lunedì 21 novembre 2011

COME SALTARONO IN ARIA LE CASE DI SERAVEZZA NELLA TRAGICA ESTATE DEL 1944

Se non lo avessi visto coi miei occhi , avrei avuto molte difficoltà a comprendere, come un solo geniere tedesco della Wehrmacht, un giovane uomo, robusto di corporatura e con gli occhi azzurri e biondo di capigliatura, abbia potuto, con l'aiuto di due o tre operai della famosa organizzazione “Todt”, far saltare in aria le case di una parte di Seravezza, dalla Fucina al Ponticello e fino a Riomagno, ubicate a ridosso del monte Canala.
Il geniere, che indossava i gradi di sergente, lo vidi uscire dalla segheria del Salvatori non appena gli operai finirono di collocare, alla base dei muri perimetrali interni dello stabilimento, proiettili di artiglieria, collegati con fili elettrici ad un detonatore che poco dopo fu azionato davanti alla casa dei Combattenti, allora esistente nello stesso punto dove venne ricostruita nel dopoguerra. Molti proiettili di artiglieria li vidi ammucchiati ai margini del piazzale dei blocchi di marmi da segare, che si trovava proprio davanti al molino del Bonci
Il sergente aveva la pistola alla cintura. Per qualche decina di metri camminai al suo fianco, dopo aver udito un suono di una tromba e la voce di un donna che, urlando, avvertiva i presenti che dovevano allontanarsi perché i tedeschi avrebbero iniziato a far saltare in aria la segheria.
Mi sorprese vedere un solo militare tedesco perché ero convinto, quando si sparse la voce che i tedeschi stavano per iniziare la loro azione distruttiva del rione, dove c'era anche la mia casa abbandonata in seguito all'ordine di sfollamento, che di soldati germanici a Seravezza, in quel giorno, ce ne fossero tanti.
Il geniere non mi sembrò un uomo feroce. Ricordo il suo sguardo triste, forse perché il comando che gli era stato impartito lui non lo condivideva. A tutti noi non rivolse neanche una parola.
Le donne e i ragazzi, impauriti, non ebbero la forza per protestare. Anch'io assistetti impotente al compiersi di questo evento distruttivo e inimmaginabile, senza avere il coraggio di rivolgere la mia protesta al solo militare tedesco presente in quel giorno al Ponticello. Fui pavido e questo fatto mi fa ancora oggi arrossire dalla vergogna.
Appresi la notizia che i tedeschi stavano per far saltare in aria la segheria del Ponticello da due donne che salivano il sentiero che conduceva a Giustagnana con due fagotti sulla testa. Io, con altri ragazzi sfollati come me, stavo sotto i castagni vicini alla prime case. Di corsa andai ad avvertire mia madre e subito mi lanciai scalzo ed a spron battuto giù lungo il sentiero che conduceva a Riomagno. Ricordo che mentre correvo sentivo i garetti sfiorare il fondo dei calzoncini.
A Riomagno c'era una grande confusione. Tante donne e ragazzi grandicelli si davano da fare ad andare giù e in sù per trasportare pezzi di mobilio che arredavano le abitazioni. Al Ponticello sentii dei colpi di mazzolo che un uomo stava usando per demolire la porta murata di un fondo, per riprendere la biancheria e quant'altro di più prezioso che aveva riposto nel fondo nascosto, prima di sfollare, anche sotto tanti pali di legno.
Tutte le donne e i ragazzi erano molto impauriti e non ebbero la forza per protestare Anch'io assistetti impotente al compiersi di questo evento distruttivo e inimmaginabile, senza avere il coraggio di rivolgere la mia protesta al sergente tedesco. Sì, provo vergogna nell'aver sopportato quello scempio senza reagire, anche perché per tanti anni avevo cantato la canzone "fischia il sasso, il nome squilla dell'intrepido balilla...". Parlo di Giovanni Battista Perasso, il ragazzo di Portoria che diventò famoso per aver lanciato un sasso contro un ufficiale austriaco, dando inizio alla rivoltà che nel 1746 liberò la sua città, Genova. Per questo suo gesto quel ragazzo assurse a simbolo del patriottismo, e il regime fascista gli dedicò l'Opera Nazionale Balilla.
Sapevo che in uno sgabuzzino mia nonna teneva una pistola, un vecchia Colt a tamburo, con quattro o cinque pallottole, che aveva portato dall'America mio nonno materno Raffaello, che era emigrato, alla fine dell'Ottocento ed all'inizio del Novecento, più di una volta, negli USA. Quando entrai nella vecchia casa pensai subito alla pistola. Mi domandai: "Cosa ci faranno i tedeschi se la troveranno?" Non ci pensai molto. Subito presi l'arma e la buttai nel pozzo nero tirando un sospiro di sollievo. Tante volte ho rivissuto quel momento in cui, per paura e sgomento, sbagliai, perché avrei dovuto usarla quell'arma, a difesa della libertà, vilipesa e oltraggiata dalla Germania nazista.
Nel giorno in cui iniziò la distruzione di una parte di Seravezza non vidi nessuno dei miei vicini di casa.
Dopo l'esplosione delle bombe che rasero al suolo la segheria e fecero sparire, per effetto dello spostamento d'aria, anche la casa del Carducci e dell'Aurora, ubicata sul retro dello stabilimento, vidi passare davanti a me, al Ponticello - dove mi ero fermato per osservare i danni subiti dalla mia casa che al primo piano sembrava l'avessero segata con il filo elicodiale della cava - i coniugi Carducci. Camminavano abbracciati in direzione del centro di Seravezza, avevano il volto rosso e piangevano disperati. Entrambi ripetevano fra i singhiozzi: “Non c'è è più la nostra casina, non c'è più...”, mentre stavano calando le prime ombre della sera.

1 commento:

Orlando ha detto...

Come poteva, un ragazzino giustamente impaurito, sfidare la morte impugnando una vecchia pistola? E poi per cosa? La paura, quella volta, è stata "giusta" consigliera e quel bambino, diventato adulto, ha avuto la possibilità e la bravura di raccontare quei tragici eventi a tutti noi.