tra  le urla di disperazione delle loro mamme affrante dal dolore. Un gruppo di trecento contadini trevigiani, ingannati da un marchese francese, anziché approdare in luoghi ubertosi furono sbarcati su una terra rocciosa, aspra, assolutamente non coltivabile, situata al confine di una giungla. Molti persero la vita in seguito alla grande fame patita; alla fine solo pochi superstiti riuscirono a raggiungere l’Australia.

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