sabato 13 novembre 2010

UOMINI E TOPI

Ho girato questo mio racconto sullo sfollamento della gente di Seravezza, ordinato dai tedeschi nell'estate del 1944, a Paolo Capovani, affinché lo facesse pubblicare sul libro, curato dal Circolo Culturale Sirio Giannini, che parlerà della barbara uccisione dell'eroe seravezzino Amos Paoli.

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Davanti al metato dove si era rifugiata la mia famiglia, nell’estate del 1944, tra il Pelliccino e il Colle, un pomeriggio del mese di luglio o del mese successivo, si presentò una pattuglia di militari tedeschi al comando di un ufficiale. Nella nostra lingua che parlava abbastanza bene, ci disse che da lì dovevamo andare via. “Via, via! Subito! Guerra! Guerra! Gli americani sono vicini e fra pochi giorni ci saranno i primi scontri” In preda ad una comprensibile paura tutti rimanemmo senza parole. L’ordine era perentorio. C’era ben poco da dire e da fare, in fondo si trattava della nostra sopravvivenza. Dove andiamo? Sgomento e smarrimento trasparivano dagli occhi dei miei genitori. Sotto di noi, in fondo alla stretta valle, si vedevano i tetti delle case di Riomagno, troppo vicine alle postazioni tedesche per pxensare di rimanere laggiù. Più in alto a metà del monte che avevamo davanti, tra le foglie dei castagni si intravedevano le case di Giustagnana e fu proprio in quella località che mio padre decise di andare.

Lasciammo il metato con le poche cose che avevamo. A me fu affidato il compito di portare il materasso dal quale, quando qualche anno prima fu promossa, a scuola, una raccolta di lana da destinare alla produzione di maglieria e di calzettoni per i nostri soldati in Russia, mia madre ne estrasse alcuni pugni. Oh! Come appariva lontana la guerra da noi, il cui esito vittorioso all’inizio nessuno osava mettere in dubbio. Avevamo otto milioni di baionette e i canti "Vincere e vinceremo in cielo in terra e mare…". "Partono i sommergibili", forieri di tante illusioni e di troppo facili ottimismi. Per noi ragazzi, nati figli della Lupa, poi divenuti balilla e infine balilla moschettieri, la partita si stava chiudendo in modo davvero imprevedibile e non come tante volte ci avevano fatto credere o sperare. A Riomagno che raggiungemmo in poco tempo c’era una grande confusione con tanta gente che scappava dalla zona arrampicandosi sul monte per raggiungere i paesi sovrastanti di Giustagnana, Minazzana, Fabbiano e Azzano. Giunto alle piane del Loghetto, mentre mi riposavo, mi passarono accanto due fratellini, un bimbo e una bimba. L’uno con delle pentole e l’altra con dei piatti in mano. Gli occhi neri e tanto sbarrati della piccina esprimevano la grande paura di cui doveva essere in preda. Quello sguardo terrorizzato non l’ho mai dimenticato. Dopo aver ripreso l’arrampicata giungemmo vicino alla chiesa di Giustagnana, dove sostammo, ai margini della mulattiera, in attesa che mio padre facesse ritorno dal centro abitato in cui subito si era recato alla ricerca di una stanza dove poterci trascorrere almeno la notte.

Quando ritornò bastò guardarlo in faccia per capire l’esito negativo delle sue ricerche. Peraltro Giustagnana già da tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole ubicate lungo i pendii, adibite a ricovero degli attrezzi, erano state occupate da tanta gente ch’era fuggita dalle loro case sul mare o dall’immediato retroterra. “Stanotte si dorme sotto un castagno!”. E mentre mio padre pronunciava siffatte parole, fu udito anche da due uomini che con la "giubba" (giaccone, ndr) sulle spalle e con il pennato attaccato alla cintura dei pantaloni, all’altezza del fondoschiena, facevano ritorno a casa dopo aver lavorato nei boschi o nelle selve, l’unica attività che potevano ancora svolgere essendo state da tempo chiuse le cave e tutte le aziende della Versilia. "Potete sistemarvi in chiesa, ci sono già altri sfollati”, disse uno di loro. Quando mio padre ritorno bastò guardarlo in faccia per conoscere l’esito negativo delle sue ricerche. Nessuno ci diede una mano. Giustagnana gà da tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole, fatte di muri a secco e con i tetti di piastre erano state occupate da tanta gente costretta a lasaciare le loro case vicine al mare e nell’immediato retroterra. “Stanotte si dorme sotto un castagno!Quando ritornò bastò guardarlo in faccia per conoscere l’esito negativo della sua ricerca. Nesssuno ci diede una mano. Peraltro Giustagnana già da un po’ di tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole che c’erano in quel tempo lungo le pendici del monte, solitamente adibite al ricovero degli animali e degli attrezzi da lavoro con visibile soddisfazione. Per la buona notizia che ci aveva dato. In chiesa? Mi sdembrò una cosa incredibile da farsi. Ma non c’erano altre soluzioni e lì dovevamo andaare se non avesssimo voluto trascorrere la notte all’addiaccio.

Fui proprio io che, poco dopo, varcai la soglia della casa di Dio. A prima vista mi sembrò che all’interno non ci fosse più spazio tanta era la gente che l’aveva occupata. Fatti alcuni passi tra i materesassi e le altre cose sistemate con ordine sul pavimento della chiesa, vidi che ai piedi di un altare non c’era nessuno, era il solo posto rimasto libero. Tirai un grosso sospiro di sollievo. Intanto gli ultimi raggi del sole che stava per scomparire dietro il crinale del Monte Canala, penetrati a fasci, attraverso le vetrate colorate , illuminavano ancora l’interno del sacro edificio, nel quale spiccavano le immagini sacre e si muovevano esseri umani colpiti dalla sventura. Per un attimo mi sembrò di essere al centro di una scena irreale. Raccolta frettolosamente della legna secca e acceso il fuoco furono cotti gli ultimi patatini. E con la fame che ancora si sentiva, ci distendemmo sul materasso addosso ai nostri genitori. Quattro figli: un nido!. Quando stavo per chiudere gli occhi, uno sfollato fu improvvisamente colpito da convulsioni. Lo conoscevo questo uomo che a Seravezza , ogni domenica vendeva i giornali lungo le vie del paese. “Aiuto, aiuto…” gridavano i suoi familiari. In un attimo tutti gli uomini che erano in chiesa gli si avvicinarono per tenerlo fermo. Appena sentii dir:. “Si è calmato” di colpo mi addormentai. I giorni trascorsi a Giustagnana li ricordo come i più tribolati della mia vita. Nessuno pensò di scavare delle fosse per certi bisogni fisiologici, motivo per cui quando si era costretti a inoltrarsi nella vicina selve, non si poteva ritornare in chiesa se prima non si passava dal canale per lavarci bene i piedi, tanto puzzavano per avere calpestato gli escrementi umani di cui quel terreno era pieno.

Io non ce la facevo più a vivere in quel posto, troppo grande era la sofferenza. Esortai i miei genitori a cercare qualche casupola dove trasferirci. Fortunatamente trovammo una casettina tutta scalamata, ubicata tra Giustagnana e Fabiano, non più utilizzata dall’uomo, motivo per cui da tempo doveva essere il regno incontrastato dei topi visto lo spessore sotto le vecchie e screpolate tavole del pino riaalzato, dei  loro escrementi alto diversi centimetri formatosi col trascorrere del tempo sotto le tavole del piano rialzato. Dopo aver fatto riparare il tetto a nostre spese ed averla ripulita quella casettina che aveva una finestrina mi sembrò persino bella. Lì trascorse pochi giorni anche mia nonna Marianna che all’inizio dello sfollamento era stata ricoverata all’ospedale di Valdicastello. La portò lassù mio padre sulle spalle, quando venimmo a sapere che dimessa inspiegabilmente dal nosocomio, aveva fatto lentamente ritorno nella sua casa del Ponticello, dove fu assistita, non so per quanti giorni, dalla buona famiglia Landi che non aveva ottemperato all’ordine di sfollamento, continuando a rimanere nella propria abitazione fino al momento in cui i tedeschi decisero di far saltare in aria l’intero rione. Senza l’aiuto della famiglia Landi sicuramente mia nonna sarebbe morta di fame e di sete. E in quella casettina di Giustagnana che pareva dell’uomo primitivo, tanto piccola da poter sembrare quella di Biancaneve e Settenani, rimanemmo fino alla caduta delle castagne e alla nascita dei primi funghi. Fu proprio in quei giorni che a Giustagnana arrivarono i soldati di colore statunitensi della divisione Bufalo.

Raccogliere le castagne proprio davanti al nostro rifugio era un sogno che non poteva durare e infatti non durò. Quando immediatamente dopo l’arrivo dei soldati americani, mia madre rimase ferita ad una gamba dalle schegge dei colpi di mortaio coi quali i tedeschi accolsero l’arrivo dei soldati americani, fummo costretti a rifugiasi in un fondo del centro abitato adibito alla custodia di attrezzi per lavorare la terra. In un angolo c’era anche un mucchio di fieno. Mia madre ferita fu medicata dai soldati americani. E così mentre la natura donava i suoi frutti nutrienti e saporosi, la guerra scatenata da uomini folli che con la forza delle loro armi volevano imporre ai propri simili le loro ideologie e i proprie interessi, senza alcuna considerazione per i diritti sacri e inalienabili dell’uomo, primo fra tutti quello della libertà, continuava a mietere vittime innocenti. Che stridente contrasto tra il mondo davvero fantastico e meraviglioso e la libertà repressa nella maniera più violenta da essere spregevoli che meriterebbero di bruciare in eterno fra le fiamme dell’inferno.

martedì 9 novembre 2010

ECCO COME FU UCCISO AMOS PAOLI

Ho affidato questo mio scritto, sull'uccisione dell'eroe seravezzino Amos Paoli da parte delle S.S., a Paolo Capovani per il "Circolo Culturale Sirio Giannini", che lo pubblicherà sul suo libro, ricco di altre testimonianze di persone che videro, coi propri occhi, fatti violenti e sanguinari che si verificarono in Versilia e in Apuania durante la tragica estate del 1944 ed anche nei sette mesi successivi in cui, nella nostra terra, furono combattute aspre battaglie.

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Da ragazzo vedevo spesso transitare lungo la via del Ponticello di Seravezza un giovane con le grucce sotto le ascelle, abitante in una delle prime case di Riomagno, a poca distanza dall’inizio della mulattiera che conduce sulla cima del Monte Canala. Era Amos Paoli rimasto paralizzato alle gambe a causa della poliomielite contratta in tenera età, quando non esisteva alcun vaccino per combattere questa tremenda malattia infantile. Sul suo volto non vidi mai alcun segno di disperazione; andava avanti sopportando serenamente il suo grave handicap.

Guido Menchetti, che frequentò insieme ad Amos le scuole elementari di Seravezza, lo ha ricordato con la commovente poesia intitolata “Il mi' compagno di banco”, già pubblicata nel libro di storia versiliese di Giorgio Giannelli “Versilia. La trappola del 44”, che ricorda anche la cronaca della cattura di giovani di Riomagno da parte delle S.S., ritenuti aderenti al movimento partigiano: “Le gruccette tenea sotto l’ascelle / e stragicava le gambette secche; / su da Rimagmo fino ’n cima al Chiasso; / sembra guasi un assurdo: passo, passo. / A tracolla la misera cartella, /quando un era una borsa di pezzame, / gli sballottava sempre sulla schiena / e cotanta sventura era ’na pena. / E dopo tre rampate di scalini / con le stampelle misse sott’un braccio, / arrivava nell’aula già stanco / il Paoli, compagno mio di banco. / Fu martire da vivo ed or che morto / leggo ’l suo nome su ’na lastra bianca, /una palma, mi sovvien, / forse era nata / perché al mi amico fusse un dì donata. / Come fece ’l Ferrucci a Gavinana, / puntando ’l dito contro l’aguzzino, / gli avrà certo parlato a fiato corto: / Oh vigliacco! Tu uccidi un òmo morto. / Che eroi! Che bravi! / E che fadigata / avranno fatto per distrugge un mito! / Che ‘n Versilia era esempio d’onestà / d’amore, d’abnegazione e libertà. / Povero Amos! Te un ridei mai; / ma’n t’ho mai visto piange o lamentatti: / con que’ riccioli biondi e ’l viso bianco, / fusti per me,’l compagno mio di banco”.

Ricordo Amos anche quando i suoi amici lo portavano in giro sulla canna delle proprie biciclette. Stridevano i freni allorché scorrazzavano lungo la via sterrata e piena di sassi del Ponticello, dove Amos ed il suo amico si fermavano sempre nella piazzetta del centro del rione per chiacchierare con le ragazze, che Amos accoglievano sempre con simpatia. Allora lui rideva, oh come rideva in quei momenti! Nella notte fra il 25 e 26 giugno 1944, un gruppo di S.S. guidate da un repubblichino che faceva da interprete, circondarono la casa del Paoli per catturare suo padre che invece non vi fu trovato. La soldataglia stava per andarsene quando il repubblichino gridò: “Qui ci devono essere delle armi per forza!” Saltarono così fuori uno Sten e due pistole Smith che prima che i tedeschi entrassero nell’abitazione, il fratello più piccolo di Amos aveva nascosto sotto un materasso. Alla fine Amos, fatto salire sulla propria carrozzina, fu trasportato in una villa vicina a Corvaia insieme a Luigi Novani che si era fermato a dormire nella casa dell’amico ed a Lorenzo Tarabella, arrestato in una abitazione adiacente a quella del Paoli, dove pensavano che vi fosse il partigiano Giuseppe Marchi, che fortunatamente aveva trascorso la notte altrove. Il giorno 26 giugno le S.S. portarono in giro Amos e i due suoi amici per le vie di Seravezza e di Riomagno, a bordo di una camionetta, che tra l’altro, nel momento in cui aerei alleati sorvolarono la zona, si riparò sotto la piccola volta di Riomagno, all’inizio della mulattiera che sale alle cave della Cappella. Al Paoli fecero rivedere la sua casa; volevano intenerirlo.

Gli promisero che lo avrebbero rilasciato se lui avesse fatto il nome dei partigiani che conosceva, ma lui non fiatò. Disse soltanto: “Finimola con questa storia!” Riportati a Corvaia li misero al muro con le spalle rivolte verso di loro, sparando colpi di pistola fra l’uno e l’altro. Dopo qualche ora i tre furono fatti salire su un camion e trasportati nella villa di Compignano, sopra il monte Quiesa, dove operava il comando delle S.S.. Durante il trasporto dovevano stare in ginocchio e non più seduti. Amos non ci riusciva e furono i suoi due amici a sorreggerlo durante tutto il viaggio. Appena arrivati, i tre giovani furono picchiati a sangue e mentre picchiavano, al Paoli gridavano: ”Tu capo partigiano!”. All’alba del 27 giugno 1944 una S.S. trascinò per una gamba il povero Amos fuori dalla villa per un centinaio di metri, mentre il poveretto urlava: “Oddio, Oddio!”. Quando egli vide che il tedesco stava caricando la pistola cominciò a invocare la sua mamma. Fu in quel momento che la S.S. gli scaricò al centro della fronte l’intero caricatore, gettandone poi il corpo giù da un poggio.

Aveva solo ventisette anni. I due amici di Amos, il Novani e il Tarabella, che raccontarono poi gli avvenimenti e le loro peripezie, riuscirono a salvarsi dopo aver subito botte e concrete minacce di venir uccisi. Concludo ricordando che fu mio padre a murare a Compignano, dove la mia famiglia si era trasferita qualche mese dopo la fine della guerra, la piccola lapide nel punto in cui Amos Paoli - che per il suo comportamento fu insignito, alla memoria, di Medaglia d’oro al Valor Militare - fu barbaramente trucidato; fui io a tenerla alzata e aderente al muro mentre la murava. Glielo aveva chiesto il babbo dell’eroe che aveva occasionalmente incontrato a Pietrasanta. Il Paoli sapeva che abitavamo in quella località e dopo aver saputo da mio padre stesso che il fattore della tenuta, in cui fu ucciso suo figlio, non aveva provveduto all’incarico che gli aveva dato, gli disse “Orlando, pensaci tu”.

mercoledì 3 novembre 2010

Le antiche origini di Seravezza

Ai piedi del contrafforte tirrenico delle Alpi Apuane, nel punto di confluenza delle acque dei fiumi superiori Serra e Vezza,laddove nasce il Versilia, il fiume che ha dato il proprio nome a tutto il territorio circostante dai monti alla pianura, quest'ultima ristretta tra il Cinquale e Motrone, sorge Seravezza, già nota, nel 952, con il nome di Sala Vetitia.
Con il nome invece di Salavecchia fu citata da Tolomeo nei suoi annali lucchesi del 1142, quando i nobili di Corvaia e di Vallecchia, Veltro e Uguccione investirono il comune di Lucca della metà del territorio di Corvaia. In uno scritto del 2.2.1186, Giovanni Torgioni Tozzetti, rammenta una villa di Seravetitia, nome che si ritrova anche in un documento del 1375 concernente la vendita di una ferriera, ivi esistente, di proprieà del nobile della Versilia Niccolò dello Strego, ad Ulderico Anteminelli da Lucca.
Insediamenti di popoli di origine ligure nella pianura di Seravezza e in quella limitrofa (Pietrasanta), tanto per dare uno sguardo al passato alla ricerca delle nostre radici, risalgono al 177 a.C. come fu provato dal ritrovamento, in località Baccatoio, di un cimitero antico con tombe a cassetta a incinerazione, tipiche dei liguri di quel tempo, Il cimitero fu scoperto nel tratto del terreno sul quale doveva passare la rete ferroviaria Roma Torino, che fu realizzata dopo l'unità d'Italia (1861).
Contrariamente a quanto anch'io, fin da ragazzo avevo creduto, non sembra proprio che il nome di Seravezza derivi dai fiumi Serra e Vezza, in quanto gli stessi fino agli anni del 1800 , erano conosciuti come i torrenti, rispettivamente di Rimagno e di Ruosina. In ordine a tale constatazione si può dedurre che siano proprio i fiumi superiori del Versilia a derivare dal nome di Seravezza.
Già feudo dal secolo XIII dei signori di Corvaia e di Vallecchia per volere dell'imperatore Federico II, Seravezza, quando fu abbattuta la potenza feudale, fu unita alla Vicaria di Pietrasanta. Saccheggiata e devastata nel 1429 dalle milizie fiorentine in guerra con Lucca, capeggiate dal commissario Astorre Gianni, le stesse di ritorno da Sarzana ( narra Niccolò Macchiavelli nella sue Istorie fiorentine) irruppero a Seravezza dove fecero suonare una campana della chiesa davanti alla quale si radunò la popolazione, convinta di ricevere qualche buona notizia. Invece tutti i presenti furono spinti ad entrare nellla casa di Dio, dove le donne furono separate dagli uomini che furono rinchiusi in sacrestia. Dopo questa separazione le femmine di qualsiasi età, vergini o sposate, furono tutte violentate.Con gli abiti ridotti a brandelli, nude o quasi, fecero ritorno nelle loro case. Di Astorre Gianni ha parlato anche Jbernard Sancholle Henraux, che sull'orrendo comportamento degli uomini di questo commissario fiorentino, ha scritto che: “...fece passare a fil di spada” gli uomini di Seravezza. Nel 1450,seguendo le sorti di Pietrasanta, passò ai Genovesi; nel 1484 a Firenze, nel 1486 a Carlo VIII Re di Francia; nel 1509 a Lucca per volere dell'imperatore Massimiliano, e poi ancora a Firenze, dopo il Lodo di Leone X del 28.9.1513.
Da allora Seravezza rimase sempre unita a Firenze, fino a quando il Granducato di Toscana, in quel tempo sotto sotto gli Asburgo-Lorena fu annesso al Regno Sardo con il plebiscito del 15 marzo 1860. Da tale unione molti vantaggi ed una parziale autonomia derivarono a Seravezza, verosimilmente anche in relazione all'atto di donazione delle cave della Ceragiola e del Monte Altissimo che i seravezzini fecero a Firenze nel 1513.
Si deve ai fiorentini l'impulso dato negli anni successivi all'escavazione dei marmi, ai quali furono interessati sia Michelangelo che Giorgio Vasari ed altri celebri scultori di quel tempo, inviati a Seravezza da Leone X e da Cosimo I, per seguire di persona l'estrazione appunto dei marmi di cui avevano bisogno per realizzare le loro opere.Notevole incremento fu dato anche allo sfruttamento delle miniere d'argento esistenti nei pressi di Seravezza, chiamate del Bottino,alle quali lo stesso Cosimo I fu molto interessato, tanto da fare cesellare un vassoio, ricavato dal primo quantitativo del prezioso minerale, dal celebre incisore Benvenuto Cellini.
In quegli anni e per lungo tempo furono famosi i laboratori per la produzione di oggetti in rame, di ferro e di archibugi, questi ultimi fabbricati nella vicina Valventosa. Dopo un periodo di abbandono delle cave, che iniziò intorno al 1688, l'economia di Seravezza si riprese quando fu fondata nel 1821 da J.B. Alessander Henraux l'omonima società, sotto la quale l'escavazione e la lavorazione del marmo ripresero a pieno ritmo, tanto da determinare la crescita di Seravezza a tal punto da essere considerata la capitale della Versilia.
Dal punto di vista artistico, pregevole è il duomo di Seravezza, dedicato ai Santi Patroni  Lorenzo e Barbara, coperto da cupola e con il campanile merlato a bifore, risalente al 500, ma riedificato e ammodernato nei secoli XV e XVI e restaurato dopo i gravi danni subiti nel corso della seconda guerra mondiale, quando nei mesi finali, fu combattuta aspramente anche sui monti di Seravezza.
L'interno a tre navate separate da colonne, è ricco di altari, di un pulpito di stile barocco in marmo policromo, di una piccola fonte battesimale scolpita da Stagio Stagi nel sec. XVI, e di un paliotto marmoreo intarsiato del 600,di Iacopo Benti.Una croce
d'argento dorato in mezzo a figure di santi, tra i quali San Lorenzo, attribuito al Pollaiolo, con incisa l'iscrizione dell'anno 1498, si trova nella sacrestia dove vi sono altri preziosi arredi sacri. Nel duomo sono conservati, in una bara di vetro posta sotto un altare, i resti di S. Discolio martire, soldato di Roma.
L'altra chiesa di Seravezza, dedicata alla Santissima Annunziata, completamente rasa al suolo dai tedeschi insieme a tutte le case dei rioni Fucina e Ponticello durante la tragica estate del 1944, fu ricostruita nel dopoguerra. Nel paliotto mostra un bassorilievo di D. Benti con la Vergine ed il Bambino. Nell'interno si ammira la tela dipinta da Pietro da Cortona (Pietro Berrettini) nella prima metà del XVII Secolo “Le Pie Donne al Sepolcro”, dono del granduca di Toscana Leopoldo II. L'opera fu salvata dalla distruzione da Raffaello Binelli, il quale riuscì a staccarla dalla cornice, insieme alla tela l' Annunciazione, dipinta da Filippo di Luca Martelli da Massa nel 1639 circa, prima che la chiesa saltasse in aria.
Particolarmente interessante è il palazzo Mediceo, noto un tempo come Casinò Ducale, costruito fra il 1555 e 1565, secondo taluni dall'architetto B.Ammannati, secondo altri dal Buontalenti, su ordine di Cosimo I, il quale vi dimorò nei mesi estivi sia perché attratto dal clima mite di Seravezza, sia perché desideroso di seguire personalmente, l'estrazione dell'argento dalle miniere vicine, chiamate del Bottino. Anche dopo la morte di Cosimo I il palazzo fu sempre adibito a dimora estiva dei granduchi di Toscana, fino a quando nel 1784 fu ceduto alla comunità di Seravezza,la quale però ne perse il possesso per volere dello stesso Leopoldo I che volle adibirlo a uffici e magazzini dell'azienda per l'allevamento delle trote, con vivai situati nei pressi di Ruosina.
Il palazzo costituito da due ali avanzanti che racchiudono il cortile, dopo una serie di lavori eseguiti, negli anni 1970 e 1980, è ora adibito a importanti mostre ed a manifestazioni culturali di grande interesse. Per molti anni fu anche sede comunale. Seravezza fu famosa anche per la purezza delle acque dei suoi fiumi. Forse perché fu scolpita nella pietra e posta sopra il pozzo sito all'interno del palazzo Mediceo, si ricorda , ancora oggi, la trota di 13 libbre che nel 1603 fu pescata nel fiume di Ruosina dalla granduchessa di Toscana , Caterina Asburgo Lorena.
Emerge , tra le opere più vicine a noi, il monumento ai Caduti della vittoriosa prima guerra mondiale 1915/1918, per la forza prorompente che sembra sprigionarsi dalla scultura raffigurante l'uomo di Seravezza, mentre, nella sua completa nudità, solleva al cielo un masso di marmo scavato dalla montagna. E' un'opera ammirevole anche per la bellezza ed i significati dei suoi quattro bassorilievi, ma che al tempo stesso s'impone per la sua potenza mascolina.
Il monumento ideato ed eseguito dallo scultore camaiorese Cornelio Palmerini, inaugurato il 19.5.1929, fu portato a termine dopo la morte del Palmerini,avvenuta nel 1927, da Arturo Dazzi.
Bellissima è anche la fontana che si trova nella piazza del centro adornata da stupende sculture raffiguranti fanciulli a cavalcioni di pesci marini,un'opera che reca ancora visibili i danni subiti durante gli eventi bellici del 1944/45. =""
Ma è dallo splendore dei suoi marmi abbacinanti, impastati con l'acqua del mare e dai suoi monti rimasti antichi, laddove non c'è stata alcuna estrazione dei marmi, che vieppiù c'è da rimanere sedotti da questa Seravezza che certamente abbagliò gli occhi di coloro che per la prima volta la videro, quando il sole non aveva ancora annerito le rocce bianche e policrome, spuntate dalle distese marine, durante il movimento divino di formazione della crosta terrestre, in uno sfavillio di luci riflesse nel cielo. Parlando dell'ospedale di Seravezza debbo dire che già nel 1515 viene menzionato lo spedale, ivi esistente con la chiesa dedicata a S. Maria, poi convertita nella chiesa della Misericordia. Per quanto riguarda l'assistenza ai "vecchi", o come si dice ora non autosufficienti, ed agli orfani, risale alla fine del 1700 la fondazione del Conservatorio da parte del cav. Ranieri Campana, un'opera ingrandita nel 1772 e aperta nel 1794, otto anni prima che il conte Francesco Campana, appartenente alla stessa pia famiglia, dopo essere riuscito a unire le due fondazioni fondò l'ospedale che ha funzionato per circa 200 anni a Seravezza, cioè fino all'entrata in funzione nella pianura vina al Lido di Camaiorene del nuovo ospedale chiamato Versilia.
Seravezza ha dato i natali a padre Giovanni Lorenzo Berti, nato nel 1688, teologo imperiale, professore nell'università di Pisa ed autore di varie opere: al letterato padre scolopio Francesco Donati, detto Cecco Frate, che fu amico di Giosuè Carducci, al cavaliere Luigi Angiolini che fu ambasciatore del governo Toscano a Roma ed a Parigi; concluse la sua carriera con la nomina a consigliere di Stato, al pittore Giuseppe Viner, allo scrittore Enrico Pea ed al professore Dino Bigongiari che per oltre 50 anni fu docente alla Columbia Università di New York.
Tra gli uomini del nostro tempo dobbiamo ricordare lo scrittore Sirio Giannini, scomparso prematuramente, il defunto senatore Armando Angelini e l'onorevole avvocato Leonetto Amadei anche questi defunto, che fu un parlamentare per diverse legislature fino a divenire il Presidente della Corte Costituzionale. Voglio ricordare anche Lorenzo Tarabella che oltre ad essere stato un forte cavatore, fu anche un sensibile poeta e scrittore.
Seravezza ha un futuro. Stretta fra i monti che ne hanno impedito l'espansione, danneggiata gravemente dagli eventi bellici del 1944/1945, anche se si è sempre ripresa dalle gravi avversità grazie soprattutto al lavoro della sua gente, ha perso molti dei suoi primati che aveva verso la fine del 1800 e nei primi decenni del 1900 quando contava innumerevoli laboratori ed industrie Parallelamente alla escavazione e lavorazione dei marmi che rimane un fattore trainante della sua economia, Seravezza che dalla fine dell'anno 1975 si fregia del titolo di città concesso con decreto dell'allora Presidente della Repubblica, per il fatto di essere sommersa da un mare di verde , davvero un oasi, e con un clima fresco e mite, ha tutte le caratteristiche per divenire un luogo di riposo e villeggiatura, particolarmente interessante in quanto a poca distanza dalla marina di Forte dei Marmi e sotto i monti più belli del mondo. Sarebbe auspicabile che fossero costruite alcune strutture alberghiere e due gallerie per impedire la circolazione dei mezzi pesanti dentro il centro abitato. Una dovrebbe essere costruita sotto il monte Costa e l'altra sotto il monte di Ripa. La cittadina si presta per le sue caratteristiche ad un mercato permanente dell'antiquariato e dei prodotti artigianali di tutta la Versilia del fiume.