martedì 21 luglio 2015

GLI EROI DELLA PACE

Con questo racconto ho vinto il primo premio al 13° Concorso di Narrativa 2015 intitolato all’Ammiraglio d’Armata “Enrico Millo”, organizzato dalla sezione Unuci (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia) di Chiavari.

La chiesa di San Nicola, nel pieno centro di Pisa, non è mai stata così piena di Autorità militari e civili, Associazioni combattentistiche e d'Arma, e moltissimi fedeli. Un numero così imponente di persone ha reso necessario installare, nella vicina piazza Carrara, un maxi schermo per consentire a coloro che sono rimasti fuori di assistere alla funzione religiosa, celebrata dall'arcivescovo di Pisa, monsignor Alessandro Plotti, e da dodici sacerdoti concelebranti. Una città intera dà l'ultimo saluto al maggiore dei paracadutisti Nicola Ciardelli, chiuso in una bara avvolta dal tricolore.

“Questa mattina ha vinto la vita - dice monsignor Plotti nell'omelia - ha vinto l'amore. Il piccolo Niccolò (figlio di Nicola, nda) e il cuginetto Matteo, con il battesimo celebrato poco fa hanno sconfitto la morte, l'odio, la violenza e il terrrorismo”. Dopo il battesimo l'arcivescovo mette al collo del bambino una medaglia d'oro donata dall'Esercito italiano, che per la tragica fine in missione ha promosso di grado suo padre.

C'ero anch'io quella triste mattina nella chiesa di San Nicola, nella rappresentanza, con la bandiera, della Sezione dei Finanzieri in congedo di Pisa. Era presente anche mio figlio e con lui tanti ex Piccoli cantori che in anni lontani, insieme a Nicola, fecero parte del coro di voci bianche guidato da Padre Renzo Spadoni. Una corale conosciuta e apprezzata anche all'estero.

Nicola era nato a Pisa l'11 settembre 1972. A Pisa è tornato, per l'ultima volta, il 2 maggio 2006, dopo aver perso la vita pochi giorni prima in un attentato terroristico avvenuto a Nassiriya (Iraq). Lo ricordo bambino, quando con la sua voce, insieme agli altri piccoli del coro accompagnava le messe domenicali. E nei bellissimi concerti che i “Pueri cantores” tenevano in Italia e all'estero. Dopo la cresima Nicola iniziò un percorso di fede tra i giovani agostiniani. Poi, dopo essersi diplomato, lasciò la sua città per raggiungere l'Accademia di Modena, dove nel 1991 iniziò la carriera militare, a cui aveva sempre pensato fin dal liceo. Frequentò il 173° corso allievi ufficiali e il 131° corso di Stato maggiore. Laureatosi in Scienze Strategiche, sposò la signora Giovanna Netta. Dal loro matrimonio nacque il piccolo Niccolò, venuto alla luce nel febbraio 2006.

Ufficiale in forza alla divisione Folgore, acquisì una notevole esperienza partecipando a diverse missioni all'estero: nel 1999 in Bosnia, nel 2002 in Kosovo, nel 2003 in Afghanistan ed in Iraq nel 2004 e 2006. Frequentò i corsi di paracadutismo, pattugliatore scelto, acquisizione di obiettivi, alpinismo e istruttore di ranger. Nell'ambito dell'operazione Antica Babilonia, il capitano Ciardelli svolse l'incarico di ufficiale di collegamento al Pjoc (Provincial joint operation center). L'ultimo reparto in cui prestò servizio fu il 185° reggimento acquisizioni obiettivi, con sede a Livorno, un reparto d'élite dell'Esercito.

Nel 2006 Nicola era tornato in missione in Afghanistan. La mattina del 27 aprile dalla base di Camp Mittica partì, a bordo di uno dei quattro blindati dei carabinieri, per raggiungere l'ufficio provinciale di polizia irachena, per svolgere i consueti servizi di vigilanza e di coordinamento dei pattugliamenti, come già aveva fatto tante altre volte.

Sfortunatamente alle ore 8.50 locali (in Italia le 6.50) il mezzo su cui era salito passa sopra un ordigno posto al centro della carreggiata che, esplodendo, a causa dell'impatto, squarcia il punto più debole della struttura del blindato, che è quello posto dove c'é la sottoscocca vicina al lato della ruota sinistra La fiammata provocata dall'esplosione penetra all'interno del mezzo con un'altissima temperatura trasformandolo in un forno. Così, per choc termico, il capitano Ciardelli muore all'istante, mentre in Italia la sua sposa lo aspettava per battezzare insieme il loro bambino nato da pochi mesi. Muore subito anche il caporale rumeno Hancu Bogdan. Poco dopo, prima di raggiungere l'ospedale, muore anche il maresciallo aiutante dei carabinieri Franco Lattanzio e il suo parigrado Carlo De Trizio. Il 7 maggio si spegne anche il maresciallo aiutante Enrico Frassanito, rimasto gravemente ferito e trasportato a Verona dopo aver ricevuto le prime cure a Madinat al – Kuwait (Kuwait City).

Ma cosa poteva essere ad aver spinto Nicola a impegnarsi in queste difficili missioni all'estero? Sicuramente il senso del dovere per le istituzioni e la divisa che indossava, con amore e fedeltà. E senza alcun dubbio anche il coraggio, quel grande coraggio che lo spronò a portare avanti la sua azione nelle zone più pericolose del mondo, dedicando le proprie energie affinché le popolazioni martoriate dalle guerre potessero tornare a vivere in pace.

Il terrorismo purtroppo ancora oggi continua a compiere delitti efferati e tanti, troppi soldati impegnati in missioni di pace, purtroppo perdono la vita. L'enorme sacrificio di sangue dei militari impegnati all'estero in missioni di peace keeping e di contrasto al terrorismo mi fa pensare, a una iniziativa simbolica che potrebbe essere presa per far sentire loro l'affetto e il rispetto da parte di tutti i cittadini e le istituzioni: dovrebbero essere insigniti del titolo onorifico di “Cavalieri della Pace”. Un'iniziativa di mero valore simbolico ma di estrema importanza che vorrei sottoporre all'attenzione del Presidente della Repubblica.

La signora Netta,avvocatessa Giovanna, straziata da un dolore immenso nel parlare del defunto marito, pronunciò parole di grande profondità: “Nicola era convinto di tutto quello che faceva e per me è sempre stato una colonna e un aiuto nelle decisioni più difficili”. Pur consapevole del pericolo che suo marito correva, lei aveva sempre appoggiato le sue scelte professionali. E soffermandosi sul suo bambino appena nato Giovanna ebbe a dire: “Se un giorno volesse intraprendere la carriera militare avrà sempre il mio appoggio incondizionato e sarò felice di questa sua scelta, come ne sarebbe felice anche suo padre”. Quella giovane vedova affrontò il dolore con grande compostezza e forza, perché teneva molto soprattutto a una cosa: far conoscere la personalità di suo marito, i suoi valori, la sua dedizione per la famiglia e il servizio svolto nelle nostre gloriose Forze Armate.

Ho gli occhi pieni di lacrime e non mi vergogno a scriverlo, mentre mi accingo a parlare delle missioni di pace in diversi angoli del mondo, per le quali sono morti molti soldati. Il nostro Paese “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli ed anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11 della Carta costituzionale), ma nel corso degli anni giustamente ha supportato diverse missioni internazionali, gran parte delle quali sotto l'egida delle Nazioni Unite, per cercare di riportare la pace nei teatri di guerra o per contrastare il terrorismo. Già cinquantaquattro nostri connazionali sono morti, molti altri sono rimasti gravemente feriti. Eppure, nonostante questo enorme tributo di sangue, mi sento di dire che il sacrificio dei nostri giovani militari non è stato vano e, proprio per questo, va apprezzato. Ci siamo mobilitati per un valore altissimo, la pace e la sicurezza dei popoli, non per motivi di conquista territoriale o egemonia. E in nome di questi valori umani abbiamo perso tanti nostri figli, fratelli o amici.

Rivedo ancora nei miei occhi le immagini terrificanti degli uomini lanciatisi nel vuoto dall'alto delle Torri gemelle di New York, contro le quali aerei guidati da terroristi kamikaze si infransero l'11 settembre 2001. Persero la vita 2.752 persone, altre 125 furono uccise a causa dell'attentato compiuto al Pentagono nello stesso giorno, altre 40 per lo schianto del volo dirottato della United Airlines, che nei piani dei terroristi avrebbe dovuto abbattersi, probabilmente, contro la Casa Bianca.

Dopo questa incredibile escalation terroristica diverse nazioni del mondo, in primis gli Stati Uniti d'America, inviarono in Afghanistan i propri contingenti militari per porre fine al regime talebano che dava ospitalità al leader della rete di al Qaeda, Osama bin Laden. La guerra al terrorismo è andata avanti per anni e, purtroppo, non ha portato grandi risultati. Si tratta, infatti, di una guerra asimmetrica, dove non vi sono due eserciti contrapposti che cercano di predominare l'uno sull'altro. Questo, ovviamente, rende tutto più difficile, anche nel modo di gestire e portare avanti un'efficace strategia militare. Con tutte le conseguenze del caso, sotto il profilo dei danni collaterali e dei gravissimi disagi e lutti patiti dai civili. Uno strazio che si protrae da troppo tempo. Purtroppo neanche il ritiro anticipato delle truppe americane dall'Iraq ha portato grossi vantaggi, visto il rigurgito del fondamentalismo islamico che, approfittando della debolezza di Baghdad, e della guerra civile in Siria, ha pensato bene di dare vita al famigerato Stato islamico, che si propone di seminare terrore nel mondo, con la scusa della religione. Che in realtà è solo un pretesto. Un obiettivo, quello dell'Isis, politico e terroristico al tempo stesso. Contro il quale, ancora una volta, si rende necessario uno sforzo militare organizzato da parte della comunità internazionale. A meno che non si voglia lasciare campo libero ai pericolosi tagliagole, termine che uso per ricordare il gran numero di persone sequestrate e, purtroppo, sgozzate dai criminali che inneggiano allo Stato islamico.

Ripenso al vile attentato compiuto il 12 novembre 2003 contro il contingente militare italiano a Nassirya, in Iraq, giunto fin lì per svolgere una missione di pace a favore della popolazione civile alla fine della seconda guerra del Golfo. Persero la vita 19 carabinieri, quattro soldati dell'Esercito e due civili.

Uomini eroici. Sì, senza inutile retorica si tratta di eroi della pace, che lottarono e continuano a lottare, fino al sacrificio più alto, quello della vita, per portare la pace, il benessere e la libertà, bene più importante per ogni uomo. La certezza che il loro grande sacrificio non è stato vano lenisce, ma solo in parte, l'enorme dolore che ha pervaso i cuori della mamme, delle spose, dei figli, dei nonni e di tutti gli amici di questi nostri piccoli grandi eroi. Molti dei quali senza medaglia. A loro va e andrà sempre il nostro sincero e commosso ringraziamento.

Linea Gotica: osservatorio tedesco sul monte Folgorito

Ho letto l'interessante libro, ricco di tante belle fotografie, intitolato "Viaggi nella Storia – La linea Gotica agosto 1944 –aprile 1945  I luoghi dell'ultimo fronte di guerra in Italia", edito da Il Giornale, che mi ha donato mio figlio Orlando, giornalista che scrive per tale testata giornalistica online. La prima cosa che mi appare davanti agli occhi è la fotografia dell'osservatorio sulla vetta del monte Folgorito, scattata da Davide Del Giudice, che d'un colpo mi ha fatto ricordare di avere visto quel luogo quel giorno che visitai, 70 anni fa, dopo lo sfondamento del fronte avvenuto nel mese di aprile del 1945. La Versilia fu l'estremo limite della Linea Gotica, in cui furono combattute per sette mesi aspre battaglie, con i tedeschi che riuscirono a fermare l'avanzata delle truppe alleate.
Appena ho aperto il libro mi è riapparsa davanti agli occhi l'immagine di quell'osservatorio tedesco dove notai, con sorpresa, che proprio sui sassi posti davanti all'ingresso erano stati abbandonati un paio di particolari calzature che noi ragazzi di Seravezza chiamavamo “sgroi”. Un paio me li fece fare anche mia mamma da un falegname, nostro vicino di casa, che si chiamava Carducci. Si trattava di una tomaia di vecchie scarpe, attaccata con piccoli chiodi sugli zoccoli. Ho scritto tanti racconti relativi al periodo tragico vissuto durante lo sfollamento, pubblicati sul periodico "Versilia Oggi", diretto dal giornalista Giorgio Giannelli. Sfollamento imposto da un ordine criminale impartito dai tedeschi. Ho visto saltare in aria la mia casa insieme alle altre del mio rione. Alcuni ricordi li ho riportati nel mio libro intitolato “Quando cadevano le castagne”.
Ancora oggi non so come sia riuscito a sopravvivere durante i sette mesi in cui la guerra insanguinò la nostra Versilia, alla fame e ai tanti atroci stenti. Non avevo mai parlato di questi "sgroi" coi quali il soldato tedesco teneva i piedi al riparo dal freddo invernale, perché non la ritenni una notizia importante.
Ringrazio mio figlio Orlando per il libro donatomi che mi ha fatto ricordare il tedesco ignoto che sui monti della Versilia (i più belli del mondo, come scrisse un corrispondente di guerra americano nell'inverno 1944/1945) soffrì tanto freddo ai piedi, notizia che ora mi fa bonariamente sorridere.

Alla Desiata mossi i primi passi

Ho letto con particolare interesse l'articolo scritto da Tiziano Baldi Galleni intitolato "Deturpato il Paradiso della Versilia", pubblicato su il Tirreno del 7 luglio u.s.. Mi ha colpito perché proprio alla Desiata mossi i miei primi passi di bambino, nato nel settembre del 1930. I fratelli Pellizzari, noti industriali versiliesi del marmo e proprietari di cave di marmi bianchi in Trambiserra, avevano dato lavoro a mio padre nella loro segheria della Desiata, dopo il grave infortuno che gli era capitato nel rigido inverno del 1928-1929, quando la neve imbiancò l'intera Versilia e gran parte d'Italia. Nel percorrere il sentiero per raggiungere o discendere dalla cava sulle Apuane del Vestito, gestita dai fratelli Pellizzari (alle cui dipendenze mio padre già si trovava) non riuscendo a vedere il sentiero a causa della neve troppo alta, scivolò, facendo un salto nel vuoto per cento metri. La neve che lo aveva fatto cadere nello strapiombo l'aveva anche salvato, perché questo suo volo fini su un'alta e morbida coltre di neve. anche se ho sempre pensato che a salvarlo sia stata la Madonna del Cavatore.

Rimase sei mesi disteso su una tavola di marmo dell'ospedale di Massa, dopo un periodo di convalescenza si sposò, ma i dolori di questo casco, come lui spesso me lo ricordava, li risentì, molto gravemente, soprattutto, durante gli anni della sua vecchiaia. Ricordo, ancora il bagno che mio padre stringendomi forte fra le sue braccia, mi faceva fare, mentre anch'io mi stringevo forte a lui per la paura che sentivo di avere nel trovarmi su un tratto del fiume profondo, proprio all'imbocco dell'acqua dove girava il rotore, nel quale c'erano tanti pesci.

Un giorno quando vidi una grossa bodda sul fondo delle scale vicino alla porta d'ingresso di casa, mi spaventai da morire da tanto che era brutta. Quante emozioni provai da piccolo alla Desiata, come avvenne quel giorno che mio padre salì e si distese sul grosso carrello della teleferica il cui impianto terminale era vicino alla segheria, per arrivare sulla cava del Trambiserra per poi proseguire il cammino, tra gli irti sentieri, per andare a trovare i suoi genitori che abitavano in località Strinato vicina a Strettoia dove coltivavano una vigna e un oliveto di proprietà di una ricca famiglia di Seravezza. La teleferica partì dopo che un cavatore colpi con un paletto di ferro il suo filo.

Ho un vago ricordo quando mi aggirai tra i macchinari che facevano girare i telai, procurando molte preoccupazioni alla mia mamma che non si era accorta del mio allontanamento da lei: ma ero stato bravo, non avendo toccato nulla. 

Ricordo di essermi più volte dissetato presso la fontana dove era solita rifornirsi di acqua la locomotiva della tranvia dell'Alta Versilia che era solita caricare e portare a valle i blocchi di marmo a bordo dei vagoni che venivano messi brevemente sul poggio di caricamento ubicato vicino alla segheria. 

Nel piazzale della segheria c'erano tanti giovani raffilatori di Seravezza, tra i quali ricordo Armandino Bandelloni che poi rividi, per anni, al Ponticello di Seravezza, dove la mia famiglia si trasferì in una casa per farmi frequentare l'asilo infantile Delatre. Lì restammo fino al giorno tragico dello sfollamento ordinato dai tedeschi nell'estate del 1944.

Da bimbo mai fui portato a vedere la cascata della Desiata e il Pozzo della Madonna, un luogo che vidi soltanto negli anni del dopoguerra, quando trascorrevo le licenze nella casa dei miei suoceri Pucci Giuseppe e Guerrini Bruna. Per anni notai che era un luogo dove masse di giovani trovavano refrigerio tuffandosi nelle sue fresche acque che uscivano e continuano ad uscire nei mesi asciutti dell'estate davvero da sotto il monte Altissimo, la montagna di Michelangelo.

Nei primi anni 80 nella cascata della Desiata affogò Cristina, la figlia di mia sorella Renata. Ragazzina volle raggiungere quel luogo per rinfrescarsi insieme ad altri coetanei. La sua morte fece sprofondare nel dolore la sua mamma, le sue sorelle e tutti i suoi cari. Mi è di conforto pensare che la sua anima giri negli spazi infiniti del Cielo fra gli Angeli e gli Arcangeli, sotto gli occhi del nostro Dio Misericordioso che ci ha creato.

Concludo dedicando un pensiero a coloro che hanno deturpato un luogo cosi bello e fresco come la Desiata, da anni punto d'incontro per tantissimi ragazzi. Li vorrei invitare a non imbrattare più questo luogo con scritti o segni privi di senso. Provino a dipingere su tela, su carta o altri materiali, oppure si cimentino con un mazzuolo e una subbia per provare a scolpire il marmo (io in età già adulta l'ho fatto, traendone grande soddisfazione, pur non avendo frequentato scuole o corsi). Chissà se fra di loro, salterà fuori un bravo pittore o scultore. Auguri a tutti! Anche alla nostra bella Desiata.