mercoledì 29 settembre 2010

Mio padre in Africa orientale italiana, dopo la conquista dell'impero..

Mio padre subito dopo la guerra d'Africa (1935-36) voluta da Benito Mussolini e conclusasi con la conquista dell'Impero, fece parte della squadra dei dieci cavatori di Seravezza che andarono Etiopia per costruire le nuove vie del territorio appena conquistato. Fu per lavorare che i cavatori presero questa decisione, e anche per guadagnare qualcosa in più. La loro paga, in Africa, era di quaranta lire al giorno, gli trattenevano tre lire e ottanta centesimi per il vitto giornaliero: comprate le sigarette e speso qualche spicciolo per bere un bicchiere di vino o un boccale di birra, gli rimanevano in tasca trentacinque lire. Non era poco, ma non ce la faceva più mio padre a stare in Africa dove, oltre a soffrire un caldo soffocante, sentiva forte la mancanza della moglie e dei suoi due bambini. Quando mi raccontò del vino che beveva, gli chiesi, convinto che non fosse tanto buono in quanto non conservato in cantine fresche, ecco cosa mi rispose: "La ditta che aveva avuto l'appalto per la costruzione delle nuove strade dell'Etiopia, faceva venire dall'Italia il vino a damigiane prodotto dalla famosa casa vinicola Riccadonna. Questo vino lo tenevamo dentro i fiaschi, ricoperti da pezzi di stoffa, sui quali versavamo spesso acqua fresca. Era molto buono e con la gola riarsa che tutti noi lavoratori avevamo sembrava di rinascere quando si beveva".
"Gli operai del cantiere - proseguiva nel racconto - occupavano delle baracche e dormivano su lettini costituiti da paletti piantati per terra sui quali venivano stesi i sacchetti vuoti contenenti, all'origine, il cemento. Tutti correvamo il rischio di essere morsi dagli scorpioni e anche di essere attaccati dalle bande dei ribelli africani, accecati dall'odio verso gli italiani".

Prima di morire mi rivelò un fatto che gli fu raccontato da un operaio che aveva lavorato in precedenza in un altro cantiere. A me, devo dirlo, parse un racconto poco credibile. Ecco cosa mi disse: "Una notte i ribelli africani irruppero nelle baracche di un cantiere assalendo gli operai mentre dormivano. A quei poveretti che uccisero furono amputati i genitali. Ma la tragedia non finì così. La mattina dopo un gruppo di operai fecero dei controlli stradali durante i quali sorpresero alcuni africani che portavano dei fagottini, contenenti quanto avevano amputato agli italiani. Gli autori della violenza compiuta ai nostri connazionali, furono puniti in modo altrettanto crudele e barbaro: ad ognuno di loro fecero esplodere un candelotto di dinamite introdotto negli intestini per via rettale".
Dopo questo racconto dissi a mio padre: "Babbo, una cosa così non l'ho mai sentita dire. E' orribile. I giornali non ne hanno mai parlato. Ti è stata raccontata una "fola" (bugia, ndr). "Non mi raccontò una fola", mi rispose. "Perché mi avrebbe dovuto raccontare cose non vere? Sicuramente sarà intervenuta la censura".

Ritornò a casa durante la festa a Seravezza di San Lorenzo. Quel pomeriggio il pallone gonfiato del Battelli, subito dopo essersi alzato precipitò in fiamme sullle case delle Pile. Il mio babbo indossava una bella divisa sahariana. In testa portava un vero casco coloniale. Era bello, alto e robusto, coi capelli riccioli e con la pelle molta abbronzata. Aveva una forza incredibile. Rassomigliava a un bronzo di Riace.

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