lunedì 17 maggio 2010

Suor Giuseppina: una luce nuova sull’asilo Dêlatre durante gli anni 30.

Da tempo avevo in mente di descrivere le emozioni e le sensazioni che più accesero la mia memoria al ricordo durante il periodo in cui, nei primi Anni 30, frequentai l’asilo infantile “Dêlatre” di Seravezza.
Quando vidi pubblicato sul numero 193 di “ Versilia Oggi”,uscito tanti anni fa, l’articolo “ Incubi all’asilo Dêlatre” di Marino Verona, pensai di dover rinunciare al mio proposito, ma dopo averlo letto mi resi conto che, senza essere ripetitivo, c’era ancora spazio per parlare del luogo dove piccolissimo mossi i primi passi, fino a frequentarvi la prima elementare, poiché l’ambiente era cambiato rispetto a quello illustrato in modo davvero mirabile dal Verona.
Erano i tempi in cui non si cantava più la “Marsigliese”, ma “Giovinezza, giovinezza…”.
Conservo nella memoria alcuni sprazzi del primo giorno in cui traballante sulle piccole gambe, con il panierino in mano ed il grembiulino nuovo, accompagnato da mia madre, mi trovai proiettato in un’atmosfera nuova che subito mi sembrò festosa, anche se alcuni bimbi piangevano e non volevano staccarsi dalle mani delle loro mamme.
Certo che trovarsi ad un tratto a vivere con tanti coetani, in un mondo in cui tutto è programmato, ed a contatto con persone adulte viste per la prima volta, ritengo che sia stato quantomeno motivo di sconvolgimento per tanti bambini, considerata, soprattutto, la loro tenera età.
Pur se molto preoccupato, non ricordo di avere pianto quando per la prima volta varcai la soglia del “Dêlatre”.
La giornata era bella e le strade di Seravezza, allora non asfaltate, erano tutte cosparse di ghiaino.
Prima di arrivarci mia madre si fermò presso il negozio della “Cooperativa di consumo di Pietrasanta”, poco distante dalla casa dei “Combattenti”, per acquistare un fiasco di vino, con il “sigillo d’oro”, che poi donò alle suore.
Durante gli anni che vi trascorsi la nostra sorvegliante era ancora l’anziana Francesca. La donna incuteva sempre timore, tutta indaffarata a farci stare il più possibile silenziosi e buoni. Il lungo trascorrere del tempo doveva averla però addolcita perché spesso sapeva sorridere. Non ricordo di averla mai sentita pronunciare la frase: ”Se vengo lassù ti spacco il nome del padre”, che era solita rivolgere nel passato ai bimbi e che certamente doveva impaurirli molto, come riferito dal Verona.
La signora Francesca mi fece molta festa una domenica pomeriggio, quando la incontrai in piazza mentre ero insieme a mio padre, il quale poi, in segno di riconoscenza, la invitò a bere un bicchierino presso il bar del “Battelli”.
In cucina vi lavorava la Dina, donna mite e sempre sorridente.
Fra le suore di San Vincenzo che si occupavano dell’asilo, spiccava per la sua dolcezza e bontà suor Giuseppina dal volto bellissimo, senz’altro specchio della sua anima.
Nel momento in cui appariva nelle aule tutto s’illuminava. Il copricapo alato faceva risaltare ancora di più la sua delicata bellezza e la grazia del portamento. Ella seppe trasmettere a noi bambini i segni della sua amabilità e del proprio amore.
D’origine romagnola, visse a Seravezza dal 1927 fino alla morte avvenuta nel 1976. Amò profondamente il nostro paese in un modo tale da arrivare a dire: “Preferisco essere sepolta viva piuttosto che lasciare Seravezza”, come mi riferirono suor Luisa e la buona Dina, entrambe scomparse, che vissero insieme gli ultimi anni della loro vita. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Seravezza accanto a quelle di tanti seravezzini che le vollero bene, nessuno escluso. Una suora indimenticabile!
Non ho ricordi dell’anziana Superiora che vidi raramente forse per le sue non buone condizioni di salute, né della giovane suor Luisa, la quale si occupava soltanto delle fanciulle desiderose di imparare a ricamare.
Si doveva osservare l’ora del riposo “forzato” senza che nessuno ne avvertisse il bisogno, per questo tanta era la gioia che si provava quando si ritornava all’aperto, anche se non potevamo correre liberamente nel giardino, in quanto piccolo e tutto ricoperto di marmoline che si sentivano sotto le suole dei sandalini e delle scarpette fino a farci male.
Veder crescere le canne d’india lungo il muro di cinta, destò costantemente in me il desiderio di possederne una per la pesca.
Fu proprio all’asilo che un giorno appresi d’essere “Figlio della lupa”.
Ciò avvenne quando, dovendo noi bimbi presenziare ad una cerimonia pubblica, per la prima volta con il “Fez” in testa, ci fecero indossare la camicetta nera, i calzoncini grigi, il fazzoletto al collo, con appuntato un grosso medaglione del Duce, la cui faccia incuteva timore, e con tutte quelle cinturine bianche alla vita ed intorno al torace.
Sotto l’aspetto coreografico doveva essere un piccolo spettacolo.
Prima che si uscisse nella strada, le belle ragazze di Seravezza dell’Anni 30, che stavano al piano di sopra intente al loro lavoro, scesero nel cortile per festeggiarci. Gioiose e con sorrisi luminosi, appena ci videro, ci accolsero con lunghi applausi e grida: “Viva i figli della lupa…”. Nel sentire ancora d’essere “Figlio della lupa”, come già mi avevano accennato durante la vestizione, rimasi molto perplesso, tanto da avvertire subito il desiderio di chiedere spiegazioni ad un bimbo più grande che mi stava vicino. Seppi da lui che ci chiamavano così perché, secondo la leggenda, i figli della lupa, così chiamati, erano stati allattati dalla stessa “lupa” che aveva nutrito il fratelli Romolo e Remo, quando vide la cesta con questi due bambini, che era finita lungo le rive delle acque del fiume Tevere, sul quale furono abbandonati.
“Romolo e Remo”, ripetei timidamente. “Sì, Romolo, il fondatore di Roma”, aggiunse tutto soddisfatto nel rendersi conto che sapeva tante cose più di me. In verità non riuscivo ad afferrare bene il significato di quelle parole; anche il riferimento all'uomo che aveva fondato Roma rendeva la mia mente ancor più confusa, perché di certo sapevo di avere una mamma e l’improvvisa apparizione di una “lupa” immaginaria non trovava nella mia testolina alcuna logica collocazione.
Quando il mio amico Aldo, che abitava anche lui al Ponticello, in fondo al “riccetto”, abbandonò l’asilo per seguire i genitori nel lontano Perù, dove il padre aveva trovato lavoro, ebbi il primo dispiacere della mia vita. L'ultimo giorno che frequentò l'asilo prima di partire, gli regalai una medaglietta della Madonna perché lo proteggesse durante il lungo viaggio.
E’ vero che dopo qualche tempo appresi che era arrivato felicemente nel nuovo continente, ma prima che lui partisse sovente pensai a quella lunga traversata degli oceani, che mi appariva un’impresa affascinante, come quella di Cristoforo Colombo, del quale avevo già sentito parlare, ma al tempo stesso anche pericolosa per le possibili tempeste, in mezzo alle quali, tra onde altissime, la nave poteva inabissarsi.

Nessun commento: