Avrei molte cose da dire in merito ai giorni più felici della mia vita. Il primo, sicuramente, è la fine dell’incubo della Seconda guerra mondiale, che tanto dolore e lacrime aveva causato in tutti noi italiani, compresa la mia famiglia. Il fratello più piccolo di mio padre, Guido, di soli 21 anni, fu dichiarato disperso in Russia dopo uno scontro armato contro l’esercito sovietico. Faceva parte della quarta Divisione alpina Cuneense, con i muli al seguito di ogni militare. Ricordo ancora il giorno in cui partì per il fronte: si fermò per salutarci ma in casa c’ero solo io con i miei fratelli più piccoli. Lo zio Guido aveva sul volto una profonda tristezza. Purtroppo non conobbe mai suo figlio Germano, che nacque dopo la sua partenza per la Russia.
Da ragazzino facevo il
chierichetto. In quel periodo più di una volta pensai che, da grande, mi
sarebbe piaciuto divenire sacerdote. Con la guerra, la casa fatta saltare in
aria, e tante altre sofferenze, questa mia intenzione venne meno.
Il 15 luglio 1949 entrai
nella Scuola allievi finanzieri di Roma, in viale 21 Aprile. Non ho mai
dimenticato il primo giorno, quando sia io che tutti i miei commilitoni pranzammo
a mezzogiorno nella nostra mensa: eravamo tutti felici quando il capo tavola
con il mestolo riempiva i nostri piatti di alluminio con un abbondante pasto.
Per qualche momento mi parve di sognare. Avevamo sofferto tanto la fame, negli
anni della guerra e anche dopo, che tornare a nutrirsi con regolarità era una bella
sensazione.
Il direttore della banda
del Corpo, maestro Antonio D’Elia, non l’ho mai dimenticato. Grazie alle sue
lezioni di canto imparai diverse canzoni. Di una ricordo i seguenti versi, che
noi fiamme gialle in servizio anticontrabbando lungo il confine con la Svizzera
cantavamo spesso: “Le stelle alpine, le penne nere, son le bandiere del
finanziere. Le nostre fiamme son frecce d’or, lanciale Patria verso l’onor…”.
Era bravo e paziente come maestro. Ci interrompeva quando la nostra prova non
andava bene, ma lo faceva sempre con gentilezza. Arrivai a pensare che la
bacchetta con cui dirigeva la banda e il coro fosse magica. Un giorno di festa andai
ad ascoltare un concerto della banda diretta dal maestro, in una piazza della
Capitale. Riscosse molti applausi.
Nella grande camerata
della caserma di Roma dormivo su un letto a castello. Stavo nel posto in basso,
sopra di me c’era un allievo di Bari, che ogni volta che ci svegliavamo ripeteva
sempre la stessa frase: “Il letto è di rosa, chi non dorme si riposa”.
In libera uscita ero
sempre in compagnia di alcuni commilitoni. Facevamo delle passeggiate per le
vie del centro, visitando anche i più bei monumenti della Città eterna, ricchi
di storia e cultura. A me, che provenivo da un piccolo paese della Toscana,
Roma appariva davvero una bella città, una delle capitali più importanti del
mondo.
Da finanziere fui
assegnato alla Compagnia presidiaria di Roma, per svolgere il servizio di
vigilanza, all’interno e all’esterno, presso l’Istituto Poligrafico dello Stato
di piazza Verdi.
Quando presi il primo
stipendio da finanziere il pensiero che ebbi subito fu di inviare una discreta somma
di denaro a mia mamma. Mi sembrava giusto ringraziarla per tutti i sacrifici
che aveva fatto per me e i miei fratelli, quando eravamo piccoli, e le
difficoltà che continuava ad avere visto che il salario di mio padre era
modesto.
Purtroppo a Roma mi
ammalai e fui costretto ad un periodo di convalescenza. Rimessomi in piene
forze e riconosciuto idoneo, fui inviato alla Legione di Palermo, dove prestai
servizio di vigilanza al porto e ai cantieri navali. Trovai il capoluogo
siciliano bello e molto popolato. Frequentai il corso marconisti presso
l’undicesima Compagnia trasmissioni, in viale Italia, ottenendo un’ottima
votazione: 19,50 punti su venti. Successivamente fui trasferito sull’isola di Marettimo,
nelle Egadi, un grazioso paesino di pescatori. Si mangiava molto bene, tant’è
che aumentai di peso. Quando avevo voglia di pesce lo andavo ad acquistare in
una pescheria, a cuocerlo era il finanziere addetto alla cucina.
In occasione delle
elezioni politiche del 1953 da Trapani giunsero alcuni uomini, chiamati a
prestare servizio al seggio elettorale allestito sull’isola. Autorizzati dal
nostro comandante, furono ammessi a consumare i pasti presso la nostra caserma.
Organizzammo anche una gustosa cena a base di pesce.
Un giorno di riposo con
un mio collega nativo del Veneto tentammo di arrivare sulla cima del monte più
alto, ma dovemmo rinunciare perché la salita era troppo lunga e faticosa. Un passante
che incontrammo ci disse che, in lontananza si scorgevano le rocce situate
all’estremità dell’isola, dove un tempo lontano aveva sede il carcere del Regno
di Napoli.
Vista la nostra giovane e
spensierata età spesso ci divertivamo facendoci dei piccoli scherzi, per farci insieme
una risata. Mentre mi trovavo a Menaggio, presso la caserma della Gdf sul lago
di Como, notai che durante il pranzo della festa del Corpo diversi finanzieri gettavano
nel lago delle bottigliette di Coca Cola e di aranciata, con l’intento poi, nei
giorni seguenti, di andarle a ripescare, tuffandosi in acqua da una barchetta. Il
giorno dopo, con una lunga canna, sulla cui cima avevo agganciato un ferretto
rotondo, ne “pescai” alcune. Trovandole molto fresche le gustai con piacere.
Giocare a pallone mi è
sempre piaciuto. Da ragazzino, non avendone mai posseduta una vera, coi miei
amici ci divertivamo con una palla di carta legata con lo spago. Non era il
massimo ma quelle sfide per strada ci rendevano felici. Alla scuola allievi
finanzieri ricordo che giocai una partita nel ruolo di attaccante. Quando il
pallone giunse ai miei piedi, nella nostra metà campo, mi misi a correre forte,
riuscendo a superare gli avversari che mi venivano incontro. Giunto a poca
distanza dalla porta mi trovai faccia a faccia con il portiere dell’altra
squadra. Con un piccolo tocco avrei potuto segnare, senza tanto sforzo. Invece
sferrai un forte calcio e il pallone finì fuori, vanificando la mia dirompente
azione solitaria. Fu un dispiacere enorme che mai ho dimenticato.
In forza al gruppo di
Sondrio, il nostro colonnello Spaccamonti ci ordinò di recarci con la macchina
dell’amministrazione a Madesimo, per assistere ad una importante gara di sci.
Il nostro compito era garantire il collegamento radio con le apparecchiature
ricetrasmittenti. In quell’occasione, tra le piste da sci, incontrai Zeno Colò,
tra i più grandi campioni di sci di tutti i tempi, che già si era distinto
vincendo diverse gare anche all’estero. Ad Aspen (Colorado), dove nel 1950 si
era disputata la prima edizione dei Mondiali di sci del dopoguerra, la “freccia
dell’Abetone” (così era chiamato) aveva vinto due ori e un argento. A Madesimo,
quella volta, era stato chiamato per tracciare la pista dove avrebbero
gareggiato le sciatrici.
Nel 1954 mi trovavo in
licenza nel mio paese di Seravezza. In quel tempo ero in forza alla brigata di
Buggiolo (Como), sul confine italo svizzero. Conobbi una ragazza di 15 anni, Angela,
io ne avevo nove più di lei. Imparava a cucire nel negozio di una sarta del
paese, che vendeva anche articoli di abbigliamento. Mi colpirono la sua
giovinezza e bellezza. Il giorno dopo, la domenica, la incontrai di nuovo in
piazza, in compagnia di sua sorella Anna, più grande, con il suo fidanzato
Giuliano. Fu lui che mi disse: “Noi oggi andiamo a vedere il film ‘Anema e core’,
vuoi venire?”. Accolsi la proposta e, da lì, iniziammo a frequentarci. Il
“colpo di fulmine”, per me, fu quando con la testa inavvertitamente sfiorai i
suoi capelli, proprio dentro al cinema. Dopo tre anni e mezzo di fidanzamento,
ottenuta l’autorizzazione dal Comando generale della Guardia di Finanza, il 15
febbraio 1959 ci sposammo. Abbiamo avuto tre figli (Marina, Stefania e Orlando).
Le prime due quando erano piccole spesso le facevo salire sulla mia schiena e,
percorrendo in ginocchio il lungo corridoio del mio appartamento, simulavo per
loro l’elefante. Si divertivano moltissimo. Mia moglie confezionò degli abiti
di Carnevale per le bimbe, con un bel tessuto di raso verde che io dipinsi con
alcune figure (il drago ed altre immagini) che richiamavano lo stile cinese.
Con mio figlio più piccolo, invece, una volta mi recai al campetto della
Cittadella, a Pisa. Sferrai un potente calcio al pallone, che finì in alto,
divenendo piccolo piccolo ai nostri occhi. Orlando rimase sbalordito ma
confesso che anch’io mi stupii di quanto il pallone fosse finito in alto.
Quando ho vissuto in
Campania, prestando servizio a Salerno e poi a Napoli, qualche volta con la mia
famiglia la sera uscivamo per mangiare la pizza. Un giorno mi venne il
desiderio di provare a farla io a casa: acquistammo tutti gli ingredienti,
farina, lievito, mozzarella, preparammo la salsa di pomodoro fresca e, dopo
averla impastata e fatta lievitare, la infornai. Certo, il forno non era quello
a legna ma il risultato fu lo stesso superiore alle aspettative. Iniziò, così,
una tradizione che andò avanti per anni ed anni. Quando arrivava il sabato sera
preparavo diverse pizze che gustavamo tutti insieme. Dopo qualche decennio di
“attività” mi regalarono un grembiule sui cui c’era scritto: “Da Renà pizza di
qualità”. Fui molto contento, soprattutto per aver donato un po’ di gioia a
tutti i miei familiari, qualche volta anche colleghi, con le mie pizze. Scrissi
persino una poesia intitolata “La luna è una pizza”.
A conclusione di questo
mio scritto mi piace ricordare che, dopo sessantanove anni dal nostro primo
incontro, con Angela ci vogliamo ancora tanto bene.
Renato Sacchelli