martedì 13 agosto 2024

La gioia, il dolore e la speranza. I miei ricordi mai dimenticati

 

Avrei molte cose da dire in merito ai giorni più felici della mia vita. Il primo, sicuramente, è la fine dell’incubo della Seconda guerra mondiale, che tanto dolore e lacrime aveva causato in tutti noi italiani, compresa la mia famiglia. Il fratello più piccolo di mio padre, Guido, di soli 21 anni, fu dichiarato disperso in Russia dopo uno scontro armato contro l’esercito sovietico. Faceva parte della quarta Divisione alpina Cuneense, con i muli al seguito di ogni militare. Ricordo ancora il giorno in cui partì per il fronte: si fermò per salutarci ma in casa c’ero solo io con i miei fratelli più piccoli. Lo zio Guido aveva sul volto una profonda tristezza. Purtroppo non conobbe mai suo figlio Germano, che nacque dopo la sua partenza per la Russia.

Da ragazzino facevo il chierichetto. In quel periodo più di una volta pensai che, da grande, mi sarebbe piaciuto divenire sacerdote. Con la guerra, la casa fatta saltare in aria, e tante altre sofferenze, questa mia intenzione venne meno.

Il 15 luglio 1949 entrai nella Scuola allievi finanzieri di Roma, in viale 21 Aprile. Non ho mai dimenticato il primo giorno, quando sia io che tutti i miei commilitoni pranzammo a mezzogiorno nella nostra mensa: eravamo tutti felici quando il capo tavola con il mestolo riempiva i nostri piatti di alluminio con un abbondante pasto. Per qualche momento mi parve di sognare. Avevamo sofferto tanto la fame, negli anni della guerra e anche dopo, che tornare a nutrirsi con regolarità era una bella sensazione.

Il direttore della banda del Corpo, maestro Antonio D’Elia, non l’ho mai dimenticato. Grazie alle sue lezioni di canto imparai diverse canzoni. Di una ricordo i seguenti versi, che noi fiamme gialle in servizio anticontrabbando lungo il confine con la Svizzera cantavamo spesso: “Le stelle alpine, le penne nere, son le bandiere del finanziere. Le nostre fiamme son frecce d’or, lanciale Patria verso l’onor…”. Era bravo e paziente come maestro. Ci interrompeva quando la nostra prova non andava bene, ma lo faceva sempre con gentilezza. Arrivai a pensare che la bacchetta con cui dirigeva la banda e il coro fosse magica. Un giorno di festa andai ad ascoltare un concerto della banda diretta dal maestro, in una piazza della Capitale. Riscosse molti applausi.

Nella grande camerata della caserma di Roma dormivo su un letto a castello. Stavo nel posto in basso, sopra di me c’era un allievo di Bari, che ogni volta che ci svegliavamo ripeteva sempre la stessa frase: “Il letto è di rosa, chi non dorme si riposa”.

In libera uscita ero sempre in compagnia di alcuni commilitoni. Facevamo delle passeggiate per le vie del centro, visitando anche i più bei monumenti della Città eterna, ricchi di storia e cultura. A me, che provenivo da un piccolo paese della Toscana, Roma appariva davvero una bella città, una delle capitali più importanti del mondo.

Da finanziere fui assegnato alla Compagnia presidiaria di Roma, per svolgere il servizio di vigilanza, all’interno e all’esterno, presso l’Istituto Poligrafico dello Stato di piazza Verdi.

Quando presi il primo stipendio da finanziere il pensiero che ebbi subito fu di inviare una discreta somma di denaro a mia mamma. Mi sembrava giusto ringraziarla per tutti i sacrifici che aveva fatto per me e i miei fratelli, quando eravamo piccoli, e le difficoltà che continuava ad avere visto che il salario di mio padre era modesto. 

Purtroppo a Roma mi ammalai e fui costretto ad un periodo di convalescenza. Rimessomi in piene forze e riconosciuto idoneo, fui inviato alla Legione di Palermo, dove prestai servizio di vigilanza al porto e ai cantieri navali. Trovai il capoluogo siciliano bello e molto popolato. Frequentai il corso marconisti presso l’undicesima Compagnia trasmissioni, in viale Italia, ottenendo un’ottima votazione: 19,50 punti su venti. Successivamente fui trasferito sull’isola di Marettimo, nelle Egadi, un grazioso paesino di pescatori. Si mangiava molto bene, tant’è che aumentai di peso. Quando avevo voglia di pesce lo andavo ad acquistare in una pescheria, a cuocerlo era il finanziere addetto alla cucina.

In occasione delle elezioni politiche del 1953 da Trapani giunsero alcuni uomini, chiamati a prestare servizio al seggio elettorale allestito sull’isola. Autorizzati dal nostro comandante, furono ammessi a consumare i pasti presso la nostra caserma. Organizzammo anche una gustosa cena a base di pesce.

Un giorno di riposo con un mio collega nativo del Veneto tentammo di arrivare sulla cima del monte più alto, ma dovemmo rinunciare perché la salita era troppo lunga e faticosa. Un passante che incontrammo ci disse che, in lontananza si scorgevano le rocce situate all’estremità dell’isola, dove un tempo lontano aveva sede il carcere del Regno di Napoli.

Vista la nostra giovane e spensierata età spesso ci divertivamo facendoci dei piccoli scherzi, per farci insieme una risata. Mentre mi trovavo a Menaggio, presso la caserma della Gdf sul lago di Como, notai che durante il pranzo della festa del Corpo diversi finanzieri gettavano nel lago delle bottigliette di Coca Cola e di aranciata, con l’intento poi, nei giorni seguenti, di andarle a ripescare, tuffandosi in acqua da una barchetta. Il giorno dopo, con una lunga canna, sulla cui cima avevo agganciato un ferretto rotondo, ne “pescai” alcune. Trovandole molto fresche le gustai con piacere.

Giocare a pallone mi è sempre piaciuto. Da ragazzino, non avendone mai posseduta una vera, coi miei amici ci divertivamo con una palla di carta legata con lo spago. Non era il massimo ma quelle sfide per strada ci rendevano felici. Alla scuola allievi finanzieri ricordo che giocai una partita nel ruolo di attaccante. Quando il pallone giunse ai miei piedi, nella nostra metà campo, mi misi a correre forte, riuscendo a superare gli avversari che mi venivano incontro. Giunto a poca distanza dalla porta mi trovai faccia a faccia con il portiere dell’altra squadra. Con un piccolo tocco avrei potuto segnare, senza tanto sforzo. Invece sferrai un forte calcio e il pallone finì fuori, vanificando la mia dirompente azione solitaria. Fu un dispiacere enorme che mai ho dimenticato.

In forza al gruppo di Sondrio, il nostro colonnello Spaccamonti ci ordinò di recarci con la macchina dell’amministrazione a Madesimo, per assistere ad una importante gara di sci. Il nostro compito era garantire il collegamento radio con le apparecchiature ricetrasmittenti. In quell’occasione, tra le piste da sci, incontrai Zeno Colò, tra i più grandi campioni di sci di tutti i tempi, che già si era distinto vincendo diverse gare anche all’estero. Ad Aspen (Colorado), dove nel 1950 si era disputata la prima edizione dei Mondiali di sci del dopoguerra, la “freccia dell’Abetone” (così era chiamato) aveva vinto due ori e un argento. A Madesimo, quella volta, era stato chiamato per tracciare la pista dove avrebbero gareggiato le sciatrici.

Nel 1954 mi trovavo in licenza nel mio paese di Seravezza. In quel tempo ero in forza alla brigata di Buggiolo (Como), sul confine italo svizzero. Conobbi una ragazza di 15 anni, Angela, io ne avevo nove più di lei. Imparava a cucire nel negozio di una sarta del paese, che vendeva anche articoli di abbigliamento. Mi colpirono la sua giovinezza e bellezza. Il giorno dopo, la domenica, la incontrai di nuovo in piazza, in compagnia di sua sorella Anna, più grande, con il suo fidanzato Giuliano. Fu lui che mi disse: “Noi oggi andiamo a vedere il film ‘Anema e core’, vuoi venire?”. Accolsi la proposta e, da lì, iniziammo a frequentarci. Il “colpo di fulmine”, per me, fu quando con la testa inavvertitamente sfiorai i suoi capelli, proprio dentro al cinema. Dopo tre anni e mezzo di fidanzamento, ottenuta l’autorizzazione dal Comando generale della Guardia di Finanza, il 15 febbraio 1959 ci sposammo. Abbiamo avuto tre figli (Marina, Stefania e Orlando). Le prime due quando erano piccole spesso le facevo salire sulla mia schiena e, percorrendo in ginocchio il lungo corridoio del mio appartamento, simulavo per loro l’elefante. Si divertivano moltissimo. Mia moglie confezionò degli abiti di Carnevale per le bimbe, con un bel tessuto di raso verde che io dipinsi con alcune figure (il drago ed altre immagini) che richiamavano lo stile cinese. Con mio figlio più piccolo, invece, una volta mi recai al campetto della Cittadella, a Pisa. Sferrai un potente calcio al pallone, che finì in alto, divenendo piccolo piccolo ai nostri occhi. Orlando rimase sbalordito ma confesso che anch’io mi stupii di quanto il pallone fosse finito in alto.

Quando ho vissuto in Campania, prestando servizio a Salerno e poi a Napoli, qualche volta con la mia famiglia la sera uscivamo per mangiare la pizza. Un giorno mi venne il desiderio di provare a farla io a casa: acquistammo tutti gli ingredienti, farina, lievito, mozzarella, preparammo la salsa di pomodoro fresca e, dopo averla impastata e fatta lievitare, la infornai. Certo, il forno non era quello a legna ma il risultato fu lo stesso superiore alle aspettative. Iniziò, così, una tradizione che andò avanti per anni ed anni. Quando arrivava il sabato sera preparavo diverse pizze che gustavamo tutti insieme. Dopo qualche decennio di “attività” mi regalarono un grembiule sui cui c’era scritto: “Da Renà pizza di qualità”. Fui molto contento, soprattutto per aver donato un po’ di gioia a tutti i miei familiari, qualche volta anche colleghi, con le mie pizze. Scrissi persino una poesia intitolata “La luna è una pizza”.

A conclusione di questo mio scritto mi piace ricordare che, dopo sessantanove anni dal nostro primo incontro, con Angela ci vogliamo ancora tanto bene.

Renato Sacchelli

mercoledì 26 giugno 2024

Si poteva morire per qualche castagna

 




“Il fuoco è mezzo pane”. Dicevano così i miei genitori quando ero ragazzino, mentre tutta la mia famiglia si scaldava, nelle fredde serate d’inverno degli anni ’30 e ’40, intorno al camino acceso e con la legna scoppiettante che sprigionava fiamme e faville in continuazione. Questo ritornello l’avevo sentito dire tante volte anche dai vecchietti del paese, che stavano in piazza o nelle vie a prendere un po’ di sole d’inverno per scaldarsi.

Erano tempi di miseria nera, coi generi alimentari razionati e il freddo che, nella cattiva stagione, a noi ragazzi faceva venire i geloni alle mani, mentre lo scolo delle acque piovane formava, sotto le grotte del monte e le grondaie dei tetti, grosse candele di ghiaccio che sembravano di cristallo.

A scuola portavamo un mattone riscaldato avvolto in un pezzo di stoffa; qualcuno, invece, un po’ di legna da bruciare nella stufa che avevamo nell’aula. Da ragazzo con altri miei coetanei andavo a raccogliere rametti nei boschi sui monti sopra Seravezza. Le mie forze non erano molte, per la fame che avvertivo forte ogni giorno. Non avevo sempre sentito dire che il fuoco era mezzo pane? In verità gli stecchi che raccoglievamo spesso erano necessari per accendere il fuoco per cuocere la polenta, quando mancavano i soldi per acquistare il carbone da usare nei fornelli. Utilizzando la legna per cuocere i cibi i muri della cucina erano molto anneriti e dovevamo sempre spalancare le finestre per fare uscire il fumo dai locali, poiché il camino non lo tirava fuori in modo sufficiente.

Trovare qualche legnetto da ardere nei boschi era tutt’altro che facile: venivano “puliti” molto bene e sembravano dei giardini, coi proprietari delle selve che raccoglievano minuziosamente le castagne, la cui farina era indispensabile per sopravvivere, cucinando i "ciacci” (sottili piadine cotte sui testi di metallo riscaldati sul fuoco) e le frittelle.

Era uno spettacolo veder passare lungo le nostre strade i barrocci carichi di fascine di legna, sopra i quali stava si ergeva un uomo, come seduto su un trono, che stringeva ben salde tra le mani le briglie del cavallo. D’estate i barroccianti indossavano un cappellaccio di paglia, che d'inverno era sostituito da un copricapo più pesante.

Chi riusciva a salire nelle zone più alte del monte, camminando lungo impervi sentieri tracciati tra i ravaneti, poteva portare a casa, sulle spalle, grossi fasci di legna secca raccolta nei boschi vicini alle cave. Fra questi uomini forti e vigorosi c’era anche mio padre: è così che la mia famiglia riuscì a riscaldarsi nelle stagioni invernali. Noi ragazzi di legna ne raccoglievamo poca: un fascetto piccolo, paragonabile a quello che si ogni anno si preparava per la Befana, perché non avevamo la forza degli adulti.

In quei giorni difficili gli uomini e le donne vigilavano che nessuno rubasse dalle loro selve - di proprietà o che controllavano per conto dei padroni - le castagne che avevano iniziato a cadere e che noi ragazzi tentavamo di raccogliere, essendo più affamati degli scoiattoli.

Un uomo del mio paese picchiò selvaggiamente un ragazzo che aveva sorpreso nel proprio bosco con un pennato in mano, intento a tagliare dagli alberi alcuni rami secchi. Era in compagnia di un suo amico più giovane. Quest’ultimo riuscì a fuggire mentre l’altro si trovò circondato dal padrone e dai suoi giovani figli. Inferocito, l’uomo gli tolse dalla mano l’attrezzo e iniziò a riempirlo di calci e pugni. Una gragnuola di colpi arrivò sulla testa, sul viso e sulle spalle del povero ragazzo, che con le mani tentava inutilmente di ripararsi. “Chi te l’ha dato l’ordine di tagliare le piante del mio bosco? Come ti sei permesso? Guai a te se rimetti i piedi qui”. E giù ancora colpi. Nemmeno i figli ebbero compassione. Anzi, furono spietati, incitando il loro genitore: “Dagliene ancora babbo. Dai, dai, più forte!”. L’uomo smise di picchiare il ragazzo quando si accorse che altre percosse gli avrebbero fatto perdere i sensi. “Vai via, vai via!”, gridò ancora, rifilandogli alla fine un robusto calcio nel sedere. Il ragazzo si allontanò barcollante e subito scomparve tra i cespugli del monte. Mentre scendeva a valle, con la bile in bocca, sentì il bisogno di riprendere fiato. Distesosi per terra rivolse i suoi occhi pieni di lacrime verso il cielo tinto di azzurro.

A quei tempi c’era molta spietatezza e crudeltà fra gli uomini. La carità non si vedeva. A farne le spese erano tanti poveri ragazzi affamati e le persone più anziane.

Un giorno andai a cercare delle castagne con altri miei coetanei nei boschi sul monte Altissimo. Appena usciti dalla strada entrammo nella prima selva. Una donna, che non era neanche la padrona, iniziò a tirarci contro dei sassi. Furono le nostre gambe scattanti a evitarci il peggio. In pochi minuti ci ritrovammo a fondovalle, dove scorreva il fiume. La scampammo bella. Qualcuno di noi, senza neanche aver avuto modo di mettersi in bocca una castagna, sarebbe potuto finire in ospedale se gli fosse andata bene a non rimanere stecchito sul colpo.

mercoledì 13 marzo 2024

L'attualità di Francesco Viti, il poeta-cavatore di Seravezza

 

Dopo aver ricordato l’onorevole Leonetto Amadei, l’avvocato che plasmò la Costituzione, mi fa piacere soffermarmi su un altro grande seravezzino del passato, Francesco Viti, poeta-cavatore. Nei suoi scritti ci ha lasciato importanti testimonianze che riguardano le difficili condizioni di chi viveva sui monti intorno a Seravezza all'inizio del 1900. Come il padre Francesco Viti lavorò sulla cava fin da ragazzo. Nella poesia “Il Cavatore” (1902) scrisse: “Con il latte succhiai, cosa non lieta / la polvere dei marmi e cavatore divenni invece di venir poeta”.

Viti denuncia la durezza del mestiere, che pure svolgeva con impegno e dedizione fino a diventare un esperto capo cava. “Improba troppo e faticosa è l'arte dei cavator / che con disagio e pena/ di sua vita ogni fibra ed ogni parte / risente il peso di si ria catena”. Senza dimenticare il dramma che scaturiva dalle frequenti disgrazie che anche in quel tempo si verificavano. “Ed ahi sventura ed ahi crudel dolore / purtroppo spesso avviene che all'improvviso / un masso cade, lo colpisce e muore”. Nella poesia intitolata “I lamenti del popolo della frazione Cappella”, scritta nel 1905, appare l’incredibile arretratezza delle condizioni in cui viveva la comunità montana, sprovvista dei più elementari servizi di utilità generale. Dopo più 120 anni alcuni temi sono ancora attuali.

Viti scriveva che era giusto pagare le tasse, “anche se siano per noi si gravi / che non hanno più confronto / con quelle dei nostri avi”. Desiderava però, e con piena ragione, che il denaro pubblico fosse speso bene, come lo sarebbe stato se le istituzioni l’avessero destinato alla realizzazione di opere atte a migliorare la vita di tanta gente costretta ad abitare in luoghi isolati e impervi e “privi di levatrice e di medico / e abbiam solo la luna per lampione / e mancaci una scuola / siamo tremila e certo / a chi non sa gli è strana / il medico non vedesi / un dì per settimana”.

E ancora: “Sappiam di certe donne / che giunte a mal partito / avevan per levatrice il povero marito. / E perciò di lagnarci abbiam nostre ragioni: nascer come agnelli morir come montoni”. Con questa semplice poesia, cruda ma vera, nei primi del Novecento Viti poneva sotto accusa le istituzioni che si disinteressavano completamente dei diritti e dei bisogni essenziali della comunità montana. È un documento storico molto importante che descrive, con minuzia di particolare, la difficile vita di tanti versiliesi di quell'epoca. 

In alcuni versi che da Filettole (Lucca) inviò alla moglie nel marzo del 1908, Viti descrive quella località della valle del Serchio dove, per un certo periodo di tempo, diresse una cava di marmo rosso, utilizzato per la costruzione del palazzo della Borsa di Genova. Dopo aver manifestato apprezzamento per gli abitanti del posto, ricchi di fede cristiana, ribadisce la sua fedeltà coniugale: “Se mi dovrò molto trattenere / sposa stai certa che ci porto il letto, un comportamento che da sempre accresce l'amore e mantiene unita una coppia”.

Curiosi i versi con i quali ordinò al titolare di una nota ditta milanese una mezza dozzina di bottiglie di un liquore, ancora oggi in commercio, che “bevo ogni giorno / ed ora son docile / come un agnello / dice mia moglie a questo e quello”. L’aveva provato la prima volta una sera a Seravezza, mentre si accingeva a fare ritorno a casa, consigliato dal droghiere Benti al quale aveva detto di avere dei disturbi allo stomaco. Sentitosi meglio, Viti pensò di scrivere alla ditta milanese per ordinare delle bottiglie, ricevendo gratis un'intera cassetta del liquore, che aveva proprietà digestive. Il dono lo indusse a scrivere un'altra poesia di ringraziamento: “Io quando ordino, lo tenga a mente / che non le voglio così per niente”. Assicurò, inoltre, sempre in quella circostanza, che il liquore l'avrebbe fatto bere anche ai suoi operai. “Essendo da molti anni capo cava / ancor non ho pensato ai miei operai / che faticano molto / È gente brava / ma bevon ponci e vino e spesso assai / per l'ubriachezza sono molto fiacchi / sì che il lavoro ne risente guai”.


In una poesia scritta nel 1912 al figlio Pasquale, in viaggio verso la Tripolitania - dove avrebbe partecipato alla guerra contro i Turchi - Viti dimostrò di avere un alto senso del dovere e della disciplina, esortando il suo ragazzo a non badare alla fatica, ad obbedire agli ordini dei superiori di qualsiasi grado.

È bello che questo linguaggio sia sgorgato dal cuore di un uomo impegnato in lavori durissimi sulla cava per 12 ore al giorno, dove in due settimane venivano “riquadrati circa 100 tonnellate di blocchi di marmo”, come scrisse in calce ad una poesia inviata ad un suo amico il 14 luglio 1908. Una fatica immane che tuttavia non gli impedì, nel tempo libero, di stringere la penna fra le dita della sua callosa mano, per scrivere quanto gli dettava la sua anima di poeta.

Nei suoi versi non si abbandonò alla contemplazione delle bellezze della natura coi fiori, i colori ed i paesaggi incantevoli bagnati dal mare, che in Versilia sono costantemente sotto gli occhi di tutti, ma si concentrò sugli aspetti della vita di tutti i giorni, le sofferenze e le fatiche delle persone umili e forti che, con i loro sacrifici, nobilitarono la nostra amata Versilia.


Filettole

Io sto bene. Filettole mi piace
per la sua posizione, per le persone.
Star lontano da te certo mi spiace.
Ma sai ben che ubbidir bramo il padrone,
lui comanda, ubbidisco, in questo caso
di non sbagliare son ben persuaso.
 
Siede il paese ai piè d’una collina
del Serchio a destra il quale vita prende
dei monti cui l’altissimo confina
e bello e calmo alla marina scende
contornato di borghi e di Villetti
e di fertil campi e di vigneti.
 
Gentili docili oneste le persone,
vivon tranquille, in questa valle amena
e di natura diligenti e buone e buona
l’aria che il bel Serchio mena.
Qui predomina molto per natura
più che l’industria la bella agricoltura.
 
Ed il secondo venerdì del mese
terzo dell’anno, vieni che qui ti aspetto
che in procession vedrai per il paese
Croce e Cristo portar con gran rispetto.
Si bestemmia ma in cor credi si vede
vive la Religion vive la Fede.
 
E benché per comizi e conferenze
e prediche di preti e pistolotti
vengan suggestionate le coscienze
degli ingenui assai più che non dei dotti
vive la pace ossia regna la quiete
benché molti, si sa, non sian col prete.
 
Qui è libero ciascun e il suo pensiero
esponer puote e la sua propria idea
favorevole o contro il ministero.
Di fede religiosa oppur atea
discute ogniun secondo sua opinione
e discutendo non si va in questione.
 
 
Francesco Viti  (1902)

Le nostre radici cristiane

 

Di recente in Francia c’è stata un’aspra polemica perché l’artista che ha disegnato il manifesto per le prossime Olimpiadi, Ugo Gattoni, ha eliminato la croce dalla cupola dell’Hotel des Invalides. Lui ha detto che non aveva alcun secondo fine ma per molti questo è solo l’ultimo esempio della rimozione delle nostre radici cristiane.

Nei lontani anni Trenta frequentavo la scuola elementare di Seravezza (Lucca), quando un giorno il maestro ci parlò delle Crociate. Qualche giorno dopo si soffermò sullo scontro navale del 7 ottobre 1571 nelle acque antistanti Lepanto, conclusosi con la vittoria dell’armata navale cristiana. Benché siano trascorsi tanti anni da quel giorno lontano della mia fanciullezza, ricordo ancora la commozione che mi pervase mentre ascoltavo il mio insegnante, con gli occhi che si inumidivano dalle lacrime. Nel mio cuore di bambino rimase impressa la figura di Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, che insieme a Baldovino di Fiandra, Tancredi e Boemondo d’Altavilla, partecipò alla prima spedizione (1096-1099), invocata da Papa Urbano II durante il Concilio di Clermont, che si concluse con la conquista di Gerusalemme. Mi colpì che Goffredo di Buglione rifiutò la corona di re della Terrasanta, accettando per sé solo il titolo di “difensore del Santo Sepolcro”.

Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata descrisse Goffredo di Buglione come il prototipo dell’eroe cristiano. Ho sempre pensato che la fede cristiana possa condurre tutti gli uomini a vivere in un mondo migliore, più giusto e umano, senza frontiere e lotte di classe. In un mondo complesso come quello attuale necessariamente bisogna avere rispetto per tutte le religioni, anche se quella islamica appare per certi versi in antitesi rispetto al cristianesimo. Così come noi rispettiamo chi professa altre religioni, analogo riguardo deve essere rivolto ai cristiani in tutto il mondo. Il rispetto esige rispetto. Diversamente si arriva al caos.

In Italia vivono molti stranieri che professano religioni diverse da quella cristiana. Alcuni purtroppo non accettano di adeguarsi alle leggi del Paese che li ospita. Toufic Fahd e Alessandro Bausani nel libro “Storia dell’islamismo” (Editori Laterza, 1986) hanno scritto che “l’Islam, non ammettendo la conoscenza razionale,  fonda le sue conoscenze solo sulla fede come valore assoluto, cioè su un fideismo cieco in nome del Corano”.

Il Corano non può essere compreso facilmente da un cristiano perché in esso è prescritta la guerra (Cor.2.216). “Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite . Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete”.

“Uccidete gli idolatri ovunque li troviate” (Cor.9.5). “Profeta! Lotta contro gli infedeli e gli ipocriti e sii duro con loro” (Cor. 66.9). Lo scrittore Carlo Sgorlon in un articolo su Il Tempo evidenziò che “il Corano è l’unica legge religiosa e civile, immutabile e intoccabile, il vero musulmano non conosce la tolleranza e non cede mai, ‘o fai ciò che lui vuole, oppure si arriva alla guerra’”.

Il cristiano di oggi non è chiamato a fare le Crociate come nell’antichità. La nostra religione ci impone il dialogo, l’ascolto, la carità, il perdono e il camminare insieme. Tutte virtù esaltate dall’esempio di Gesù, che ci chiede di portare la sua parola in tutto il mondo ma non di imporla né di schiacciare il pensiero o le usanze altrui. Rispetto, prima di tutto. Quello stesso rispetto che dobbiamo oggi esigere per i cristiani nel mondo. Non è più ammissibile che avvengano crimini efferati, come di recente avvenuto in Burkina Faso, dove un gruppo di terroristi è entrato in una chiesa uccidendo decine di fedeli riuniti in preghiera. Non sarà facile raggiungere questo risultato. Che Dio ci aiuti. A noi resta la preghiera.

mercoledì 13 dicembre 2023

L’oro alla Patria, tra propaganda, miseria e consenso




Ricordo quella mattina del 18 dicembre 1935, una settimana prima di Natale, in cui mia madre uscì di casa e tornò, tutta emozionata, senza più la fede d'oro ma con un cerchietto di ferro al dito. “Ha fatto il suo dovere! L'ha donato alla Patria”, lessi sulla ricevuta che le fu rilasciata. Avevo solo cinque anni ma sapevo leggere avendolo imparato frequentando l’asilo infantile Delatre di Seravezza.

Mia mamma donò la sua fede nuziale, il solo oggetto d’oro che possedeva, come fecero moltissimi italiani aderendo alla mobilitazione nazionale promossa dal governo fascista per rispondere alle sanzioni varate dalla Società delle Nazioni contro l'Italia, perché il nostro Paese aveva attaccato e invaso l'Etiopia. Erano gli “anni del consenso”, come più tardi li definì lo storico Renzo De Felice. L’Italia era tutt’uno col suo capo, Benito Mussolini. Rinunciare a qualcosa di così intimo e caro come una fede nuziale era un sacrificio, certo, ma al contempo un gesto di amore verso la propria Patria. Questo almeno era il pensiero indotto dalla propaganda fascista.

La “Giornata della fede” fu un successo. In tutta l’Italia furono raccolti milioni di fedi nuziali e un quantitativo complessivo d'oro pari 33.622 chili e 93.473 di argento. Solo a Roma furono raccolti più di 250.000 anelli, a Milano circa 180.000.

Illustri personalità del tempo aderirono all’iniziativa donando i loro oggetti preziosi. La regina Elena del Montenegro donò la propria fede e quella del marito, re Vittorio Emanuele III, il sovrano successivamente aggiunse dei lingotti d’oro; il principe Umberto donò il Collare dell’Annunziata; Rachele Mussolini, moglie del Duce, la propria fede nuziale; Luigi Pirandello donò la medaglia del premio Nobel; Guglielmo Marconi (la fede e la medaglia da senatore); Luigi Albertini e Benedetto Croce la medaglia da senatore; Gabriele D’Annunzio consegnò una spada d’oro, sette medaglie d’oro e la Military Cross ricevuta dal re d’Inghilterra.

La cerimonia principale si svolse, a Roma, all’Altare della Patria. Con queste parole Mussolini sintetizzò il senso della giornata: “Oggi l’Italia è fascista e il cuore di tutti gli italiani batte all’unisono col vostro, e tutta la nazione è pronta a qualunque sacrificio per il trionfo della pace e della civiltà romana e cristiana”.

È bene ricordare quale fosse il sentimento degli italiani rispetto alla conquista di “un posto al sole” annunciata da Mussolini. Il fascismo era riuscito a rinvigorire lo spirito nazionalista e l’idea di conquistare un territorio in Africa, così come avevano fatto altri paesi europei, era considerata non solo giusta ma necessaria. In più la propaganda usava il tasto della civilizzazione. L’Italia, in pratica, non andava solo a conquistare una terra ma anche a portare la civiltà e la libertà. Persino la Chiesa era a favore. Queste le parole pronunciate dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster durante un’omelia: “Pace e protezione all’esercito valoroso che in ubbidienza e intrepido al comando della Patria, a prezzo di sangue apre le porte di Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana”.

Come ha scritto la storica tedesca Petra Terhoeven nel libro “Oro alla Patria. Donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista” (ed. Il Mulino, 2006), l’iniziativa “Oro alla Patria” ebbe risultati notevoli, anche se non paragonabili ai costi di una guerra. Ma la raccolta dei beni preziosi fu soprattutto un grande evento di propaganda e di mobilitazione di tutto il popolo italiano, a partire dalle spose, coinvolte in prima persona nel sacrificio per la Patria.

La guerra in Africa si concluse nel 1936 con la conquista dell'Impero. Nel giro di pochi anni dichiarammo guerra alla Francia, all'Inghilterra, e poi alla Russia, schierandoci nel secondo conflitto mondiale a fianco della Germania di Hitler, scelta che ci portò sofferenze, fame e distruzioni. In nome della Patria a scuola ci dissero: “Portate un po' di lana dei materassi. È necessaria per fare i calzettoni per i nostri soldati in Russia, altrimenti rimarranno con gli arti congelati”. Ancora in nome della Patria ci tolsero le inferriate e si presero le pentole di rame per fabbricare armi. Subimmo bombardamenti e immani distruzioni e ci furono moltissime vittime innocenti. Lungo è l'elenco dei soldati, marinai e aviatori italiani che non fecero più ritorno nelle loro case in quanto uccisi in combattimento. 

La mia casa del Ponticello di Seravezza (Lucca) nella tragica estate del 1944 fu fatta saltare in aria dai tedeschi, insieme a molte case sia del capoluogo seravezzino che di altre località della Versilia, che divenne l'estremo limite della Linea Gotica. Le antiche frazioni di Corvaia e Ripa furono completamente rase al suolo. 

Negli ultimi giorni del tragico conflitto, a Dongo, i partigiani trovarono ai gerarchi fascisti in fuga con Mussolini due brocche piene di fedi nuziali che le spose italiane avevano donato alla Patria. Ma quale Patria?

giovedì 31 maggio 2018

Non ho mai più bevuto un'acqua così buona


Ero un bambino sui sei o sette anni quando la mia cara mamma era solita portare me e mio fratello Sergio al mare a Forte dei Marmi. Ricordo che a Seravezza faceva molto caldo ed era bello per noi ragazzi poter fare dei bei bagni vicino alla riva del mare, dove l’acqua non era profonda, e quindi non correvamo alcun pericolo.

Il mio babbo in quel tempo era andato, con altri dieci cavatori di Seravezza, tra i quali ricordo Sandrino Neri, marito dell’Adalgisa, a lavorare in Africa come operaio addetto alla costruzione delle nuove vie di quel territorio, conquistato dopo la guerra italo etiopica (1935-36) combattuta in Abissinia contro il negus Hailé Selassié e la "conquista dell’impero" voluto da Benito Mussolini.

Forte de Marmi la raggiungevamo a piedi. Quando finalmente arrivavamo, ci toglievamo gli zoccoletti o i sandalini e camminavamo sulla spiaggia, la rena scaldata dal sole scottava i nostri piedi. Sostavamo sotto il pontile per un po' di tempo per riparaci dal sole. A mezzogiorno ci spostavamo nella vicina pineta, dove mangiavamo delle ​polpette eccezionalmente saporite che la sera prima mia mamma aveva preparato per mangiarle al mare. Erano davvero molto buone. Con sorpresa lo stesso sapore lo risentii e ancora lo risento nelle polpette che mi cucinò (e ancora oggi lo fa) mia moglie Angela Pucci, seravezzina come me.

Non siamo mai entrati in un bagno dotato di cabine, con gli ombrelloni e sedie a sdraio, in quanto mio padre in Africa percepiva un paga lorda giornaliera di lire 40, detratte lire 3,80 per il vitto giornaliero, e comprate le sigarette e qualche bicchiere di vino, gli rimanevano poco più di 30 lire al giorno. Si stentava a tirare avanti.

Quando sostavamo in piazza Garibaldi di Forte dei Marmi, prima di iniziare il viaggio per tornare la sera a casa, ci ristoravamo bevendo un bel bicchiere di acqua all'anice, servita con il ghiaccio. La vendevano due donne, una anziana e l’altra molto giovane. Appena la bevevamo ci pareva di rinascere. Le due donne come attrezzatura di lavoro avevano fatto costruire un banco a forma di barchetta, dove tenevano i bicchieri e i recipienti contenenti l’acqua aromatizzata.

Sul libro "La Versilia Rivendica l’Impero" di Giorgio Giannelli a pag. 263 è riprodotta  la foto delle due donne intente a vendere ​l’acqua, che veniva preparata  dalla più anziana, Lorenza Paolicchi, detta la "Lorè dell’acquetta". Con lei c'era sua nipote, Raffaella Gianfranceschi.

L’acqua era a base di limone e anice e veniva servita con il ghiaccio. Era una bevanda dissetante e prelibata. I tanti versiliesi del fiume che scendevano dalla montagna per farsi un tuffo al mare, si fermavano al banchetto della Lorè per combattere l'arsura dell'estate con un bel bicchiere di questa buonissima acqua. Quel sapore fresco e piacevole mi è parso di risentirlo quando mio figlio mi ha regalato, non molto tempo fa, delle caramelle all'anice.

Renato Sacchelli

mercoledì 23 maggio 2018

Due angeli nel pozzo


Un uomo, col volto
da lacrime bagnato
dall’orlo del pozzo
col microfono in mano
attaccato a un filo
penzoloni nel vuoto
parlava al bambino:
“Stai calmo, tranquillo,
non disperarti Alfredino.
Una macchina bella
splendente come una stella
è partita e ti raggiungerà,
tra poco ritornerai
tra le braccia
di mamma e papà.
Sì, è davvero fantastica,
a te parrà irreale...
sai, perfora la terra,
raggiunge la luna
lambisce le stelle
e tocca il fondo del mare.
Stai calmo Alfredino".

Per ore e ore
il buon Nando parlava
e il piccino lo sentiva vicino.
Erano le parole che udiva
a scaldare il suo corpicino.

E con le cose belle
che il vigile del fuoco diceva
Alfredino, nel buio profondo,
rivedeva la luce, il sole,
i prati fioriti e i giochi felici.

Il tempo però passava
e come la tv ci mostrava
la macchina non arrivava.

Era l’udire il pianto straziante,
a farci sentire il suo soffrire,
il lento morire sprofondato
a decine di metri più giù.

C’è stato un momento
in cui s’è davvero sperato
che venisse salvato
dai coraggiosi giovani
che legati alle corde
nel pozzo si son calati
e hanno raggiunto
il piccolo Alfredino,
ma invano hanno lottato,
il fango la loro stretta
ha allentato
e con poco fiato
non hanno più riprovato.

Dio che tanto abbiam pregato
perché vivo dai suoi cari 
potesse ritornare
solo non l’ha lasciato.
Un angelo gli ha mandato
che ha accarezzato,
asciugato e baciato
quel caro e piccolo
volto infangato
finché sul suo viso
è riaffiorato il sorriso
e dolcemente
si è addormentato
per sempre in Paradiso.

Renato Sacchelli



Dedico questa poesia all'amico don Giorgio Servi, che purtroppo ci ha lasciati diversi anni fa. Fu lui, dopo avergliela letta, a suggerirmi di concludere con le parole "in Paradiso".