mercoledì 13 novembre 2013

IL MULO BRUNETTO


Amo ancora parlare del mulo, questo animale ibrido e infecondo, nato dall'unione di un asino e di una cavalla, sin dai tempi più antichi utilizzato dall'uomo per trasportare materiali e viveri nelle località montane, raggiungibili percorrendo, soltanto, difficili sentieri. Molto vigoroso, ha esigenze alimentari qualitativamente modeste. E' un simbolo di testardaggine e ostinazione. Con la costituzione del Corpo degli alpini avvenuta nel 1872, questo animale si rivelò un veicolo a motore a quattro zampe e fu impiegato nelle attività operative dagli alpini, in particolare durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, trasportando sulle impervie trincee, scavate fin sulle più alte vette alpine, dove si erano trincerati i nostri soldati, armi, munizioni e viveri. I muli furono impiegati anche durante la sanguinosa guerra combattuta in Russia per assicurare i necessari rifornimenti ai nostri soldati, operanti nelle zone dove furono combattute aspre battaglie.
Giorgio Giannelli sul libro “La Versilia ha vinto la guerra” oltre alle tante pagine di eroico valore scritte col sangue da tutti i nostri soldati che combatterono su ogni fronte, ha narrato anche il racconto che ci ha lasciato l' alpino Silvano Alessandrini, famoso scrittore e poeta dialettale versiliese, che fu schierato col suo reggimento sul fronte greco-albanese. Silvano racconta quel giorno che stava seduto su un muretto con un piede congelato. Teneva una coperta ripiegata sul suo corpo e le scarpe slacciate. Mentre si palpava i fori sotto i calzettoni di lana, udì una voce inconfondibile che gli fece alzare il capo. Vicino a lui, sul muricciolo di pietre, erano stati messi zaini affardellati. Accanto a quelli deposti sull'erba ricoperta dalla neve stavano seduti una decina di alpini che mangiavano delle gallette. Tra loro c' era un alpino che indossava il grado di tenente. L'ufficiale portava sulla testa il cappello nuovo di zecca con penna a 85 gradi. Lo sguardo del tenente fissato sulle montagne innevate si abbassò per un attimo su Silvano, poi si voltò per impartire ordini ai suoi soldati. Proprio in quel momento Silvano instintivamente lo chiamò ad alta voce: “O Tito!”. Il tenente, che stava un quindicina di metri di distanza, si volse di scatto e lo fissò. Quella voce l'aveva impietrito, perché l'accento gli risultava, familiare,  ma l'aspetto molto malconcio dell'alpino non gli aveva consentito di riconoscerlo. Silvano invece lo riconobbe. Chi gli stava di fronte era Tito Salvatori, di Strettoia (Pietrasanta).
“Chi sei?”, gli chiese il tenente dopo un attimo, senza muoversi, fissandolo intensamente. Silvano non gli rispose. Allora l'ufficiale , facendo alcuni passi, si mosse lentamente verso di lui.
“Chi sei, per Dio!”, esclamò con foga il tenente. “Sono Silvano. Silvano Alessandrini”. L'abbraccio che seguì fu forte, lungo e molto commovente. Entrambi rimasero abbracciati per un po' di tempo con le lacrime agli occhi. “Tu in questo stato... disse balbettando Tito. Poi tirò fuori dalle tasche un pacchetto di sigarette che donò a Silvano, rammaricandosi di non avere altre cose da offrirgli. Tito accompagnò Silvano, sorreggendolo, in una stanza sotto una casupola di bianche pietre dove c'era della paglia, poi uscì per andare a trovare qualcosa, mentre lui rimase in attesa del suo ritorno sdraiandosi sulla paglia. Tito ritornò poco dopo con alcune pagnotte.“Non ho trovato altro” gli disse, e aggiunse: “Se è vero che che l'argent fa la guerra, per Dio, noi non vinceremo”. Infine lo aiutò ad uscire da quella stanza in penombra perché voleva fotografarlo. Ci riuscì un po' malamente perché le mani di Tito ancora tremavano. Fu quella foto l'unico ricordo della travagliata guerra combattuta dall' alpino Silvano Alessandrini, che lui conservò sempre nel portafoglio finché visse.
Dopo aver scattato la fototografia Tito disse a Silvano che doveva allontanarsi per raggiungere il comando del reggimento, dove era passato anche Silvano, assicurandogli che al suo ritorno gli avrebbe portato qualcosa. Ma Silvano non lo rivide più.
Un'ora più tardi, sul calar della sera, Silvano sentì il passo di un mulo vicino alla porta e udì una voce che disse: “Caporale andiamo!”. L'Alessandrini si alzò. Essere rimasto disteso sulla paglia aveva riacutizzato i dolori ai piedi. Incespicò nel fare i primi passi, motivo per cui fu sorretto da mani robuste che lo afferrarono sotto le ascelle e lo issarono in groppa al mulo. Gli “sconci” (conduttori dei muli) che avevano condotto fin lassù i gli animali carichi di pagnotte, si apprestarono a ridiscendere il monte con Silvano in groppa ad uno di essi. “Tu - disse a Silvano l'uomo che teneva l'animale alla cavezza, - se vedi l'animale che ti disarcia digli: 'Brunetto', intesi? Lui è il più coglione della batteria, ma è intelligente”. Silvano capì le parole dello sconcio quando la colonna dei muli si incamminò giù nei passaggi più difficili, esponendo i suoi piedi al rischio di uno sfregamento quando la pancia del mulo sfiorava contro la roccia nei tratti più stretti dei passaggi sul ripido sentiero. Soltanto una volta sentì questo sfregamento, ma senza patire alcun dolore. Richiamò il mulo soltanto due volte. Fu così che notò che l'animale, dopo essere stato richiamato, rallentava il passo e procedeva più cautamente evitando di sfregare nelle rocce. “Bravo Brunetto”, diceva lo sconcio senza voltarsi, spostando solo il capo verso il muso del mulo.
Intanto era scesa la notte di luna piena. Attraversando la valle a mezza costa i muli camminarono ancora sui sentieri a strapiombo. Silvano si sentiva al sicuro in quanto il mulo poneva le zampe una davanti all'altra, tanto da sembrare che il mulo stesse danzando. Fu così che l'animale, evitò pericolosi sobbalzi non ponendo mai lo zoccolo in fallo.
Silvano sentiva il caldo del dorso del mulo sotto il suo deretano, e la flessione dei muscoli sui fianchi della bestia, che ogni talto accarezzava con la punta dei piedi.
Quando i muli arrivarono in una stretta valle la carovana si fermò. Dopo essere stato scaricato e trasportato in una vicina capanna, nella notte chiara il mulo raggiunse la distesa di un mare di erba dove, senza rispondere al saluto dell'alpino versiliese, Brunetto tuffò il muso per riempirsi la pancia.


Renato Sacchelli


P. S. Silvano ricevette le prime cure in Albania. Rientrato in Italia fu curato a Roma, all'ospedale militare del Celio, dove gli furono amputati un piede e una gamba. Per gli interventi subiti fu degente anche all'ospedale Italo Balbo del Cinquale (Massa Carrara).









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