venerdì 3 settembre 2010

Seravezza ai miei tempi: uomini di fatica, uomini d'onore


Non ho mai dimenticato gli uomini che abitavano nell’antico rione del Ponticello di Seravezza, che i tedeschi fecero saltare in aria durante la tragica estate del 1944.

Prima della sua distruzione il Ponticello era popolato da cavatori, lizzatori, operai delle segherie, scalpellini, raffilatori e non mancavano neppure alcuni meccanici; c’era anche chi esercitava le professioni di falegname, barbiere, muratore e di mugnaio.

Sì, li ricordo tutti questi uomini profondamente attaccati al lavoro ed alle famiglie dalle quali traevano le energie necessarie per affrontare le dure fatiche di ogni giorno; la dignità l’avevano scolpita sui loro volti.

Nonostante siano trascorsi tantissimi anni dal mio mondo di bambino, sento ancora nitido nelle orecchie il rumore che facevano i cavatori, quando, con il cielo pieno di stelle, passavano sotto le finestre della mia casa, dove erano soliti chiamare i compagni di lavoro che li attendevano pronti, col cibo nel fagotto, a uscire fuori di casa per proseguire insieme il cammino per arrivare all’alba sulla cava. Ogni tanto venivo svegliato dallo stridore degli scarponi chiodati e dalle voci degli uomini che chiamavano i compagni in attesa: "Gori, Tabarrani , Bandelloni, Speroni…!

Più d’una volta partivano con l’ombrello di cerato aperto sotto la pioggia, nella speranza che il brutto tempo cambiasse in modo da poter lavorare almeno per qualche ora.

Dovevano faticare molto prima di raggiungere la cava, attraversando ponti ballerini e percorrendo difficili sentieri e ravaneti, tanto da farmi pensare che questi uomini, forti e tinti dal sole, avessero, come si dice oggi, una marcia in più. Nella sua eccezionale poesia, intitolata “I cavatori”, della quale trascrivo, qui di seguito, soltanto alcuni versi, Lorenzo Tarabella, che per tanti anni lavorò sulle cave, ha saputo descrivere in modo mirabile la vita dura e sofferta di questi uomini, che vedevano: “Rubini, nella notte gelida, le stelle./ Cielo spaziato./ Un senso l’infinito./Immobili le case. Sonno. Silenzio….” E ancora: “Il vento fischia alto nella tecchia,/combatte tra i castagni nelle forre,/gelido il suo passaggio nella cava,/tra immoti blocchi…./Si spezzano le mani ai cavatori,/ il sangue sprizza vivo,/tinge le scaglie bianche;/pungenti spilli il freddo/trafigge i pori…”, mentre ai miei occhi questi cavatori sembravano dei ciclopi, sì dei giganti della montagna, la cui vigoria fisica era incarnata dal monumento ai Caduti, posto nella piazza centrale di Seravezza, dedicato all’uomo nudo della nostra terra, nell’attimo in cui scaglia una grossa pietra.

Non ho mai visto un uomo che vivesse senza fare nulla; nessuno del Ponticello era dedito all’ozio, il padre dei vizi, come fin da piccolo avevo sentito dire. L’unico che non lavorava perché troppo avanti con gli anni, era Michele, il marito della Gina, organizzatrice periodica del gioco della tombola che veniva svolto sotto la sua grande pergola, con la partecipazione di tante donne del rione. Un giorno Michele ebbe una accesa discussione con un uomo (abitante da poco tempo al Ponticello) che si era arruolato nelle formazioni della Repubblica Sociale Italiana, costituita dopo la liberazione del Duce da Campo Imperatore, avvenuta il 13 settembre 1943. Michele sosteneva che non si potessero sconfiggere gli Stati Uniti d’America, una potenza ricchissima nella quale era emigrato anche un suo figliolo. Ad un tratto, a sostegno della sua tesi, tirò fuori dalla tasca della giacca e mise sotto gli occhi del suo interlocutore, un paio di cartoline di rame, della serie “una cartuccia per ogni cartolina” che gli aveva spedito il figliolo nel periodo in cui tanti italiani d’America le mandavano ai loro familiari in Italia perché fossero fuse allo scopo di ricavarne il metallo utile per produrre munizioni. Aveva ragioni da vendere il buon Michele, che non dimenticava le pentole di rame che gli avevano preso, allorquando il regime fascista qualche tempo prima, aveva promosso tale raccolta, e che, poco dopo, ebbe la casa distrutta dai tedeschi. Nell’immediato dopoguerra, Michele andò ad abitare a Riomagno. Un giorno lo vidi mentre, in una via di Seravezza, stanco e seduto su uno scalino, stendeva, per sopravvivere, la mano ai passanti.

In quei tempi di forte disoccupazione,molte famiglie campavano con le poche lire che ricavavano dalla vendita di barrocci carichi di sassi che riuscivano a raccogliere lungo l’alveo del fiume, dove se ne trovavano moltissimi, specie dopo le piene che, dal fondo dei ravaneti, li facevano rotolare a valle.

Quando andavo a prendere l’acqua con la “paiolina” alla fontana pubblica, vicina alla segheria del Salvatori, spesso mi fermavo sulla soglia della porta di un fondo dove rimanevo ad osservare il signor Natalino Verona, mentre scolpiva gli angioletti e le madonnine. Il Verona aveva un laboratorio pieno di opere, davanti alle quali rimanevo incantato, tanto apparivano belle. Più di una volta mi fermavo anche nel fondo dove lavorava Pietro Salteri. Egli, con il mazzolo e la subbia stretti nelle sue mani di acciaio, dalla mattina alla sera sbozzava vasetti e colonnine di marmo in continuazione; ad ogni colpo le scaglie schizzavano da tutte le parti ed il mucchio si faceva sempre più grosso. Ogni tanto dalla subbia si sprigionavano delle scintille per effetto dei possenti e ripetuti colpi inferti col mazzolo che frantumavano anche il metallo.. Combattente della prima guerra mondiale, nel corso della quale probabilmente aveva visto sulle trincee anche Vittorio Emanuele III, il “Re soldato”, dopo l’8 settembre 1943, mi diceva che il sovrano era stato costretto, per salvare la corona, a lasciare Roma, quindi, a suo parere, non si trattava di una fuga, come tante persone andavano dicendo. Pietro Salteri, prima di morire, ebbe la soddisfazione di fregiarsi della onorificenza di “Cavaliere di Vittorio Veneto”. Il pomeriggio del 2 novembre u.s., ho rivisto al cimitero di Seravezza, il figlio del Salteri, Ivano, il quale, tra l’altro, mi ha ricordato che suo padre iniziava a lavorare alle cinque di tutte le mattine.

Ricordo ancora oggi il momento in cui incontrai lungo la strada, nei pressi del forno del Bonci, Fortino Bandelloni, mentre faceva ritorno a casa dalla cava sulla Costa, con la giubba sulle spalle; era un pomeriggio. Conoscevo molto bene sua moglie la cara e buona signora Emma, che ogni tanto mi chiamava per farle delle piccole compere, a fronte delle quali venivo sempre compensato con una fetta di pane e con alcuni spiccioli. Correvo scalzo nella via polverosa, ma quando gli fui vicino mi fermai di colpo per salutarlo. Mi rispose col viso illuminato dalla dolcezza dei suoi occhi sorridenti d’uomo buono e laborioso. Tante volte amavo parlare con Pietrino, il figlio di Fortino, il quale mi aveva insegnato anche a lucidare le piastrelle di marmo che lui aveva murato sul fornello a carbone della sua abitazione, in fondo al Riccetto, quando vi era andato ad abitare da novello sposo; fra noi si era instaurato un rapporto di stima e d’amicizia. Provavo anche molto piacere quando parlavo, lungo le strade di Seravezza, con suo cognato Armando Antonucci, mentre faceva ritorno, dopo il lavoro, nella sua abitazione del Ponticello.

Ora questi uomini forti e miti che conobbi da ragazzo sono tutti morti. Oltre a quelli di cui ho parlato in precedenza, desidero ricordare anche coloro che vedevo tutti i giorni, perché abitavano vicini alla mia casa: Donato Benti, Giorgio Giannotti, Giuseppe Gori, Giuseppe Tabarrani, Binelli Raffaello, Pietro Maggi, Giuseppe Bussoli, Francesco Speroni, Giorgio Salvatori. Fra questi poi c’erano anche Garibaldo Bandelloni (mio zio) e infine mio padre, Orlando, il quale è deceduto nel 1997 a 91 anni.

Credo di essere stato fortunato a crescere in mezzo a questi uomini, che hanno saputo educarmi, innanzitutto, all’amore per il lavoro, senza il quale la vita di ogni creatura umana si manifestea misera sotto ogni aspetto.

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