giovedì 6 giugno 2013

Seravezza STORIA DI RENATO sACCHELLI


La lettura dell’articolo “Il paese dell’anina” scritto dal professor Costantino Paolicchi e pubblicato sull’ultimo numero di Versilia Oggi, mi ha fatto rivedere la Seravezza degli anni della mia fanciullezza. Così la mia mente è ritornata a quando ero bambino e vivevo nella casa dei miei nonni materni dove nacqui il 25 settembre 1930. Ricordo che la mia mamma intorno al fuoco del camino raccontava, spesso a me e ai miei fratelli, fantastiche fole che ci facevano sognare, così come penso che era solito raccontarle anche il nonno di Enrico Pea, che sicuramente fu il primo maestro di vita del suo nipotino.

Nei miei occhi sono sono riapparse anche le immagini dell’immediato dopoguerra, con tutti i ponti fatti saltare in aria dai tedeschi insieme a molte abitazioni rase al suolo, fra le quali anche la mia casa. Seravezza fintanto che non fu insanguinata dalla guerra, fu popolata da uomini impegnati ogni giorno sulle cave, lungo le vie “della lizza”, nelle segherie, fonderie, officine e nelle falegnamerie e in tanti altri laboratori del marmo, tra i quali scolpivano anche bravissimi scultori. Ho rivisto il Caffè Centrale di Angelo Battelli, dotato di una voliera con pappagallo ed alcuni merli, ubicato nella piazza Carducci dietro il monumento ai Caduti ed anche innalzarzi nel cielo il grande pallone cartaceo, gonfiato sotto il calore dell’alcol acceso nella padella, che era solito far costruire lo stesso Battelli, noto animatore delle feste seravezzine. Un anno fece volare anche un asino di cartapesta dalla Mezzaluna vecchia fino alla piazza Carducci. 

E’ riapparsa nei miei occhi la criniera del Monte di Ripa, senza più neppure una pianta di pino né un arbusto, in quanto la cima, spazzata dalle cannonate e colpi di mortaio sparati dai tedeschi su quel terreno che fu la prima linea del fronte americano sotto il Castellaccio, pieno di trincee, cui si trincerarono i soldati americani, pareva che fosse stata arata, non c’ era rimasto un solo filo d’erba. Quel giorno che la percorsi, lassù, ad un tratto, respirai, un’aria maleodorante che proveniva da sotto una buca dove era stato sepolto, nei pressi di una trincea, un soldato americano ricoperto da poche palate di terra.

Era il lavoro che si svolgeva quotidianamente nella nostra terra che dava la vita alla gente, anche se era davvero tragico il faticare dei versiliesi e delle bestie da tiro dei carri carichi di grossi pezzi di marmo che venivano trasportati nelle segherie Nei pressi del Ponticello ho visto grossi carri provenienti dai poggi di caricamento del Trambiserra e della Desiata, tirati da più coppie di bovi i cui conducenti usavano la frusta per spronarli, tra urla e imprecazioni, perché producessero il massimo sforzo per tirare fuori i pezzi di marmo caricati sui carri impantanatisi nel fango alto della strada. Quando ero ragazzzo le vie del centro di Seravezza venivano sovente cosparse di ghiaia e il passaggio su esse dei carri e delle membrucche producevano molto polverone, tant’è che d’estate, per eliminarlo temporaneamente ci passava sopra un’autocisterna comunale che munita di un apposito annaffatoio vi lanciava forti getti di acqua.

All’inizio degli anni 40, nel tempo dedicato alla benedizione delle case, in cui svolgevo le mansioni di chierichetto, seguii  monsignor Angelo Riccomini , parroco di Seravezza, che benedì la casa di Teresa Pilli, la mamma di Dino Bigongiari, la donna più anziana del paese (mori a 106 anni). Era allettata e veniva continuamente assistita, notte e giorno, dalla mamma di Elena e di Vincenzo Tabarrani, noto calciatore del Seravezza. Negli anni 50 vidi uscire dalla casa dove abitava la vedova Bigongiari, un uomo che poi seppi che era suo figlio Dino, il professore che fece parte del corpo docente, dal 1904 al 1950, della Columbia University di New York. Durante la sua permanenza in America Dino Bigongiari ogni anno arava l’Atlantico, come lui era solito dire, per andare a trovare la sua mamma che non aveva mai voluto allontanarsi da Seravezza, facendosi anche accompagnare dalla donna che aveva spostato nel 1939, l’americana Gladis Van Brunt, che era stata una sua ex allieva.

Non è facile parlare del grande scrittore e poeta Enrico Pea nato nel 1881 a Seravezza e deceduto a Forte dei Marmi nel 1958. Lo incontrai nel 1950 una sola volta nelle strade di Seravezza vicino al Ponte della Passerella. Non sapevo chi fosse quell’uomo anziano davvero con una “barba da re biblico. ”Aveva il passo svelto, era in compagnia di un bel giovane, alto e coi capelli neri, forse era un suo nipote. Seppi da alcuni passanti che questo uomo era il famoso Enrico Pea. Non ho mai parlato con Enrico Pea, conosco soltanto le sue opere più famose da lui scritte che ho letto nel periodo più giovane della mia vita. Un mio amico che conobbi sin dall’asilo, che si chiamava Gianfranco Pea, scomparso qualche anno fa, mi disse ,nel tempo in cui andavamo entrambi a scuola, che Enrico Pea era  suo cugino.

Il professor Paolicchi ha evidenziato il seguente pensiero di Pietro Pancrazi , il quale nel collocare Enrico Pea fra gli scrittori d’eccezione ha asserito che costoro “scrivono come detta dentro e basta” Poi il Pancrazi si è domandato come il Pea abbia imparato l’arte? “Se fosse stata rivolta al Pea questa domanda, si sarebbero visti i suoi occhi rivolti al cielo per farci capire il suo riferimento alla Provvidenza." Ecco cosa pensò il Pancrazi in merito all’ attivita di scrittore svolta da Enrico Pea. Personalmente credo che scrivere in quel modo sia stato un dono datogli dal nostro Dio. Anch’io credo che la strada fu la sua scuola, Il primo suo maestro fu il nonno che con quanto raccontava al nipote gli accese la fantasia ad emularlo, tant’è che il suo primo libro che diede alla stampe fu proprio intitolato Fole, fattogli stampare da un editore di Pescara da Giuseppe Ungaretti, che Pea aveva conosciuto in Alessandra dì Egitto, e col quale fu legato da vincoli di fraterna amicizia. Penso che questa amicizia abbia spinto Enrico Pea a dedicarsi alla letteratura.

Enrico esercitò diverse attività: contadino , pastore, mozzo, meccanico, ferroviere , falegname e anche maggiante. In Egitto esercitò il commercio di marmi, di vini ed anche di castagne secche e di altri prodotti, ma non fu fortunato in questi commerci, forse non ci sapeva fare. Essendo stato un ammiratore di Enrico Pea accolsi con piacere l’idea che ebbe Enzo Silvestri, uomo sensibile e molto attaccato alla Versilia e in particolare a Seravezza che costituì un comitato cui aderìrono Giuseppe Tessa ed altri seravezzini che non cito perchè davvero non ho mai saputo chi fossero, per la raccolta di denaro per far scolpire il busto marmoreo di Enrico Pea che da anni si può ammirare in località Puntone di Seravezza, nel punto dove i due fiumi nei secoli trascorsi chiamati uno di Rimagno (ora Serra) e l’altro di Ruosina, (ora Vezza) si incontrano dando vita al fiume Versilia, per ricordare ai posteri che nella nostra terra era nato uno dei più bravi scrittori italiani contemporanei.

Mi fa piacere di avere contribuito, col pagamento, mi pare di ricordare,  di cinquantamila lire, alla realizzazione di questa opera, realizzata dallo scultore Enzo Pasquini, perché Enrico Pea sicuramente amò la sua Seravezza, nonostante abbia detto, “ Seravezza... il paese che m’ha negato il pane, ma che non rinnego né maledico”.