sabato 1 maggio 2010

31 Agosto 1943: pioggia di fuoco su Pisa

Impazienti, con la fame che sentivano, i quattro ragazzi seduti intorno alla tavola della cucina, apparecchiata con rituale amore, aspettavano che la loro mamma mettesse nei piatti la minestra che anche in quel giorno di guerra era riuscita a preparare, nonostante le quotidiane difficoltà dovute al razionamento dei generi alimentari, in vigore da lungo tempo. Eravamo quasi alla vigilia dell’otto settembre 1943, il giorno dell’armistizio e della breve illusione per quanto riguardava la fine del secondo conflitto mondiale, che invece continuò e fu combattuto per oltre un anno e mezzo su gran parte del nostro territorio nazionale, causando innumerevoli morti e feriti, nonché immensi cumuli di macerie. Scottavano, sotto il sole caldo e l’aria stagnante di fine agosto, i tetti delle case della città della Torre pendente. Sull’Arno, ancora d’argento e con alcuni tratti della riva attrezzati con cabine e ombrelloni dai colori variopinti, gruppi di bagnanti trovavano refrigerio alla calura tuffandosi nelle acque limpide e piene di pesci, fatto questo che rese più sopportabile la fame a coloro a coloro che esercitarono la pesca, per tutto il periodo della guerra. Nell’importante nodo ferroviario continuava il movimento dei convogli carichi di munizioni e delle tradotte dei soldati, dall’espressione dei volti cupa e dagli animi ormai rassegnati alla sconfitta, che appariva sempre più evidente dopo lo sbarco in Sicilia degli Americani.

I quattro ragazzi in giro in città avevano sentito dire che Pisa era stata dichiarata “città aperta”, senza sapere di preciso cosa ciò significasse. Avevano tratto la convinzione che, così definita, la città non sarebbe stata bombardata dagli aerei nemici e che gli opposti eserciti in lotta non vi avrebbero mai combattuto all’interno. Quando il suono agghiacciante delle sirene che segnalavano l’arrivo formazioni aeree note come “fortezze volanti” si diffuse nell’aria, a differenza della mamma subito in preda all’angoscia, i ragazzi si dimostravano abbastanza tranquilli, tanto da chiederle ancora: “E’ cotta la minestra ? Quanto ci vuole ancora?”.
Intanto il rombo dei motori degli aerei si sentiva sempre più forte, fino al momento in cui si udirono anche i primi sibili delle bombe sganciate sull’abitato, seguiti dall’esplosione terrificante delle stesse, al momento del loro violento impatto a terra. Dio mio! Dio mio !”, gridava la mamma disperata, abbracciata ai suoi figli, che immediatamente si erano aggrappati a lei per proteggerla coi loro corpi, scossi dallo spostamento d’aria provocato dalle continue deflagrazioni. “Mamma, mamma, stai calma, stiamo accanto a te!”. Così i ragazzi tentavano di rincuorarla, anche se erano arrivati a pensare, ad eccezione di uno, che aveva assunto un atteggiamento di sfida, che sarebbero morti tutti insieme.

Settanta aerei nemici, ad ondate successive, fecero cadere micidiali bombe ad alto potenziale, nella zona della ferrovia, di Porta a Mare e nelle aere limitrofe, provocando la morte di seimila persone, secondo la coscienza degli uomini, anche se i dati ufficiali indicano il millenovecento circa le vittime di quel tremendo bombardamento. Contare il numero dei morti fu un’impresa difficile. Molti cadaveri erano irriconoscibili; di tante persone rimasero soltanto poche ossa e brandelli di carne: “Quanti saranno gli esseri umani che sono deceduti in modo così atroce? Messi nei sacchi, come stiamo facendo, chi potrà mai accertarlo?”. Questi furono gli interrogativi che pose ad alcuni militi dell’ANPA (Associazione Nazionale Prevenzione Antincendi) il versiliese Marino Lorenzoni, militare del genio, il quale partecipò alla pietosa estrazione dei corpi dalle macerie e fu impiegato anche nei lavori per la riattivazione della rete ferroviaria. “I sacchi vengono pesati. Trenta – trentacinque Kg. è il peso considerato equivalente al corpo di una persona, così tragicamente perita”. Ecco l’agghiacciante risposta che ottenne. Lo scenario in cui si muovevano gli uomini impegnati nell’opera di soccorso, era terrificante: rovine fumanti e migliaia di resti di cadaveri ovunque. Marino Lorenzoni, nei pressi della stazione ferroviaria, vide una pianta di fico, (salendo sulla quale, qualche giorno prima era riuscito a sfamarsi), sradicata e fatta volare sulla terrazza di un edificio dall’esplosione di una bomba.

Sull’altare della chiesetta annessa al convento di clausura dell’ordine Domenicano, ubicato all’inizio di Corso Italia, sul retro della piazza Vittorio Emanuele II, da alcuni giorni era stato solennemente esposto, per l’adorazione, l’Ostensorio. La secolare serenità del convento, pur già rattristata dalla tragica guerra, fu sconvolta dall’improvvisa ed inaspettata azione aerea nemica. “Presto al rifugio! Via! Via!”, gridava la Madre Superiora alle suore. Non tutte però l’ascoltarono. Una si ricordò del “Corpo di Cristo” rimasto sull’altare “Devo salvarlo, devo…” mormorava dentro di sé. E così nell’attimo in cui le sue sorelle raggiungevano il rifugio, ella entrò correndo nella chiesa. Dopo un’accennata genuflessione, afferrò l’Ostensorio, che strinse al petto, mentre il suo corpo fu raggiunto da fasci di luce celeste, penetrati nel sacro edificio attraverso le vetrate. La suora provò una gioia immensa; non udiva più le esplosioni. Un sorriso luminoso si stampò sul suo viso. Fu proprio mentre viveva quei momenti di estasi, che un ordigno esploso nelle immediate vicinanze, fece crollare la chiesetta. Caduta in ginocchio, piegata su se stessa, per meglio proteggere il “Corpo di Cristo”, fu sommersa dalla macerie. In quella posizione, senza vita fu trovata dalle squadre di soccorso. Stretto, serrato nelle sue pure mani come in una morsa, l’Ostensorio era rimasto intatto.

Il gesto d’amore della suora che donò la sua vita per salvare il “Corpo di Cristo” deve indurre tutti gli uomini a serie riflessioni, perché si manifesta come un atto di condanna della guerra, che mai dovrebbe esserci fra i popoli delle varie nazioni; essi, per evolversi e migliorare le loro condizioni di vita, hanno assoluto bisogno di vivere in pace. In questa visione dell’esistenza delle creature umane, ne consegue che il trascorrere degli anni non ha offuscato il sacrificio della suora, giacché il suo atto di amore infinito appare di una grandezza divina, che solo la devozione e la fede nei valori cristiani che esaltano l’uomo, possono farci comprendere. Sì dobbiamo riflettere, specie in questi anni in cui ci sono nel mondo tanti focolai di guerra accesi e pericolosi, tra i quali il più significativo appare quello che da sempre viene combattuto nella terra dove nacque Gesù. Sì, tutti dobbiamo adoperaci perché cessino gli omicidi, le brutalità, le violenze di ogni genere. E’ ora di finirla con lo spaccio della droga che uccide e fa soffrire numerose creature. L’uomo ha solo bisogno di amore e pace.

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