lunedì 23 maggio 2016

Grazie professor Costantino Paolicchi

Mi fa piacere parlare del professor Costantino Paolicchi, il "versiliese doc" di cui sono sempre stato ammiratore. 
Qualche anno fa lessi con gioia, su Versilia Oggi, il suo articolo intitolato il ”Paese dell’anima”. Con questo suo scritto riuscì a farmi rivedere  la mia Seravezza degli anni 30 e dell’immediato dopoguerra, con tutti i ponti fatti saltare in aria dai tedeschi e molte abitazioni rase al suolo (tra le quali anche quella dove io nacqui)  al di là del fiume, a ridosso del Monte Canala, da Riomagno  fino alla Fucina. La totale distruzione delle case continuò in Corvaia, alla Centrale ed anche a Ripa.
Seravezza fino a quando non fu insanguinata dalla guerra con l’arrivo degli alleati, che avvenne dopo la metà di settembre del 1944, era popolata da uomini impegnati nei lavori sulle cave, lungo le vie a lizza, nelle segherie, fonderie, officine, falegnamerie e in numerosi laboratori del marmo, nei quali lavoravano scultori molto bravi.

Personalmente ricordo di avere visto scolpire una copia della Pietà di Michelangelo nel laboratorio sopra  i telai della segheria del Salvatori, nel periodo dopo la caduta del fascismo, vicino al molino del Bonci. Ho rivisto la fantastica uccelliera che era davanti al bar di Angelo Battelli, ubicato nella centrale piazza Carducci dietro il monumento ai Caduti, dedicato all’uomo nudo di Seravezza che tiene alzato sopra la testa una grossa pietra. Ho rivisto anche innalzarsi nel cielo il pallone aerostatico fatto costruire da già citato  Angelo Battelli, che sempre animava le feste seravezzine. 
Ho rivisto anche  la  criniera del monte di Ripa, senza più neppure una pianta di pino né un arbusto: la cima crivellata dalle cannonate e dai colpi di  mortaio sparati su quel terreno, pieno di trincee dei soldati americani della divisione Buffalo, pareva fosse stata arata: non c’era rimasto un solo filo di erba in quel punto a  ridosso del formidabile caposaldo difensivo creato dai tedeschi sulla cima del monte chiamata il “Castellaccio”. 
Il giorno che percorsi  quel terreno respirai l’aria maleodorante dei resti dei soldati americani sepolti vicini alle trincee in buche poco profonde e ricoperte con poche palate di terra. 

Era il lavoro che si svolgeva  nella nostra terra che dava la vita alla gente, anche se era davvero molto faticoso non solo per gli operai, ma anche  per  i buoi  che tiravano i carri carichi di grossi blocchi di marmo dai poggi di caricamento della Desiata, fino alle  segherie spronati anche dalle urla e dalle imprecazioni dei cavatori che frustavano gli animali.
Quando ero bambino le vie centrali di Seravezza venivano cosparse di ghiaia, motivo per cui a causa  del passaggio di carri e degli autocarri  si alzava molta polvere:  per ridurre questo fastidioso fenomeno con una autocisterna (mi pare che fosse del Comune) condotta dal figlio più grande del barbiere del paese,  di nome Scali, sulle strade veniva spruzzata molta acqua con gli annaffiatoi applicati sulla parte anteriore dell’autocisterna.
Insieme al parroco di Seravezza, monsignor Angelo Riccomini, partecipai, come chierichetto, alla benedizione della casa  abitata dalla signora Teresa Pilli, mamma del professore Dino Bigongiari, che dal 1904 al 1950 fu docente  presso la Columbia Università di New York. La mamma di Dino ai primi tempi del 1940 era la donna più  anziana di Seravezza. In quel tempo era costretta a letto e veniva  continuamente assistita, notte e giorno, dalla mamma di Elena Tabarrani  sorella di  Vincenzo, calciatore del Seravezza (veniva indicato come Tabarrani II).
Voglio anche accennare al famoso scrittore e poeta Enrico Pea, che nacque a Seravezza nel 1881 e morì Forte dei Marmi nel 1958. La prima volta che lo  vidi fu nel 1950: lo incontrai vicino al ponte della Passerella. Aveva un passo svelto e una barba ben curata. Nei tempi in cui andavo a scuola seppi dal mio coetaneo ed amico fraterno Gianfranco Pea che Enrico Pea era suo cugino. 

Il professor Paolicchi nei suoi scritti ha ben evidenziato il pensiero di Pietro Pancrazi, che collocando Enrico Pea fra gli scrittori d’eccezione, sottolineò che costoro  “scrivono come detta dentro e basta”. Poi, chiedendosi come il Pea avesse imparato l'arte, osservò che se fosse stata rivolta a lui questa domanda “si sarebbero visti gli occhi commossi del Pea rivolti al cielo per farci capire il suo riferimento alla Provvidenza”.
Quando frequentavo le scuola elementare venni a  sapere che un seravezzino insegnava ai giovani americani in una famosa  università: non riuscivo a comprendere come fosse potuto accadere un fatto del genere. Mi sembrava, all'epoca, una cosa davvero incredibile.

Renato Sacchelli

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