Il fenomeno dell’immigrazione in Italia mi ha indotto a rileggere alcune pagine della nostra storia, a partire dalla fine del Settecento (coi primi bastimenti da Livorno diretti alle Americhe) e i primi del Novecento. Masse di contadini e di operai italiani migrarono all’estero, a ondate periodiche, con la speranza di poter trovare un lavoro per mantenere le proprie famiglie. Imbarcandosi sui piroscafi, taluni vere e proprie “carrette del mare”, raggiunsero gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina. Altri, invece, cercarono fortuna in Germania, Francia, Belgio e Svizzera. Molti italiani del Sud della penisola migrarono in Tunisia e Algeria. Tunisi, all’inizio del Novecento, arrivò a contare centomila italiani, quasi tutti siciliani, calabresi e campani.
La punta più alta della migrazione italiana fu raggiunta nel 1905, quando si contarono ben ottocentomila nostri connazionali emigrati all’estero. Molti di loro svolgevano lavori di grande abilità, altri invece sbarcavano il lunario facendo i manovali. Diversi emigrati in California coltivavano agrumeti, mentre in Brasile e in Argentina si occupavano dei vigneti. Non pochi dei nostri connazionali si trovarono ad affrontare, specie all’inizio della loro esperienza, difficili condizioni di vita, lottando contro le malattie e la tremenda nostalgia della Patria lontana.Chi decideva di lasciare l’Italia non era mosso dallo spirito di avventura, bensì dal bisogno di trovare lavoro, inseguendo la speranza di una vita migliore. Alcuni finirono per essere sfruttati dai proprietari terrieri e dagli impresari, che li utilizzavano come manovalanza a basso costo. Le mansioni che un tempo, in America, erano state svolte dagli schiavi neri furono affidate ai nostri connazionali, costretti ad accettare condizioni di vita durissime. Nessuno potrà mai dire con esattezza il numero di coloro che morirono lontani dalla loro Patria di febbre gialla, vaiolo e di stenti. Certamente furono numerosi anche gli italiani che, grazie al loro ingegno, fecero fortuna. Tutti gli emigrati italiani, nel loro complesso, contribuirono a fare degli Stati Uniti la più grande potenza industriale ed economica del mondo. Taluni dei figli di questi emigrati divennero famosi anche in campo politico, come l’oriundo Fiorello Henry La Guardia, che fu membro del Congresso Usa dal 1916 al 1932 e sindaco di New York dal 1933 al 1945.
Da giovane emigrò in America anche mio nonno paterno, Alessio, con suo padre Pietro. Raggiunsero il Brasile verso la fine dell’Ottocento. Poi tornarono in Italia. Mio nonno materno, Raffaello Binelli, raggiunse gli Stati Uniti salpando dal porto di Genova. Sbarcò a Ellis Island (New York) il 4 gennaio 1904, lo stesso giorno in cui in Italia nasceva la sua ultimogenita, Iolanda, mia madre. Di professione scalpellino, Raffaello aveva un’ottima manualità con il marmo e le pietre e di sicuro in quegli anni il lavoro negli Usa in quel campo non mancava. Morì prima della mia nascita. Anni dopo, prima che andasse distrutta ad opera dei tedeschi, nella casa di mia nonna, al Ponticello di Seravezza, in una stanza all’ultimo piano notai molti libri sulla scultura e l’architettura. Al piano terra, invece, tutti gli utensili per squadrare il marmo (subbie, martelli, scalpelli, ecc.). I preziosi ricordi del lavoro di mio nonno purtroppo rimasero tutti distrutti sotto le macerie.
Foto: museoemigrazioneitaliana.org
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