IL MULO BRUNETTO
Amo ancora parlare del mulo, questo animale ibrido e
infecondo, nato dall'unione di un asino e di una cavalla, sin dai
tempi più antichi utilizzato dall'uomo per trasportare materiali e
viveri nelle località montane, raggiungibili percorrendo, soltanto,
difficili sentieri. Molto vigoroso, ha esigenze alimentari
qualitativamente modeste. E' un simbolo di testardaggine e
ostinazione. Con la costituzione del Corpo degli alpini avvenuta nel
1872, questo animale si rivelò un veicolo a motore a quattro zampe e
fu impiegato nelle attività operative dagli alpini, in particolare
durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, trasportando sulle
impervie trincee, scavate fin sulle più alte vette alpine, dove si
erano trincerati i nostri soldati, armi, munizioni e viveri. I muli
furono impiegati anche durante la sanguinosa guerra combattuta in
Russia per assicurare i necessari rifornimenti ai nostri soldati,
operanti nelle zone dove furono combattute aspre battaglie.
Giorgio Giannelli sul libro “La Versilia ha vinto la
guerra” oltre alle tante pagine di eroico valore scritte col
sangue da tutti i nostri soldati che combatterono su ogni fronte, ha
narrato anche il racconto che ci ha lasciato l' alpino Silvano
Alessandrini, famoso scrittore e poeta dialettale versiliese, che fu schierato
col suo reggimento sul fronte greco-albanese. Silvano racconta quel
giorno che stava seduto su un muretto con un piede congelato. Teneva
una coperta ripiegata sul suo corpo e le scarpe slacciate. Mentre si
palpava i fori sotto i calzettoni di lana, udì una voce
inconfondibile che gli fece alzare il capo. Vicino a lui, sul
muricciolo di pietre, erano stati messi zaini affardellati. Accanto a
quelli deposti sull'erba ricoperta dalla neve stavano seduti una
decina di alpini che mangiavano delle gallette. Tra loro c' era un
alpino che indossava il grado di tenente. L'ufficiale portava sulla
testa il cappello nuovo di zecca con penna a 85 gradi. Lo sguardo
del tenente fissato sulle montagne innevate si abbassò per un
attimo su Silvano, poi si voltò per impartire ordini ai suoi
soldati. Proprio in quel momento Silvano instintivamente lo chiamò
ad alta voce: “O Tito!”. Il tenente, che stava un quindicina di
metri di distanza, si volse di scatto e lo fissò. Quella voce
l'aveva impietrito, perché l'accento gli risultava, familiare, ma
l'aspetto molto malconcio dell'alpino non gli aveva consentito di
riconoscerlo. Silvano invece lo riconobbe. Chi gli stava di fronte
era Tito Salvatori, di Strettoia (Pietrasanta).
“Chi sei?”, gli chiese il tenente dopo un
attimo, senza muoversi, fissandolo intensamente. Silvano non gli
rispose. Allora l'ufficiale , facendo alcuni passi, si mosse
lentamente verso di lui.
“Chi sei, per Dio!”, esclamò con foga il tenente. “Sono
Silvano. Silvano Alessandrini”. L'abbraccio che seguì fu forte,
lungo e molto commovente. Entrambi rimasero abbracciati per un po' di
tempo con le lacrime agli occhi. “Tu in questo stato...
”
disse balbettando Tito. Poi tirò fuori dalle tasche un pacchetto
di sigarette che donò a Silvano, rammaricandosi di non avere altre
cose da offrirgli. Tito accompagnò Silvano, sorreggendolo, in una
stanza sotto una casupola di bianche pietre dove c'era della paglia,
poi uscì per andare a trovare qualcosa, mentre lui rimase in attesa
del suo ritorno sdraiandosi sulla paglia. Tito ritornò poco dopo con
alcune pagnotte.“Non ho trovato altro” gli disse, e aggiunse: “Se
è vero che che l'
argent fa la guerra, per Dio, noi non
vinceremo”. Infine lo aiutò ad uscire da quella stanza in
penombra perché voleva fotografarlo. Ci riuscì un po' malamente
perché le mani di Tito ancora tremavano. Fu quella foto
l'unico
ricordo della travagliata
guerra combattuta dall'
alpino Silvano Alessandrini, che lui conservò sempre nel
portafoglio finché visse.
Dopo aver scattato la fototografia Tito disse a
Silvano che doveva allontanarsi per raggiungere il comando del
reggimento, dove era passato anche Silvano, assicurandogli che al suo
ritorno gli avrebbe portato qualcosa. Ma Silvano non lo rivide più.
Un'ora più tardi,
sul calar della sera, Silvano sentì il passo di un mulo vicino alla
porta e udì una voce che disse:
“Caporale andiamo!”. L'Alessandrini si alzò. Essere rimasto
disteso sulla paglia aveva riacutizzato i dolori ai piedi. Incespicò
nel fare i primi passi, motivo per cui fu sorretto da mani robuste
che lo afferrarono sotto le ascelle e lo issarono in groppa al mulo.
Gli “sconci” (conduttori dei muli) che avevano condotto fin lassù
i gli animali carichi di pagnotte, si apprestarono a ridiscendere il
monte con Silvano in groppa ad uno di essi. “Tu - disse a Silvano
l'uomo che teneva l'animale alla cavezza, - se vedi l'animale che ti
disarcia digli: 'Brunetto', intesi? Lui è il più coglione della
batteria, ma è intelligente”. Silvano capì le parole dello
sconcio quando la colonna dei muli si incamminò giù nei passaggi
più difficili, esponendo i suoi piedi al rischio di uno sfregamento
quando la pancia del mulo sfiorava contro la roccia nei tratti più
stretti dei passaggi sul ripido sentiero. Soltanto una volta sentì questo
sfregamento, ma senza patire alcun dolore. Richiamò il mulo soltanto
due volte. Fu così che notò che l'animale, dopo essere stato
richiamato, rallentava il passo e procedeva più cautamente evitando
di sfregare nelle rocce. “Bravo Brunetto”, diceva lo sconcio
senza voltarsi, spostando solo il capo verso il muso del mulo.
Intanto era scesa la
notte di luna piena. Attraversando la valle a mezza costa i muli
camminarono ancora sui sentieri a strapiombo. Silvano si sentiva al
sicuro in quanto il mulo poneva le zampe una davanti all'altra,
tanto da sembrare che il mulo stesse danzando. Fu così che
l'animale, evitò pericolosi sobbalzi non ponendo mai lo zoccolo in
fallo.
Silvano sentiva il caldo del dorso del mulo sotto il suo
deretano, e la flessione dei muscoli sui fianchi della bestia, che
ogni talto accarezzava con la punta dei piedi.
Quando i muli arrivarono in una stretta valle la
carovana si fermò. Dopo essere stato scaricato e trasportato in una
vicina capanna, nella notte chiara il mulo raggiunse la distesa di un
mare di erba dove, senza rispondere al saluto dell'alpino versiliese,
Brunetto tuffò il muso per riempirsi la pancia.
Renato
Sacchelli
P.
S. Silvano ricevette le prime cure in Albania. Rientrato in Italia
fu curato a Roma, all'ospedale militare del Celio, dove gli furono
amputati un piede e una gamba. Per gli interventi subiti fu degente
anche all'ospedale Italo Balbo del Cinquale (Massa Carrara).