giovedì 16 maggio 2013

Felicità: riabbracciare la mamma in Paradiso

Nel pieno della notte del 25 ottobre 1985 squillò il telefono di casa mia. L’ora insolita mi fece immediatamente intuire che qualcosa di grave doveva essere accaduto. “Sì è morta la mamma, il suo cuore si è fermato!”. Era la voce di mio fratello Sergio.“Vengo subito” e non fui capace di dire altre parole perché un pianto irrefrenabile mi serrò la gola. Ebbi difficoltà a guidare l’autovettura con i vetri appannati, specie quando incrociavo altri automezzi che transitavano lungo la via Aurelia in senso contrario. Ma non mi fermai mai, anche se non riuscivo ad arginare il torrente di lacrime che usciva dai miei occhi.

Mentre mi avvicinavo alla sua casa tante riflessioni acuivano il mio dolore. Mi pareva di non avere fatto abbastanza per lei e di non averle dimostrato quanto era grande l’amore che nutrivo nei suoi confronti. Il desiderio di portarla a vivere con me durante la sua malattia, per poterla assistere personalmente, rimase solo un sogno che non potei realizzare non avendo a disposizione un’apposita camera. Sapere che aveva chiuso gli occhi per sempre nel suo letto e non in un ricovero, attenuava solo in parte l’angoscia che provavo.

Era già stata vestita quando giunsi davanti a lei. Un lungo velo nero copriva i suoi capelli bianchi che sembravano fili di seta. I lineamenti del suo viso erano sereni e distesi nell’immobilità della morte. Pareva che dormisse con la corona del rosario avvolta tra le sue delicate mani, le stesse che negli anni Trenta avevano raccolto nel fiume barrocci di sassi, faticosamente portati stretti al grembo fin sulla strada, per fare in modo che a noi ragazzi, con il babbo in quel periodo di tempo disoccupato, non mancasse mai il pane. Da poco aveva compiuto l’ottantunesimo anno, essendo nata a Seravezza l’8 luglio 1904. Nonostante fosse gravemente ammalata da più di un anno, non immaginavo che la morte l’avrebbe portata via così in fretta. Affetta da un ictus cerebrale, con la conseguente paralisi della parte sinistra del corpo, era riuscita, dopo diversi mesi, a reggersi di nuovo sui piedi e a fare anche brevi passi in casa, sia pure con grande fatica; ecco da dove derivava la mia convinzione che potesse vivere un po’ più a lungo.

L'esistenza di Iolanda Binelli (detta Raffaella) non fu pienamente felice come lei avrebbe invece meritato. Visse momenti di grande disperazione allorché, in tempo di guerra, con la madia vuota, non poteva mettere nulla a cuocere nella pentola e quando vide saltare in aria la sua casa nel 1944. Un autentico calvario fu anche il periodo dello sfollamento trascorso a Giustagnana, dove rimase ferita ad una gamba dalle schegge dei colpi di mortaio sparati dai tedeschi subito dopo l’arrivo dei soldati americani della divisione Bufalo.

Fu una donna semplice che mi educò secondo i principi della fede cristiana. Instancabile, lavorò in casa come una formichina, finché le forze glielo consentirono. Dopo sei anni dalla sua scomparsa e dall’ultimo nostro straziante abbraccio terreno, durante il quale morì anche una parte di me, sento ancora il bisogno di rivolgermi a lei perché preghi il Signore, affinché tutti suoi cari, nel giorno della loro morte, possano felice riabbracciarla in Paradiso.

P.S. - Questo mio scritto è stato pubblicato su Il Dialogo (ottobre-novembre 1991, pag.14).

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