lunedì 28 novembre 2011

Al cimitero di Seravezza ho rivisto le persone più care della mia giovinezza

Qualche giorno prima dell'ultima commemorazione dei defunti sono salito al cimitero di Seravezza , dove riposano i resti dei miei genitori e suoceri, di mio cugino Marcello, di alcuni miei zii e dei nonni di mia moglie che ho conosciuto e ai quali ho voluto bene. Si, lassù sono sepolti tutti coloro che conobbi sin dagli anni della mia infanzia. Tutte persone di Seravezza dei miei anni più giovani e belli.
Con mestizia ho sostato davanti alla tomba di Benti Donato e della moglie Antonia Chelli, che abitavano vicino alla mia casa del rione del Ponticello interamente raso al suolo dai tedeschi nella tragica estate del 1944. Ho visto, da una bella fotografia esposta sulla tomba, che in essa era stato sepolto anche il loro genero - e mio caro amico - Mario Tarabella, che fu un bravissimo suonatore di sassofono. e clarinetto e un ottimo cantante. Mario aveva la musica nel sangue. Con una famosa orchestra nazionale si esibì anche all'estero. Fu maestro e direttore della banda dei Costanti di Seravezza.
Proseguendo la mia visita al cimitero, mi sono fermato davanti ad una tomba dove sapevo che riposano i resti dei genitori di un mio amico, Gianfranco Pea. Sono rimasto scioccato nel leggere, sulla lastra di marmo, che vi era sepolto anche lui. Ho sostato davanti alla sua tomba avvertendo un dolore cocente perché forti furono i legami che ci unirono negli anni della nostra fanciullezza.
Gianfranco Pea, insieme a Benti Alberto, Gianfranco Tommasi, Andrea Bandelloni, Matteo Bonci, e Aldo Tessa, furono i miei amici più cari sin dai tempi in cui frequentavamo l'asilo infantile Delatre e successivamente la scuola elementare e poi l'Avviamento al lavoro.Ricordo Gianfranco come un ragazzo molto bravo a scuola. Nel dopoguerra sia io che lui, grazie all'interessamento dei nostri padri ben conosciuti dal titolare dell'impresa e dai suoi dirigenti, per  il lavoro di operai da essi svolto nel passato nell'officina, ubicata alla Centrale, anch'essa rasa al suolo nel 1944, fummo assunti in qualità di apprendisti formisti dalla società Cerpelli che aveva, ripreso l'attività produttiva di pompe, con una officina a Querceta e una fonderia in un capannone ubicato nella vicina località chiamata Madonnina.
Dall' Uccelliera, dove abitavo, raggiungevo il posto di lavoro a piedi. Poche volte ho usato la bicicletta di mio padre. Nelle rare occasioni in cui si pedalava fianco a fianco per tornare la sera a casa, spesso sia io che Gianfranco, facevamo ripetuti scatti, dove lui sempre mi superava. Era un ragazzo fisicamente molto forte..
Ai tempi in cui, dopo l'8 settembre 1943, i repubblichini iniziarono a dare la caccia a Gino Lombardi l'eroico fondatore della prima banda dei partigiani in Versilia, chiamata i Cacciatori delle Apuane, Gianfranco ci raccontò che le milizie fasciste gli avevano bruciato la sua casa di Ruosina. Glielo aveva detto un suo cugino partigiano, di cui non ricordo il nome, che a guerra finita, rimase ucciso, insieme ad un suo compagno in seguito all'esplosione di una mina sotto i loro piedi quanto entrarono nel frutteto di Corvaia, allora esistente accanto al laboratorio dei marmi della ditta Casini e Tessa. Persero la vita, in un attimo, per cercare di mangiare alcune pere. .
La morte segna la fine del cammino terreno dell'uomo. L'anima si distacca dal corpo umano, per volare nella casa del nostro Padre Celeste.
Questa riflessione, ci deve dare conforto all' immenso dolore che avvertiamo quando cessano di vivere le persone più care della nostra vita. Quindi mi chiedo se si può essere felici al cimitero?
Alla luce della mia esperienza credo di sì, sapendo che morire è vivere eternamente, un premio per gli uomini pii e giusti.
Per quanto mi riguarda, constato che dopo tanti anni sono rimasto tra i pochi ancora in vita di quei mitici ragazzi di Seravezza.
Desidero rivolgere un caro saluto a tutti i miei compagni di studio e di giochi che ora sono lassù nel cielo, per vivere in eterno. Ciao amici miei!

giovedì 24 novembre 2011

Mio nipote Tommaso, ciclista, mi fa sognare


Mio nipote Tommaso Fiaschi corre in bicicletta. Nella stagione conclusasi recentemente con la corsa sul mitico Ghisallo, dove ha vinto il Gran premio della montagna e in volata è giunto terzo, è arrivato primo in dieci gare, di cui sette vinte in Toscana, due in Emilia Romagna e una in Trentino (riepilogo gare). Nella classifica nazionale della categoria Esordienti si è classificato al secondo posto, realizzando 87 punti dietro il campione italiano, il veneto Stefano Vettorel, che però ha vinto nove gare, una in meno di Tommaso.
Sulle strade della Valsugana Tommaso ha vinto la gara della Coppa d'oro (nella foto), da solo, senza compagni di squadra, con 160 partecipanti. Il giornalista del Tirreno Roberto Felici ha scritto che questa corsa vale quanto un campionato. L'articolo era intitolato così: “E' super la nona sinfonia di Tommaso Fiaschi”.
La sera del 3 novembre 2011 la trattativa con la “Nuova Abitare Cornici Pedale Certaldese” si è conclusa con il passaggio di Tommaso all'importante G.S. Stabbia Iperfinish che si avvale di esperti direttori e tecnici di grande valore.
La nuova società per la quale mio nipote correrà nel 2012 nella categoria Allievi e in quella Juniores nei due anni successivi, come ha scritto il team manager Massimo Cheli, “è consapevole di avere un ragazzo di valore da fare crescere e tutelare nel modo più assoluto, perché il ciclismo ha bisogno di vittorie oggi, domani... ma anche fra 10 anni e questo insieme al nostro benvenuto è quello che auspichiamo per Tommaso e per la famiglia Fiaschi”.

lunedì 21 novembre 2011

COME SALTARONO IN ARIA LE CASE DI SERAVEZZA NELLA TRAGICA ESTATE DEL 1944

Se non lo avessi visto coi miei occhi , avrei avuto molte difficoltà a comprendere, come un solo geniere tedesco della Wehrmacht, un giovane uomo, robusto di corporatura e con gli occhi azzurri e biondo di capigliatura, abbia potuto, con l'aiuto di due o tre operai della famosa organizzazione “Todt”, far saltare in aria le case di una parte di Seravezza, dalla Fucina al Ponticello e fino a Riomagno, ubicate a ridosso del monte Canala.
Il geniere, che indossava i gradi di sergente, lo vidi uscire dalla segheria del Salvatori non appena gli operai finirono di collocare, alla base dei muri perimetrali interni dello stabilimento, proiettili di artiglieria, collegati con fili elettrici ad un detonatore che poco dopo fu azionato davanti alla casa dei Combattenti, allora esistente nello stesso punto dove venne ricostruita nel dopoguerra. Molti proiettili di artiglieria li vidi ammucchiati ai margini del piazzale dei blocchi di marmi da segare, che si trovava proprio davanti al molino del Bonci
Il sergente aveva la pistola alla cintura. Per qualche decina di metri camminai al suo fianco, dopo aver udito un suono di una tromba e la voce di un donna che, urlando, avvertiva i presenti che dovevano allontanarsi perché i tedeschi avrebbero iniziato a far saltare in aria la segheria.
Mi sorprese vedere un solo militare tedesco perché ero convinto, quando si sparse la voce che i tedeschi stavano per iniziare la loro azione distruttiva del rione, dove c'era anche la mia casa abbandonata in seguito all'ordine di sfollamento, che di soldati germanici a Seravezza, in quel giorno, ce ne fossero tanti.
Il geniere non mi sembrò un uomo feroce. Ricordo il suo sguardo triste, forse perché il comando che gli era stato impartito lui non lo condivideva. A tutti noi non rivolse neanche una parola.
Le donne e i ragazzi, impauriti, non ebbero la forza per protestare. Anch'io assistetti impotente al compiersi di questo evento distruttivo e inimmaginabile, senza avere il coraggio di rivolgere la mia protesta al solo militare tedesco presente in quel giorno al Ponticello. Fui pavido e questo fatto mi fa ancora oggi arrossire dalla vergogna.
Appresi la notizia che i tedeschi stavano per far saltare in aria la segheria del Ponticello da due donne che salivano il sentiero che conduceva a Giustagnana con due fagotti sulla testa. Io, con altri ragazzi sfollati come me, stavo sotto i castagni vicini alla prime case. Di corsa andai ad avvertire mia madre e subito mi lanciai scalzo ed a spron battuto giù lungo il sentiero che conduceva a Riomagno. Ricordo che mentre correvo sentivo i garetti sfiorare il fondo dei calzoncini.
A Riomagno c'era una grande confusione. Tante donne e ragazzi grandicelli si davano da fare ad andare giù e in sù per trasportare pezzi di mobilio che arredavano le abitazioni. Al Ponticello sentii dei colpi di mazzolo che un uomo stava usando per demolire la porta murata di un fondo, per riprendere la biancheria e quant'altro di più prezioso che aveva riposto nel fondo nascosto, prima di sfollare, anche sotto tanti pali di legno.
Tutte le donne e i ragazzi erano molto impauriti e non ebbero la forza per protestare Anch'io assistetti impotente al compiersi di questo evento distruttivo e inimmaginabile, senza avere il coraggio di rivolgere la mia protesta al sergente tedesco. Sì, provo vergogna nell'aver sopportato quello scempio senza reagire, anche perché per tanti anni avevo cantato la canzone "fischia il sasso, il nome squilla dell'intrepido balilla...". Parlo di Giovanni Battista Perasso, il ragazzo di Portoria che diventò famoso per aver lanciato un sasso contro un ufficiale austriaco, dando inizio alla rivoltà che nel 1746 liberò la sua città, Genova. Per questo suo gesto quel ragazzo assurse a simbolo del patriottismo, e il regime fascista gli dedicò l'Opera Nazionale Balilla.
Sapevo che in uno sgabuzzino mia nonna teneva una pistola, un vecchia Colt a tamburo, con quattro o cinque pallottole, che aveva portato dall'America mio nonno materno Raffaello, che era emigrato, alla fine dell'Ottocento ed all'inizio del Novecento, più di una volta, negli USA. Quando entrai nella vecchia casa pensai subito alla pistola. Mi domandai: "Cosa ci faranno i tedeschi se la troveranno?" Non ci pensai molto. Subito presi l'arma e la buttai nel pozzo nero tirando un sospiro di sollievo. Tante volte ho rivissuto quel momento in cui, per paura e sgomento, sbagliai, perché avrei dovuto usarla quell'arma, a difesa della libertà, vilipesa e oltraggiata dalla Germania nazista.
Nel giorno in cui iniziò la distruzione di una parte di Seravezza non vidi nessuno dei miei vicini di casa.
Dopo l'esplosione delle bombe che rasero al suolo la segheria e fecero sparire, per effetto dello spostamento d'aria, anche la casa del Carducci e dell'Aurora, ubicata sul retro dello stabilimento, vidi passare davanti a me, al Ponticello - dove mi ero fermato per osservare i danni subiti dalla mia casa che al primo piano sembrava l'avessero segata con il filo elicodiale della cava - i coniugi Carducci. Camminavano abbracciati in direzione del centro di Seravezza, avevano il volto rosso e piangevano disperati. Entrambi ripetevano fra i singhiozzi: “Non c'è è più la nostra casina, non c'è più...”, mentre stavano calando le prime ombre della sera.