lunedì 17 maggio 2010

Renato Salvatori: un versiliese “Povero, ma bello”

Era già grandicello Giuseppe Salvatori, in arte “Renato”, quando la sua famiglia cambiò casa e dal Marzocchino venne ad abitare al Ponticello di Seravezza
Partecipò subito ai giochi di ogni giorno inserendosi molto bene nel nostro mondo di ragazzi, abituati ad una vita semplice.
Fu, e posso dirlo con orgoglio, uno dei tanti componenti della squadra dei “Ponticellesi”, ben conosciuta dalle altre squadre che erano quelle dei “Piazzaioli” (abitanti nelle case del centro) e dei “Riomagnesi”, abitanti nel piccolo borgo di Riomagmo sito a poca distanza da Seravezza
Il nostro spirito di squadra che dir si voglia, giusto o sbagliato che fosse, sentito anche dalle altre squadre di ragazzi, credo che derivasse da quei sentimenti che fin dall’antichità unirono i fanciulli ristretti nei loro contigui agglomerati, visti come i più belli ed importanti degli altri, anche se così non erano.
Noi “Ponticellesi”, tanto per far capire quale fosse il nostro comportamento quando, per gioco, costruivamo lungo le pendici del monte Canala le trincee, issavamo sempre, sul pennone piantato fra i sassi, la nostra bandiera tricolore. La visione di quello stupendo film che fu per noi bimbi degli Anni 30 “I ragazzi della via Pal”, contribuì a rafforzare il nostro “spirito di Corpo”.
Davvero eravamo una bella squadra della quale fece parte, e mi fa piacere ricordarlo, anche Aldo Tessa, un piazzaiolo, cugino di Alberto Benti, quest’ultimo una colonna della nostra compagine.
Il padre di Renato Salvatori lavorava presso la società Henraux, dove svolgeva la mansioni di capo del piazzale o di un laboratorio, così mi pare di ricordare.
Il fratello più grande di Renato fu un forte terzino della squadra di calcio di Seravezza, nella quale lo vidi disputare delle ottime partite.
La famiglia Salvatori non era ricca, ma stava bene anche in rapporto all’attività svolta dal capofamiglia. La miseria di cui parlò un noto settimanale, in occasione della morte dell’attore versiliese, avvenuta ad appena 54 anni, non la vidi mai in quella casa, una delle più belle del rione, dove, fino alla sfollamento ordinato dai Tedesci nel 1944, stetti più di una volta.
In particolare, di Renato Salvatori ragazzo, mi è rimasto impresso il ricordo di quel giorno in cui, insieme a tanti altri coetanei “Ponticellesi”, ci recammo sul monte Canala per giocare ai “Moschettieri”. Con in pugno “succhiotti” di castagno senza la corteccia, duellavamo gioiosamente. La sfortuna volle che con la punta della mia “spada” lo colpissi al volto, proprio sotto un occhio, procurandogli, in tal modo, un piccolissimo graffio. La stessa cosa poteva capitare anche a me, trattandosi di un gioco sconsiderato che i ragazzi non dovrebbero mai praticare per ciò che di grave si può involontariamente causare se il volto non è protetto da apposite maschere.
Nella mattinata del giorno successivo al “duello”, la madre di Renato, signora Giulia, che aveva visto la mia mamma alla fontana pubblica, mi mandò a dire di passare dalla sua casa prima di andare a scuola, perché desiderava parlarmi, senza però precisare i motivi del suo invito. Appena mi vide, senza dirmi nulla, mi accompagnò nella camera del figlio, il quale, disteso nel suo lettino, aveva su entrambi gli occhi grossissime croste che gli impedivano di aprire le palpebre.
“Guarda cosa hai fatto a Beppino!”. Così mi disse, mentre io rimasi ammutolito. Infatti, non seppi cosa risponderle. Non capivo come uno graffietto avesse potuto generare conseguenze apparentemente così gravi. Spaventato, per più giorni preferii percorrere certi tratti di un sentiero tracciato in fondo al monte sopra la mia casa, tutto pieno di pruni, per andare e venire dalla scuola, perché provavo un senso di vergogna a farmi vedere nelle strade per ciò che di grave avevo causato a Beppino.
Non fui più informato sull’evolversi della malattia, come io ritenni che fosse, malauguratamente manifestatasi contemporaneamente al graffio che io gli avevo procurato sul volto.
Col trascorrere del tempo, inaspettatamente, arrivò in Versilia la guerra.

L’ultima volta che incontrai e parlai con Renato Salvatori fu a Valdicastello, dopo l’arrivo dei soldati americani.
Quel giorno provenivo da Giustagnana, dove mia madre era rimasta ferita ad una gamba da schegge di colpi di mortaio sparati dai tedeschi. Ero diretto a Capezzano Pianore, per sapere dai miei nonni che colà si erano rifugiati nel 1944, al tempo dello sfollamento ordinato dai Tedeschi, se c’era anche per la nostra famiglia la possibilità di trovare un alloggio dove poterci sistemare alla meno peggio.
Attraversato il centro di Valdicastello, dove erano stati piazzati batterie di cannoni dei soldati di colore americani della 599 compagnia della divisione Buffalo, che in quel momento non sparavano, percorsi un tratto in salita di un sentiero che conduceva in cima ad una collina piena di olivi. Ad un tratto vidi un ragazzo che, appollaiatosi su una pianta, con un bricco legato ad un ramo, raccoglieva, con tutta calma, i frutti dell’albero.
“Sei tu Beppino?”. “Sono io...”. Dopo esserci scambiate altre brevi parole, in quanto data la nostra disperata situazione avevamo ben poco da dirci, ci salutammo, “ Ciao Beppino”. “Ciao”, mi rispose, mentre io, con lui rimasto sulla pianta, ripresi la mia faticosa marcia.
Negli Anni 50, quando era già famoso col nome d'arte Renato, per le sue interpretazioni cinematografiche, tra le quali ricordo il film “Poveri ma belli”, una domenica mattina di cui non ricordo il mese, una autovettura nera si fermò a Seravezza, all’imbocco di via Roma, mentre io mi trovavo davanti all’edicola, un po’ più avanti, in compagnia di alcuni amici.
A bordo dell’automezzo c’erano più persone; il fratello dell’attore stava sul sedile anteriore. Ad un uomo (Camillo Neri) che nel frattempo si era avvicinato alla macchina, fu consegnata una scatola di cioccolatini o di caramelle, subito dopo aver scambiato alcun parole con gli occupanti del mezzo, nessuno dei quali scese a terra.
Sia io che i miei amici non ci muovemmo. Qualcuno disse che sull’automobile c’era anche Renato Salvatori, che io, a quella distanza non ebbi modo di vedere.
Dopo pochi istanti, invertito il senso di marcia, l’autovettura si allontanò da Seravezza.
Feci male, lo riconosco ancora oggi a distanza di anni, a rimanere distaccato, perché se a bordo della macchina ci fosse stato veramente Beppino Salvatori lo avrei dovuto salutare per forza e fargli tanta festa.
In verità, anche negli anni successivi ebbi il desiderio di trascorrere con lui e con gli altri ragazzi del Ponticello una serata intorno ad una tavola imbandita a festa, per rivivere insieme gli anni della nostra fanciullezza, molto sofferta a causa della guerra che insanguinò anche la nostra Versilia.
Purtroppo, sia lui che io non abbiamo fatto nulla per rincontrarci. È da questa considerazione che nasce il mio dispiacere, che avverto in misura crescente ora che non è più fra noi.
Di lui, però, rimane nel mio cuore l’immagine del suo volto giovane e bello; insomma di un viso che rappresentò nel cinemà, anche a livello mondiale, la giovinezza, la forza e, diciamolo pure, la bellezza di tanti giovani della Versilia. È per questo che noi ragazzi, cresciuti con lui,dobbiamo ringraziarlo, perché riuscì a farci sognare.
Ora da questa terra, dove l’uomo trascina affannosamente il proprio corpo, invio lassù a Beppino Salvatori, dove senza finzioni sceniche s’incontrano nude le anime immortali, liberatesi dalla materia di cui si compone la nostra figura terrena e laddove il suo spirito aleggia anzitempo, credo anche per la delusione che Beppino deve aver patito per essere stato improvvisamente abbandonato dal “Mondo del cinemà”, mentre poteva ancora dare, nei ruoli d’uomo più maturo, altre stupende interpretazioni, il mio caro saluto: “Ciao Beppino”, alla stessa maniera di come lo salutai l’ultima volta a Valdicastello nel 1944.

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